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libertè / diversitè / laissez faire

Come siamo diventati qui?

La telefonata arrivò un pomeriggio di fine inverno, il sole che resisteva sempre più a lungo iniziava a scaldare l’atmosfera, non era sgradevole intrattenersi all’esterno. Ero al lavoro. Una voce sconosciuta chiese se ero proprio io, nome e cognome, il dottor nome e cognome corresse subito. Certo che ero io e lui? – Carlo Cannavacciuolo. - Chi cazzo era? – Il fratello di Maurizio… – suggerì la voce. Iniziai a fare luce, Maurizio Cannavacciuolo era un ex utente del servizio, inviato da noi dall’ospedale San Gregorio Magno per le malattie infettive tramite intercessione dei Servizi Sociali. Ricordai i suoi riccioli neri, la voce forte ma confusa. Diabetico, AIDS, compromissione neurologica, un vero ritardo mentale acquisito in età matura, per quanto possa essere maturo un quarantenne che alla faccia dei problemi di salute continua a usare eroina quotidianamente. Oppure alcool fino a stordirsi, come avevamo potuto constatare. In fondo però era simpatico, un buono sfortunato. Il fratello era molto peggio di lui ricordavo, un personaggio sgradevole seppure, come certi meridionali, era affezionato alla famiglia, si prendeva cura di Maurizio. – Ebbene? - Posi la domanda con un tono che mi suonò sgarbato, senza intenzione ma la considerazione dell’interlocutore ebbe la meglio inconsciamente sulla falsità del comunicare civile. Lui sembrò imbarazzato. – Insomma, cioè, volevo… - Stavo per stufarmi quando finalmente lo disse. – Maurizio è morto, volevo dirvelo. - Oh… sebbene per un personaggio del genere la morte sia una possibilità sempre presente la notizia mi colpì. Mi tornò in mente un pranzo di Natale, o forse era Capodanno, lui nel bagno dell’agriturismo con la siringa dell’insulina nel braccio, un signore nemmeno troppo anziano che corre via gridando “un drogato, un drogato”. Per carità, drogato lo era certamente ma non in quel momento in cui si apprestava a dedicarsi agli gnocchi alla bava. Non potei fare a meno di essere adeguato alla circostanza. – Mi dispiace, le mie condoglianze… Quando sarà il funerale? A Torino, no? - – Ah, no… Cioè, volevo dirvelo ma mi sono dimenticato… Mio fratello è morto due mesi fa. Mi sono ricordato di voi solo oggi, vi ho chiamato subito. - Subito, bene! Bravo. Mi lasciò senza parole, che dire ancora a un cazzone del genere? Mi sforzai. – Oh… E come è morto? Era a casa? - – No, no era in casa, l’hanno trovato nel parco di via Artom… - – Sotto casa allora. Stava lì. - – Stava nel parco, sì, su una panchina… – un attimo di silenzio, cervello che gira al massimo – Ah… no, cioè sì... abitava da noi se intende questo. – Intendevo questo. – Era stato in una comunità alcuni mesi… A Vercelli. Dopo che era uscito da voi voglio dire. Qualche mese a casa ma non ce la faceva. Depressione, non si curava, non portava soldi nemmeno andava a fare solo la spesa, niente… L’avevo indirizzato in quella comunità ma non gli piaceva, si trovava male. - – Capisco, ma la causa della morte? - – Non si sa… Forse un infarto, forse un malessere… C’erano delle siringhe sotto la panchina allora le malelingue hanno cominciato a mettere in giro certe maldicenze, bastardi, come fossimo una famiglia di drogati. Noi! - Se non voi chi? Ero tentato di dirglielo ma tacqui per decenza. – In casa non stava bene. – riprese – Ci hanno tagliato la luce, il gas… non si riusciva a vivere, non si riesce. - – Come è possibile che vi abbiano tagliato tutto? – domanda retorica. – Ti ricordi Maria Concetta? – passa al tu, siamo diventati amici? – La mia ex fidanzata, sì, ex compagna? Era venuta un paio di volte a trovare Maurizio quando era ricoverato da voi… - Come poter dimenticare quella visione orrenda? Una ragazza presumibilmente ancora giovane ridotta in quello stato penoso. – Sì, sì la ricordo, certo. - – Ebbene… Quella puttana era una drogata! – cazzo, che scoperta sorprendente – Per più di un anno ha preso i soldi che le davo per pagare le bollette, per più di un anno, e andava a farsi. Poi diceva che aveva pagato. Quando sono arrivati arretrati di un intero anno, da quando stavamo insieme, ha svuotato la casa ed è scomparsa. Tutto ci ha portato via, televisore, computer, telefoni, anche una poltrona che le piaceva… pure delle pentole! Aveva sicuro qualcuno che l’ha aiutata, ‘sta bastarda, se la trovo non dico cosa le faccio, ma glielo faccio, oh sì che glielo faccio. - Tra tutte le storie di tossici che avevo sentito questa sembrava una delle migliori. – Ma adesso? Ve l’hanno riallacciata la luce? Il gas? - – E come? Chi cazzo ce li ha i soldi per pagare? Quelli vogliono tremila euro come anticipo, poi ratizzano, rattizzano... cioè fanno a rate quello che resta. Ogni mese ti prendono un tot dallo stipendio. Ma chi ce l’ha uno stipendio. Sono rimasto solo, non c’è nessuno che lavori… - – Ma non lavoravi? Ricordo che dicevi ti avevano assunto in Fiat. No? - – Ah, sì, bella roba la Fiat! Quei bastardi si sono inventati che là dentro rubavo e mi hanno licenziato. Bella gente lì, cazzo. - Proprio inventato se lo saranno – Cavolo! – fingo pure stupore, che falso che so essere – Ma allora come vivi? Cosa fai? - – Ogni tanto faccio il parcheggiatore davanti alla Fiat, proprio nel parcheggio grande, qualcosa si tira su… Poi mi arrangio… - Me lo vedo, li fa parcheggiare, magari gli vende pure qualcosa, fumo, roba... poi, con comodo, gli apre l’auto e si prende quello che c’è. Me lo vedo davanti agli occhi. – Una volta però, – ha preso il via – una volta è arrivato un mio ex collega, uno di quei bastardi. Penso che siano loro che rubavano e hanno accollato tutto a me, ‘sti stronzi… Mi sono nascosto perché non mi vedesse, poi quando è entrato a lavorare gli ho sistemato per bene la macchina. Una bella sorpresa gli ho fatto a quel porco, pure un’Audi si era comprato… Però adesso è meglio non mi faccia vedere tanto in quel parcheggio, non si sa mai. - Certo che se ti trova lì il tuo ex collega ti sistema per bene, il solito furbo. – Ma così non hai nemmeno quel lavoretto, chiamiamolo così. - – Ecco, nemmeno quello. Vita infame! Sono andato dall’assistente sociale ma dice non può fare niente quella troia, dice che ormai mi hanno dato tutti i contributi che potevano, ora ci sono tanti altri che hanno bisogno… Vorrei proprio vedere se hanno più bisogno di me, vorrei proprio vedere. Mi ha anche detto di trovarmi una comunità dove andare, ma loro non pagano più. Già quattro comunità mi hanno fatto fare, dicono… Certo che se mi mandi in certi posti del cazzo come puoi pensare che una persona viva, reale, stia lì dentro? Non sono mica un manichino che lo metti lì e lui resta lì… Nessun aiuto mi danno, bastardi! - – Ok… – mi sfugge il suo nome – Va bene signor Cannavacciuolo, la ringrazio per la notizia per quanto brutta della morte di suo fratello, le porgo nuovamente le condoglianze, mie e dei miei colleghi. – passo al lei, rimettiamo un po’ di distanza. – Ah… ma non potete fare qualcosa voi? Qualcosa… tipo convincere l’assistente sociale che ho proprio bisogno di quei soldi. Con gli arretrati non pagati dell’affitto sono soldoni… gioco tutte le settimane tre volte al superenalotto, gioco al lotto, ma non vinco mai, cazzo. Una vincita mi metterebbe a posto per la vita, dio bastardo, ma non viene mai. - Mi viene da ridere, fatico a trattenermi. – Il gioco non è mai un modo per tirare su quattrini, pensi a qualche lavoro, lavoretto, qualcosa di onesto, di regolare intendo… Vada al centro per l’impiego. Ai servizi sociali, poi, non chieda soldi, chieda un aiuto per lavorare. Si tiri su le maniche qualcosa succederà. Non saprei dirle altro. - – Eh sì, bei discorsi fate voi tutti eh! Fate tutto facile, voi… – avverto ostilità crescente – Pensi un po’ oggi per esempio ho solo dieci euro nel portafoglio, tutto quello che mi è rimasto! Dieci euro! Cinque se ne vanno per le sigarette, via, ne restano altri cinque, eh! Vado al supermercato per mangiare, con cinque euro devo scegliere, così sono ridotto, o mi prendo un panino e non ho più niente per bere o mi prendo due birre e non mangio. Ovvio che scelgo le due birre, bere è più importante, no? Bene, vede come mi fanno stare i vostri discorsi? Tutti a parole sono d’aiuto, quando hai bisogno nessuno ti da un euro, nessuno. Bastardi! Bei bastardi siete… - Cade la linea, o forse ho riattaccato io, forse ha finito il credito. Bel bastardo che sarei?

Quel mattino John restò a poltrire a letto. Lui che sempre si alzava presto, magari alle cinque per arrivare in fabbrica al primo turno, alle sei, per abitudine non restava mai a riposare oltre le sette. Non ricordava da quanti anni andasse avanti quella vita. Quel mattino invece trovò particolarmente piacevole muoversi tra le lenzuola, cambiare posizione a occhi chiusi, nemmeno controllare che ore fossero. Sentiva che avrebbe potuto dormire ancora, come per recuperare ore e ore di riposo perse nel corso della vita. Ne era stupito ma la considerava una conquista. Quando infine si alzò vide sullo schermo dello smartphone che si erano fatte le nove e trenta, trentatré per la precisione, due ore e mezza di recupero si disse. Avvertì un lieve cerchio alla testa, incolpò la poca abitudine al sonno prolungato, un caffè e passa. Salutò Claudio, il suo coinquilino era già sveglio e anche questo non era solito, lui dormiva fin quasi all’ora di pranzo. Mentre preparava la colazione per entrambi il dolore aumentò, la sensazione di avere un chiodo infilato nel cranio. Una sensazione reale, tanto che si toccò la parte superiore a destra della testa. Ovviamente non c’era niente, pensò di essere stato stupido a controllare. Quando la caffettiera cominciò a borbottare le ginocchia gli si piegarono, John cadde sul pavimento e ci rimase. Aveva solo ricordi molto confusi, Claudio che lo scuoteva guardandolo dall’alto, il suo viso preoccupato, uomini vestiti di arancione che gli giravano intorno, il paesaggio che variava velocemente. Non riusciva a percepire il tempo che passava. A un certo punto, non sapeva dove era, nemmeno quando era, gli sembrò di sognare. Vide sua madre che lo sgridava, si era avvicinato troppo al fiume, solo i grandi si potevano avvicinare, era pericoloso. La madre era giovane, molto giovane, lui sapeva che era morta da anni, portata via dalla malaria. Quell’ambiente gli ricordava il passato, non poteva essere ma sicuramente era, il Ghana. Ma non il Ghana moderno che aveva visto due anni prima, nel corso del suo ultimo viaggio, questo era lo sfondo delle sua infanzia. D’altronde la madre così giovane, lui era nato quando lei aveva diciassette anni, le case con i tetti di lamiera, chiamarle case dopo essere stato in Europa era difficile, tutto concorreva a ricordare il passato. Anche la sensazione che provava, combattuto tra la curiosità per il fiume proibito dove poteva andare solo scortato da uno dei genitori del villaggio, la soddisfazione di averlo fatto, averlo visto da solo senza nemmeno gli amici, e la paura di quello che poteva succedere, fossero i coccodrilli o i mercanti che rapivano i bambini, quello che aveva sentito al ritorno dalla scappatella. Probabilmente, però, la paura più grande gliela incuteva proprio la madre, sapeva che le sue punizioni potevano essere terribili, le sue mani che spesso lo accarezzavano potevano colpirlo con violenza, poteva poi essere chiuso per ore al buio, a riflettere sui suoi errori diceva. Ma come ci era arrivato in Ghana? Perché era tornato a quel tempo? John sapeva di avere sessantatré anni, di vivere in Italia da oltre trenta… Si sforzò di ricordare, di mettere in fila una poi l’altra le nozioni che considerava vere e contemporanee, il lavoro in fabbrica, una fonderia, la casa nel centro di quel paesino alla periferia di Torino, la Grande Punto usata che aveva acquistato da un connazionale, rossa. Aveva problemi di cuore, questo gli aveva detto il medico dopo gli ultimi controlli… Aprì gli occhi sentendosi toccato sul viso, li richiuse subito, aveva visto un volto di donna con una mascherina chirurgica vicinissimo al suo. C’era stata la pandemia, il corona virus ma era finita, no? Sembrava piuttosto che quella donna gli sollevasse le palpebre e guardasse le pupille, lo fece nuovamente con l’altro occhio, non capiva se fosse il destro o l’altro, come cazzo si chiama. Si sentì infastidito diede uno spintone alla donna, meglio, avrebbe voluto ma il braccio non si mosse. Cosa succedeva? C’entrava sua madre? Una vendetta tardiva per la sua partenza? Emigrare fu una scelta che facevano in pochi a quel tempo, ricordava che la salutò al villaggio, lei rifiutò di accompagnarlo all’autobus che l’avrebbe portato via. Aveva le lacrime agli occhi al contrario della sua eccitazione. Non la vide più. Quando tornò, dieci anni e molte lacrime dopo, scoprì che era morta. La malaria, spiegarono. Come suo padre quando lui era bambino. La malaria portava via chi non se ne andava in tempo. Restò il ricordo di quella donna giovane, molto giovane, forte tanto da crescere tre figli da sola con solo l’aiuto del villaggio. La paura delle punizioni severe, l’amore che sentiva quando era in casa. Una lama di luce colpì gli occhi, non capì se li aveva aperti autonomamente o no, uomini vestiti di bianco o di verde, cuffie e maschere, gli giravano intorno. Tubicini appesi. Era stato rapito dagli alieni? No, non credeva a quelle cavolate. Non erano più serie del malocchio che gli stregoni della sua infanzia lanciavano a pagamento contro i nemici. Certo c’era qualcuno che ci credeva, a entrambe le cose, magari non insieme. Pensò al paradiso, alle storie che la madre raccontava ai figli, Albert il fratello minore e la sorellina, la sorellina… Come poteva non ricordare il suo nome? Non lo ricordò, per quanti sforzi fece. Passò un tempo indefinibile a scrutare l’immagine mentale di quel volto di bambina stampato nella sua memoria, sua sorella, ma il nome non lo ricordava più. Sapeva che anche lei era morta da alcuni anni, non più la malaria, cioè quella l’aveva sì, ma la causa di morte, gli raccontarono, fu l’AIDS. Morta, più giovane, senza nome. Sentì qualcosa stringere il braccio, tra il gomito e il bicipite, come quando ti misurano la pressione. Tra il continuo brusio che gli riempiva le orecchie sentiva dei beep elettronici. Persone sconosciute e mascherate passavano nel suo campo visivo. Era stanco, chiuse gli occhi, sembrava piacevole stare distesi, a letto, al caldo, senza doversi preoccupare del lavoro. Niente da fare, solo riposare… Quando riaprì gli occhi pensò di aver dormito, non sapeva se era vero, che ora fosse. Vide che era in un letto, una via di mezzo tra l’essere sdraiato e seduto, intravedeva macchinari strani, numeri colorati che scorrevano. Quei fili arrivavano alle sue braccia, al suo torace. Ripensò agli alieni, no, ma dai. Davanti a lui un letto con un uomo sdraiato che dormiva, o era morto. Decise di voltare la testa per guardare di lato ma nulla si mosse, provò ancora, niente. Ci pensò, considerò che non sapeva come si faceva a muovere la testa, non ricordava più. Era paralizzato? Tornò a considerare il paradiso, quello di quel predicatore ebreo di cui parlava la madre, o quello dei vecchi del villaggio, dove andava chi moriva, insieme agli animali ormai estinti. Animali giganteschi, gorilla giganteschi, coccodrilli lunghissimi ma non erano cattivi, no. Lì tutti erano amici, per quello era un paradiso. Ricordò che nella sua vita adulta, quella iniziata con quell’autobus giallo sporco di cui ricordava ogni dettaglio, iniziata a sedici anni e mezzo con la nave mercantile che lo portò in Francia, in quella vita non credeva ai paradisi. A nessuno dei due. Non ne ricordava il motivo, solo che li considerava falsi entrambi. Provò a concentrarsi, doveva capire cosa stava succedendo. Concluse che l’unica parte del corpo su cui aveva qualche controllo erano le palpebre, un po’ poco. Poco come controllo e poco come comprensione della situazione. Non ricordava quasi nulla di quanto era successo. Cioè, proprio nulla. Niente. Stranamente quella consapevolezza non lo angosciava, gli era del tutto indifferente. Non avvertiva sentimenti, nemmeno sensazioni, poteva essere caldo o freddo ma non lo sapeva. L’Africa era calda, l’Europa fredda, specie in inverno. Chissà in che stagione erano. Si sentì sfinito. Non aveva visto nessuno, vestito di qualsiasi colore, non si chiese più dove fosse, era così importante? Scivolò in una specie di sonno, forse di incoscienza. Riaprì gli occhi, voci lontane lo avevano destato. La luce era forte, come un sole guardato direttamente, come il fuoco che fonde l’acciaio, l’altoforno. Aveva visto i primi altoforni negli anni ottanta, in Francia, nel sud della Francia. Il ciclo di produzione francese lo aveva interamente inciso nella memoria come su pietra, come una Stele di Rosetta poteva confrontarlo con quello tedesco o quello in uso a Taranto. In Puglia era vissuto alcuni anni, la fonderia di Taranto, enorme, una città gli era cresciuta intorno. Il passato, era il passato questo. Il pensiero spuntò all’improvviso, stava pensando al passato lontano perché ricordava solo quello. Di cosa succede oggi non è dato sapere nulla. Dove sono, perché sono qui, che giorno è… Chi sono? Provò a definirsi, aveva sempre dato per scontato di essere lui, cioè, sé stesso, ma se ora doveva specificare, sempre a sé stesso, chi era questo sé non era in grado di dargli un nome. Ricordava che tutto aveva un nome. Sua madre si chiamava Rose, come un fiore, suo padre era stato William, il fratello Albert, tutti hanno un nome. Sua sorella si chiamava… Sicuramente aveva un nome pure lei, quindi anche lui doveva avere un nome. Peccato non ricordarli. Vide che il posto di fronte a lui dove c’era un letto con su quell’uomo ora era vuoto. Nemmeno il letto c’era più.

Marco sedette sul pavimento. Fissava il muro, circa trenta centimetri sopra la presa elettrica, si impose di restare lì finché non l’avesse beccato. Con sua madre fuori al lavoro, Katia, la sorella, all’università, aveva la casa tutta per sé. Nessuno l’avrebbe disturbato, gli avrebbe fatto domande impiccione o discorsi pieni di buon senso. Era il giorno giusto, l’avrebbe scoperto, visto, allora avrebbe… Beh, non sapeva ancora cosa avrebbe potuto fare ma confidava nella sua capacità di improvvisazione, nell’inventiva che gli riconoscevano tutti i conoscenti. In fondo lo sapeva da tempo che c’era, era lì, nella sua casa, puntava proprio lui. Aveva scoperto che passava proprio da quel punto, attraversava il muro sopra la presa elettrica, probabilmente era per questo che non funzionava più. Arrivava per dargli la caccia. Il diavolo. Rimase fermo per una ventina di minuti, niente. Quando il desiderio di accendersi una sigaretta iniziò a farsi sentire si impose di non cedervi, per aumentare la capacità di resistenza decise di mantenersi proprio immobile, seduto a gambe incrociate. Una posizione del loto in attesa. Sapeva che sarebbe arrivato, doveva solo non farsi traviare dai desideri che quello gli mandava per distrarlo. Passò ancora un quarto d’ora e successe qualcosa, apparve una macchia sul muro, come d’acqua, colorata di scuro però. Non era ferma, girava, si allungava e stringeva, come respirasse. Era lui. Ne fu certo quando vide delle scintille uscire dai buchi della presa, cosa poteva essere a elettrizzare una presa elettrica se non il malvagio? Doveva improvvisare. Doveva. Si alzò di scatto e, velocissimo, sferrò un pugno sulla macchia, con tutta la sua forza. Questa scomparve immediatamente. Restò una macchiolina di sangue. Eccitato pensò di fotografarla subito e poi togliere un pezzo d’intonaco per conservare quella reliquia, il sangue del diavolo. Chissà che poteri inimmaginabili aveva quella roba. Quando provò a muoverle sentì il dolore bruciante alle dita, ormai tutte rosse. Capì. Non era il sangue del demonio, era il suo. La pelle delle dita si era lacerata in più punti. Avvolse la mano con un fazzoletto preso dalla tasca e tornò a esaminare il muro. La macchia era scomparsa, subito, forse ancora prima di essere colpita. Questa repentinità gli fece balenare il pensiero che forse quella visione che si muoveva sul muro era uno scherzo della sua fantasia, o dei sui occhi stanchi. In fondo la notte precedente non aveva dormito un cazzo, una canna sull’altra finché il sole era sorto nuovamente. Avrebbe avuto bisogno di un tiro. La cocaina sarebbe stata d’aiuto, peccato non averne, nemmeno poteva uscire per procurarsene, quello sarebbe andato chissà dove ora che era stato scoperto. Annusò il muro, niente, no, aspetta… Gli parve di percepire un vago sentore di zolfo, ci siamo! Ecco la prova definitiva. È qui. In casa mia! Tornò a sedersi davanti al muro. Gli doleva la schiena per tutto quel tempo dritto aspettandolo. Doveva trovare un metodo rapido per farlo saltare fuori così che avrebbe… Avrebbe visto poi che fare, ora doveva farlo uscire dal suo rifugio nel cemento. Pensò per qualche minuto alla velocità della luce, chiamava così quello stato mentale in cui poteva avere le intuizioni migliori, un segreto che solo lui conosceva. Bingo! Idea! Certo! L’idea nuova gli venne spontaneamente, come sempre, in questo era proprio bravo, doveva riconoscerselo. Avrebbe fatto uscire il demonio con il gas. Come era possibile non averci pensato prima? Con un sorriso di trionfo corse in cucina aprì tutti i fornelli, un po’ di gas usciva ma poi smetteva subito. La valvola di sicurezza, cazzo. Spostò il mobile in avanti ma si mosse di poco. Pensò di nuovo concentrandosi ma questa volta fu rapidissimo. Prese dalla cassetta degli attrezzi un cacciavite, svitò poi estrasse il forno dal suo alloggiamento. Individuò subito il tubo flessibile giallo, svitò la fascetta che lo stringeva e lo strappò via. Controllò che tutti i rubinetti fossero ben aperti e tornò a sedersi sul pavimento in salone. Adesso a noi. Ti aspetto. In pochi minuti l’odore del metano si diffuse per la casa, gli sembrò un effluvio piacevolissimo, liberatorio. Dal muro ancora nessun movimento. Per ora. Aspettò immobilizzandosi, l’odore si fece più penetrante. Altri minuti e percepì una sonnolenza che risaliva lungo la schiena. Ci siamo, prova a farmi sentire stanco… Mica ci casco. Sono qui, vieni fuori. Si chiese che aspetto poteva avere quell’essere, cioè, specificò il pensiero, il diavolo può assumere l’aspetto che vuole, certo, chissà con quale si sarebbe presentato a lui. Ancora una decina di minuti. Se lasciava correre l’attenzione subito il sonno si faceva sentire, bastardo. Doveva restare concentrato, al massimo. Un rumore improvviso lo fece trasalire. Cosa succede? Di nuovo… Sembra… Sembra qualcuno che prende a pugni il portoncino d’ingresso. – Cosa succede? – una voce dall’esterno – La mia casa si è riempita di gas, siete voi che avete una perdita? - Quell’impiccione del vicino, quello del piano superiore. Cazzo vorrà? – Siete voi? Siete vivi? – non aveva intenzione di smettere – Chiamo i carabinieri, l’ambulanza. - Lo sentì parlare con qualcuno nel frattempo accorso. – Probabilmente sono soffocati, è pericoloso, bisogna stare attenti. Non suoni il campanello! Qui salta tutto. - Una voce di donna rispose. – A quest’ora la signora è al lavoro, la ragazza sarà fuori… Dovrebbe esserci il figlio, quello strano, un po’… Insomma quello che sembra un drogato. - Marco non resse più. – Cazzo volete voi! – urlava a squarciagola – Lasciatemi stare, fatevi i cazzi vostri! -

Si guarda le spalle. Passa dall’altra parte della strada dove gli alberi del viale lo possono coprire, poi sta scendendo la notte e i lampioni sono di là. Arrivato al punto X, come lo chiama lui, il punto del tesoro, si siede tranquillamente su una panchina e aspetta. Passano cinque minuti buoni, riesce a vedere l’orologio sul campanile gotico del duomo svettare tra i tetti. Nessuno in vista. Nessuno arriva, se qualcuno lo stava seguendo si sarebbe fatto vedere. La luce dei fari preannuncia un’auto che passa veloce, la città è rintanata in casa all’ora di cena. La primavera deve ancora sbocciare. Con un’improvviso balzo scende dalla panchina e raggiunge la discesa che porta alla riva del torrente che scorre là sotto. Con la luce dello smartphone cerca il gruppo di pietre, controlla anche allargando il campo che non ci siano nutrie o ratti grossi come cagnolini, quelli potrebbero essere un problema. Niente. Attento a non scivolare in acqua raggiunge le pietre, sulla sua ha disegnato una X con il pennarello tanto chi vuoi che scenda a controllare i massi sul fiume? Alzata la pietra un sospiro di sollievo, l’involucro è ancora lì. Apre la busta plastificata impermeabile e ne estrae una seconda busta, la soppesa, duecentocinquanta grammi di hashish. Libano rosso, ottima qualità, pure fresco. Mette in tasca il pacchetto, la pietra torna al suo posto. Con due balzi risale la scarpata, il piede scivola si ritrova con il naso nell’erba umida, cazzo. Rialzato vede che sulle ginocchia i jeans sono macchiati di verde, ‘fanculo. Come un marine attento ai vietcong controlla la strada, nessuno. Risale, torna sulla panchina a riprendere fiato. Ora ha la merce con sé, attenzione. Quando sta per rialzarsi sente una voce conosciuta. – Mario! Ma guarda un po’ chi vado a incontrare… Non c’è nessuno a quest’ora. - Fulvio Nocitino, dei tre fratelli Nocitino, i tre tossiconi, quello di mezzo. Il più intelligente ma anche il più viscido e infido. Chissà da quanto tempo era lì? Lo stava seguendo? – Ciao Fulvio… Come mai da queste parti? - Mario lo guarda dal basso in alto, Fulvio è almeno quindici centimetri più alto del suo metro e sessanta. – Oh, così… Passeggiavo. - – Non mi sembri il tipo che passeggia per la città tanto per passare il tempo. - – Non ti si può fregare, eh? Hai ragione, in realtà stavo cercando un pusher nuovo, mi hanno detto che lavora sulla strada tra qui e l’ospedale. Inizia verso le sei di sera e sta in giro finché ha roba. Roba buona, eroina nemmeno tanto tagliata, da farci attenzione, ma tanto noi sappiamo gestirla bene, no? - – Parla per te, io ho smesso con quella merda, sono stato in comunità. - – Eeh… – Fulvio gesticola ampiamente – Anche io ne ho viste tante di comunità, vanno bene se fa freddo, se hai qualche problema di salute o di soldi, no? Poi si torna a fare la nostra vita, no? - Mario grugnisce, quando si leva dalle palle questo stronzo? – Ma non è che tu l’hai visto questo tipo nuovo? - – Non ho visto nessuno, sono qui da dieci minuti e non c’è anima viva. Ma poi chi è? È italiano? Marocchino? - – Non lo so, me l’hanno solo detto che c’è uno nuovo… Ma… non è che sei tu che vendi roba? - – Io? Ma che cazzo vai a pensare? Lo sai che ci ho provato una volta sola, a venticinque anni, tre anni di galera mi sono bastati, basta spaccio. Proprio basta. - E poi, pensa, se vendessi qualcosa mica lo farei- sapere a te che sei il filo diretto con gli sbirri. – Ok, peccato. Sarebbe stato bello, te ne avrei offerto un po’, in ricordo dei vecchi tempi. Ma, dici un po’… nemmeno un po’ di fumo hai? - Mario scuote la testa decisamente. – No, niente. - – Sicuro? Guarda che ti pago bene… - – No-o-o. Niente. Sei sordo? - – Occhei. Occhei… Non ti incazzare, non ti incazzare, ora vado. - – Bravo. Buona serata. E buona caccia al pusher… - Una vena ironica ma l’altro non coglie, è sempre stato lento l’amico, il vecchio amico, l’ex amico. O forse, come tutti i tossici in fregola con la roba, esclude tutto dal suo pensiero tranne le informazioni per arrivare a lei. Si accerta che quello scompaia alla vista e si incammina in direzione opposta. Certo che ho il fumo, certo che lo voglio vendere, oltre a fumarmene almeno la metà, certo. Ma di sicuro a uno spione come quello non lascio niente, infame! Mario attraversa la città deserta, anche di auto ne passano proprio poche. Sul corso principale mentre sta attraversando vede le luci blu lampeggianti avvicinarsi, cazzo. Resiste all’impulso di correre via, la cosa peggiore da farsi, cammina lentamente. Quando l’auto è vicina si impone di voltarsi a guardarla con aria tranquilla, un sorriso, non troppo ampio che sembra li prendi in giro. Sull’auto due carabinieri, uno mai visto, giovane, l’altro lo conosce fin troppo bene. Rallentano, lo guardano, parlano tra loro. Lui si volta nella loro stessa direzione e inizia a camminare, fai vedere che non hai paura, che ti senti sicuro, magari pensano che non hai niente… L’auto improvvisamente accelera e scompare avanti. Visto? Grande che sono. Mica un poveraccio come quel cazzone di Fulvio. Si avvicina a casa, risale per la città vecchia, abbarbicata sulla collina. Nella piazzetta davanti la chiesa dei Santi Nicola e Bernardo si siede sulle panchine al fondo, sotto gli alberi. Il suo posto di lavoro. Con un coltellino taglia in tre parti il pezzo di fumo, duecentocinquanta diviso tre fa… vabbè, è sempre troppo grosso, toglie ancora un bel pezzo, ne rimane una cinquantina di euro. Nasconde tutto il resto dietro un cespuglio, in un pacchetto di nylon. Non sa nemmeno lui perché, non l’ha mai fatto. Stai a vedere che invecchio anch’io, paranoie assurde. Torna a sedersi. Dopo qualche minuto vede un giovane salire la scalinata che arriva da sotto, dalla piazza del municipio, si guardano poi quello si dedica al panorama dei tetti illuminati, la sera è limpida, piuttosto freddina ma il panorama è sempre bello. A Mario sembra che ogni tanto quello si giri per guardarlo rapidamente, forse, forse no. A un certo punto quello si avvicina lentamente, lo sta guardando, un sorrisino complice. – Ciao. Bella serata eh? Un po’ fredda magari. – un lieve accento meridionale, Mario lo sente ma non lo riconosce. – Proprio. Ciao a te, ci conosciamo? Non mi sembra... – essere sospettoso con gli sconosciuti, prima regola. – No, non direttamente almeno. – sorride, come chi sa qualcosa ma non vuole dire. – Cosa vuoi dire? – fingere di non sapere niente, prima regola. – Mi ha parlato di te un amico… - – Non ho amici che parlano di me, se lo fanno non sono amici. - – Giusto, giusto… Non mi ha parlato proprio di te, non mi ha fatto nomi, mi ha detto che a una certa ora, in questo posto si può trovare roba buona… - – Cazzo dici? Qui roba non ne gira, se vedo qualcuno usare roba nei dintorni lo sistemo io… sei un tossico? – di certo non ha l’aria da tossico, ma la prima regola… ok, ci sono molte prime regole. – No, per carità, proprio no, ti pare? Fanno schifo pure a me quelli… No mi diceva che qui si trova del fumo buono, così, per passare una serata allegra, tra amici… - – E chi sarebbe questo tizio che fa girare certe notizie? – gli infami sono meglio di una campagna pubblicitaria in televisione. – Lo conosci no, Giulio? Quello che lavora di sotto, alla piazza del mercato, ci fa le pulizie. Un bravo ragazzo, forse beve un po’ troppo ma non ha mai fatto male a nessuno. Mi ha detto che qui si può trovare roba onesta, buona a prezzi onesti. Ne sai niente tu? - – Dipende, dipende… - Mario è indeciso, Giulio è un ubriacone che conosce da vent’anni. Ma lui è sempre conciato male e vestito peggio, questo qui è tutto tirato, sportivo ma firmato. Come fanno a conoscersi? Mai fidarsi, sempre la regola. – E tu Giulio come lo conosci? Lavorate insieme? - – No, no… – sorride – Lo conosco perché conosco suo fratello, l’ho conosciuto al bar. Il fratello dice che se al bar gli offri il caffè almeno quella volta lui non beve vino, birra o qualche porcheria… Così se lo incontro al bar gli offro anch’io il caffè, tutto lì. Poi chiacchierando gli ho detto che avrei voluto passare una serata con gli amici a ridere… - – Ok, ok.. Basta così… - – Allora? Ne hai? - – Ne ho un po’, non tanto. Quanto ne vuoi? - – Mah… una cinquantina di euro? - – Va bene… a quello arrivo. - Tira fuori il pacchetto, lo apre e mostra il pezzetto al tipo. – Roba buona eh! Ti hanno detto giusto. Cinquanta euro è tutto tuo. - Il tipo si avvicina, apre il giubbotto come per prendere il portafoglio. Un momento… cazzo ha lì? Sotto il braccio, una pistola! Chi cazzo è. Quello tranquillo alza la testa e parla a voce alta. – Tutto a posto. Puoi venire. – guarda la strada dietro di loro. Anche Mario si volta, vede un carabiniere in divisa arrivare, un ghigno da stronzo in faccia. Che fare? Niente, cazzo, proprio niente. – Eh, amico mio… – riprende il primo – come spacciatore non sei poi un granché… il tuo primo cliente della serata è un carabiniere e tu ci caschi subito. Fammi vedere cosa abbiamo qui… – gli prende il pezzo di fumo, lo annusa. – Buono, proprio buono direi… – lo indica all’altro – Almeno sulla qualità non mentiva, roba buona sì. - Quello in divisa si piazza dietro le spalle di Mario, come potesse scappare… – E che facciamo ora, caro il mio Mario? - – Mi conosci? - – E chi non ti conosce, in caserma almeno. – ridono entrambi – Mario Barilla, un nome una garanzia. Roba buona, l’hai detto tu. - – E adesso che volete fare? - – Facciamo, facciamo… Che dici? – si rivolge al collega – Quattro anni per spaccio non glieli leva nessuno, no? - Mario girato verso il primo lo sente ridere, proprio stronzo. – Ma va’ Mario, questa sera siamo buoni. Troppo buoni, ci ringrazierai. Non è nemmeno così grosso il pezzo… Facciamo che non ci siamo mai incontrati, eh? Tu te ne vai tranquillo. Magari se ci rincontriamo ci racconti un po’ come vanno le cose da queste parti, no. - – Non è il tipo. – interviene quello in divisa – Ci hanno provato in tanti ma lui non ha mai ceduto, anche se ne avrebbe tutto da guadagnare. - Mi conosce pensa Mario. – Visto che mi conosci lo sai, bravo. Io non faccio certe cose, nemmeno ai nemici. - – E allora preferisci finire dentro? - – Piuttosto che fare l’infame… - – Va bene, tutto d’un pezzo l’amico. Va bene. Stasera siamo buoni te l’ho detto. Non ci siamo mai incontrati, ok? - – Ma il pezzo? - – E che? Ora lo vuoi pure indietro? Buoni ma non scemi… Stammi bene Barilla. - I due si allontanano verso la strada ridendo tra loro, Mario li guarda immobile, anche i pensieri sono fermi. Solo una volta che sente il rumore dell’auto che si accende per poi partire si lascia andare. Un fiume in piena. Il fumo, volevano solo prendermi il fumo, bastardi. Proprio bastardi… Va bene, meglio così che essere arrestati, ma prendere il fumo per fumarlo senza pagare, bastardi. E Giulio che c’entra? Magari niente, non mi sembra il tipo, lui è uno a posto. Chissà chi gliel’ha detto, di certo non tradiscono la loro fonte, l’infame. Sente il cuore che ancora batte a velocità impressionante, sembra abbia fumato crack. Si ritrova bagnato di sudore, man mano che si calma comincia a sentire il freddo sui vestiti fradici. Poi si ricorda che ha nascosto i pezzi grossi. – Ah ah! – quasi grida – Pezzi di merda! Mario Barilla ve l’ha messa in culo! Siete solo due sbirri disonesti e scemi. Ah ah! - Recupera l’involucro, c’è almeno il quadruplo di quanto ne hanno sequestrato. Anzi hanno rubato, bastardi. Con un sorriso anche lui lascia la piazza, diretto a casa.

  • Povero Gabriele, cosa ha fatto per meritarsi questo? -
  • Già, terribile quanto ha dovuto e deve soffrire. Proprio lui che era uno dei migliori. -
  • Veramente! Con questa disgrazia viene meno una delle migliori firme della categoria. Una perdita inestimabile per il pubblico ma anche per noi colleghi, un maestro come lui… -
  • E non aveva famiglia, non c’è nessuno a prendersi cura di lui. Voglio dire, medici e infermieri, certo, ma un legame più affettivo… Quello aiuterebbe con questa sventura. -
  • Proprio così, io devo molto a Gabriele, posso dire che tutto quello che so in questo ambito l’ho imparato da lui… Vorrei poter fare qualcosa, essergli di supporto, sdebitarmi. -
  • Nobili parole, tutti dovremmo sdebitarci con lui. Dobbiamo trovare il modo di aiutarlo, anche affettivamente, che dite? -

Gabriele era abituato a simili commenti mentre i visitatori uscivano dalla sua stanza, si erano verificati dal primissimo giorno, quando, in uno stato semicomatoso secondo i sanitari, giaceva nel suo letto d’ospedale. Quello che lo stupiva, analizzando il comportamento umano, era quella tendenza a considerarlo malato, tanto malato che fatto un passo verso la porta della stanza si sentivano liberi, come non potesse sentirli, percepirli proprio. E allora era quella che aveva tacitamente definito la fiera delle ipocrisie. Ascoltava colleghi, ormai ex-colleghi, lo avevano classificato come finito, fingere comprensione e amicizia mentre fino a pochi giorni prima lo avrebbero ucciso volentieri. E non solo metaforicamente. Avversioni, disprezzo, tutto quello che aveva caratterizzato la rivalità nel loro lavoro precedente sembrava scomparso, superato dagli eventi. Lo consideravano fuori gioco, non era più una minaccia al loro quieto vivere e guadagnare sontuosamente, denaro e fama, con un concorrente di meno. E che concorrente. Il blasone e la fama, la reputazione di maestro che Gabriele aveva costruito nel corso degli anni erano imbattibili. Il pubblico, gli accademici, gli stessi artisti aspettavano le sue parole come prova di successo o delusione. Lui era l’ago della bilancia in quel mondo. O, almeno, lo era stato fino a una settimana prima. Gabriele Petrucci era un critico d’arte, specializzato in arte contemporanea, si occupava quasi solo di pittura. Raramente si esprimeva su opere del passato, ovviamente ogni suo commento era pronto per entrare nei testi di storia dell’arte, quasi mai aveva considerato sculture o altre forme d’arte, il suo campo era limitato. Tanto limitato da occuparlo praticamente tutto. I suoi commenti, sempre scritti, pochissime interviste, mai in televisione, definivano il mercato, decretavano la fortuna o la disgrazia degli artisti. Ricco e famoso pur mantenendo rigorosamente la sua privacy, la grandissima parte del pubblico non aveva idea del suo volto, ma la sua firma era legge in quel mondo. Un mondo spietato, in cui entrare e restare era difficilissimo, in cui ogni collega era pronto a distruggerti per prendersi il tuo posto. I pochi spazi dedicati alla critica sui giornali generalisti erano contesi con pratiche che per poco non arrivavano a duelli all’ultimo sangue. Si vociferava che talvolta fossero arrivati proprio allo scontro fisico i bravi critici d’arte, ma nessuno era mai riuscito a provare quelle accuse. E anche in questo Gabriele si era dimostrato il migliore. Nessuno poteva pensare di attaccarlo, di contestare la sua lettura di un quadro, qualche pazzo aveva provato a provocarlo personalmente, e restare impunito. Nemmeno di restare nel campo. In quella particolare nicchia in cui la critica d’arte contemporanea diventa critica della critica, o dei critici tout court, in cui le interpretazioni altrui vengono analizzate e distrutte, la firma Petrucci era definitiva come per le opere. Spesso tramite una controversia con qualche collega Gabriele distruggeva una carriera intera. E se non bastava un rimbrotto per qualcosa era pronto a dichiarare una guerra d’attrito, settimana dopo settimana il poveraccio insolente era colpito da attacchi, tutto quello che diceva o scriveva veniva passato al setaccio dalla sua vivida intelligenza e dal suo senso di vendetta. Non era mai successo che qualcuno avesse resistito più di un mese. La maledizione di Petrucci, come l’avevano denominata i colleghi, non dava scampo. Se proprio non cambiavano mestiere le sue vittime non si permettevano più di parlare di arte contemporanea. Spietato e preciso, con le opere come con i critici. Fino a una settimana prima. Il 12 settembre di quell’anno che pure lo aveva visto raccogliere grandi successi e i denari che ne conseguivano successe l’irreparabile. L’incredibile purché banale incidente. Mentre, nella suite di un grand hotel a cinque stelle, stava preparandosi un caffè alla cucina personale la caffettiera esplose. Fortunatamente non fu in pericolo di vita nonostante le ferite. Il sangue che perse dalla testa fece addirittura svenire un’addetta alle pulizie tra i primi a intervenire. Fortunatamente non si ustionò il volto rimasto quasi intonso. Un pezzo di metallo gli aprì un largo taglio sul cranio, commozione cerebrale e conseguente concussione, nulla di così grave per fortuna riportarono i giornali della mattina seguente. Ma l’effetto più significativo, e definitivo, fu la perdita della vista. Subito i medici che la verificarono espressero dubbi sulla sua capacità di continuare il suo lavoro. Apparve logico a tutti che un critico che si interessa di arte pittorica se non può più vedere i quadri, non può esprimersi in proposito. L’Italia, il mondo aveva perso una dei suoi sguardi più approfonditi nel mondo dell’arte, i telegiornali si sbizzarrirono nel presentare questa disgrazia come una perdita irreparabile. La totalità dei suoi colleghi intervistati confermò questa lettura mentre tra sé e sé gioiva per la fine di un incubo. Tutti si fecero vedere, filmare e intervistare mentre portavano i loro omaggi e il loro dolore in ospedale. Tutti manifestavano cordoglio e comprensione, almeno davanti a lui o ai giornalisti. Nessuno osava dire niente di negativo sul collega infortunato. Infortunio che stroncava la sua carriera liberando spazi per i colleghi, cifre in euro che loro potevano solo sognare, si apriva la gara del tutti contro tutti per approfittarne. Gabriele, dal suo letto d’ospedale, in attesa di rientrare nel suo attico nel centro di Roma, li sentiva e percepiva tutta la falsità dei loro commenti, il dolore tanto affettato quanto simulato. Poteva sentire come si adeguassero alla situazione a loro favorevole, poteva osservare gli umani comportarsi in quella situazione inaspettata. E, soprattutto, poteva ben usare il verbo osservare perché la cecità era simulata. Semplicemente falsa. Ricostruire avvenimenti e motivazioni di tali gesti non è facile. Gabriele Petrucci non si espose mai, mai confermò questa versione, mai un’intervista nonostante giornali, tv e ogni altro mezzo di comunicazione avrebbe offerto cifre considerevoli. Niente. Anzi, di lì a poco Petrucci sparì del tutto.

Un cane guaiva in uno degli appartamenti vicini, lo sentiva lontano ma probabilmente i muri attutivano i suoni. Probabilmente. Poi poteva anche non essere un cane, magari la doccia di qualcuno o una lavatrice… ma chi si fa una doccia alle tre del mattino? Più o meno vale anche per la lavatrice, ok, la vicina del piano di sopra fa lavatrici anche in piena notte ma proprio per questo il suo rumore è inconfondibile. Sembrava un cane, le tonalità disperate di qualcuno chiuso da solo in una casa che magari non conosce, magari i proprietari erano a dormire nella stanza accanto ma il cucciolo non l’aveva ancora capito. Pensò ai suoi gatti, Tommy e Aurora, loro sapevano tutto di lui, non piangevano la notte, se volevano dormivano con lui sul lettone altrimenti si sceglievano un giaciglio a piacere. Magari in una notte ne cambiavano tre, quattro. La cosa principale era comunque che i gatti non hanno un padrone, vivono con un amico, alla pari, qualcosa che chi non ha gatti non può capire. Aveva spesso sentito gente, anche stimata, che considerava seria, dire qualche sciocchezza sui felini, poveri, gli umani, non i gatti. Chi non ha o non ama i gatti si considera una persona normale, forse lo è, ma è comunque diversissimo da chi vive, convive, e quindi apprende l’enorme sapere che questi trasmettono agli amici. A ben pensare ci sarebbe pure da chiedersi se non sono i Felix Silvestris Catus i padroni, e gli umani le vere bestie… Lasciò perdere le divagazioni, il guaito era cessato, solo qualche auto in lontananza. Ricordò gli anni trascorsi a Torino, dove il rumore del traffico non cessava mai del tutto, anche la notte… No, basta. Perché non riesco a concentrarmi? si chiese. Perché sono le tre di notte passate e stai a rimuginare sui tuoi guai si rispose. I tuoi innumerevoli guai. Scacciò anche questo pensiero, scacciò il programma per il giorno a seguire che stava emergendo alla coscienza. Curioso come, se non dormi, l’ora è della notte, se ti svegli è del mattino. Le tre di notte sono diverse dalle tre del mattino. Ma che cazzo vado a pensare! Si alzò, in cucina versò nel bicchiere del latte che scaldò nel microonde. Molti amici… un momento no, qualche amico, che poi nemmeno tanto amico può essere se pensa queste cose, dicono che i forno a microonde rovina i cibi. Praticamente li avvelena. Ma come cazzo vanno a pensare certe idiozie? Come i cibi transgenici, da bandire, se solo li tocchi ti trasformi in un alieno, un alien che rischia di uscirti dallo stomaco. Daniel usava il microonde, senza problemi, come senza problemi si beveva il latte di soia geneticamente modificata. Lo comprava apposta, una marca spagnola, quando aveva trovato la scritta “de cultivos de plantas genéticamente modificadas” quello era diventato il suo latte. Ci fosse stato avrebbe comprato anche il latte vaccino modificato, alla faccia dei complottisti del cazzo. Coglioni! Ok, si disse, ora che hai pure fatto la tua ramanzina progressista puoi tornare a letto? Ci torno solo se ho qualche speranza di dormire, altrimenti è inutile. Certo, ma se nemmeno ci provi è sicuro che non dormirai. Per interrompere il teatrino interiore si buttò sul letto, fissò per un attimo le ombre lunghe che i lampioni proiettavano sul muro, chiuse gli occhi cercando, allo stesso tempo, di chiudere la mente.

#Paesi

Villatrombera sorgeva nella pianura, in quella terra di colline e alture e montagne era l’unico paese a non averne. Era il primo agglomerato che si incontrava muovendosi in direzione della pianura verso la città lontana. Si attraversavano campi sterminati, boschi verdeggianti, si superavano due torrenti che di lì a poco confluiranno e, all’improvviso, ci si trovava davanti quell’ammasso di case e strade. Il posto prendeva il nome dalla famiglia Tromberi, marchesi o conti Daniel non ricordava, che nell’antichità avevano guidato la zona. Si erano anche allargati verso la città arrivando a governare un ampio tratto di pianura. Molti abitanti del posto nemmeno sapevano quando era successo tutto ciò, alcuni erano pure increduli considerando la situazione attuale, Daniel sapeva che era successo, certo, che quando si parlava di antichità ci si riferiva al periodo successivo alle grandi pestilenze medievali. Il secolo… confondeva sempre il numero dei secoli, era il XIV o il XIII? Comunque l’anno era intorno al 1350. Dopo quella ecatombe in tutta Europa qualche nobilotto di quelle zone iniziò una guerra di conquista dei comuni circostanti arrivando alla città, dove furono fermati dalle truppe dell’arcivescovo appoggiato dal papa. Ancora oggi in città c’era Piazza Tromberi, con il monumento in bronzo, una statua equestre del generale Ezechiele Tromberi, vincitore di qualche battaglia contro i teutonici dominatori delle regioni confinanti. Sulla piazza svettava Palazzo Tromberi, residenza della famiglia in quei tempi gloriosi seppur brevi. In paese non restavano molte tracce di quel periodo, le rovine di un torrione che nessuno aveva mai pensato di preservare, anzi da cui erano stati prelevati materiali da costruzioni per le casa vicine, un paio di palazzotti spogli e disadorni, tipici della piccola nobiltà di quelle lande. C’era una cascina chiamata cascina Tromberi che inglobava vasti terreni, agricoli o meno, di cui si diceva fosse stata patrimonio familiare. La famiglia si estinse qualche secolo dopo, come se la vergogna di non aver saputo ripetere le gesta degli antenati ne avesse indebolito anche la natura stessa. Restava quello sputo di paese disperso tra le campagne a celebrarne il nome. Restava qualche appassionato di storia locale, come era stato Daniel nella sua gioventù, a ricordarne l’esistenza.

Elisa si era ritrovata in una strana posizione. Da quando aveva intrapreso quella carriera lavorativa si era presto accorta che il mondo guardava a lei diversamente. Diversamente da prima, diversamente da come si guardava gli altri. All’inizio non voleva crederci, magari passa si diceva, poi si rassegnò o almeno accettò la situazione. Pur non capendola. Se di mestiere fai la scrittrice di prodotti erotici se non proprio pornografici diventi qualcun altro. Per moltissima gente chi scrive quella roba lì, appunto roba che nemmeno riesci a definire apertamente, come Waldemort, non può che essere come i protagonisti dei suoi libri. Ma se scrivi romanzi polizieschi non devi per forza essere un poliziotto, se scrivi di fantascienza non è che hai un canale radio con gli alieni o un’astronave in cantina. Se parli di sesso estremo devi essere un praticante. Se sei donna poi la cosa è ulteriormente amplificata. Si ritrovò in pochissimo tempo a essere seguita da una platea di ammiratori strani. Pur scrivendo moltissimo di rapporti lesbici la maggior parte degli acquirenti dei suoi libri erano uomini. E gente che iniziò a fare le proposte più strane, un paio di buste ricevute presso il suo editore contenevano foto di peni eretti, l’effetto della sua narrativa scrivevano. A parte le proposte di orge in cui lei doveva portare molte amiche, ovviamente se scrivi di sesso ti dedichi a orge quotidianamente, qualcuno la invitava a incontri o uscite ma tutti a scopo chiarissimo. Evidentemente se scrivi di quella roba lì loro si sentono autorizzati a comunicarti i loro pensieri e desideri in proposito. E sicuramente sei una specie di nifomane, una puttana che però lavora gratis, solo per il piacere. Solo.

Anche a tarda notte il telefono, forzatamente acceso per la sua reperibilità, riceveva messaggi. Guardò stancamente, a certe ore la curiosità lasciava il posto a un’indifferenza difficilmente scalfibile. Un messaggio di Daniele Sprocatto. Esther pensò che certa gente si dedicava a fini difficilmente comprensibili. Un messaggio notturno di un collega che conosceva da tempo, per di più lo aveva sempre considerato una persona seria, affidabile, che pubblicizzava una lista candidata alle elezioni interne all’ordine professionale a cui erano entrambi iscritti. Iscritti forzatamente per legge, uno dei regali della legislazione italiana, regalo per chi ne traeva lo stipendio non per chi pagava obbligatoriamente. Ma perché? Cosa ci trova in questa roba? Pensò. Avesse scritto che intendeva fare sesso con lei se solo lei fosse stata d’accordo sarebbe più comprensibile, a quest’ora ancora con le questioni lavorative… A meno che… il pensiero nasceva spontaneamente, a meno che sia un’improbabile via per avviare una carriera politica. Daniele? Non mi sembra il tipo. I politici sono personaggi affamati, di fama, potere, anche denaro pure se non ne arraffano poi tanto a certi livelli basilari. No, il denaro non era la molla principale, aveva visto persone di una certa ricchezza dilapidare patrimoni pur di garantirsi un posto da consigliere di comuni insignificanti, per emergere su poche centinaia di concittadini. Però le venne in mente Carla, Carla Boretti, lei era in carriera nel suo piccolo comune, aveva ottenuto la delega, il controllo sulla biblioteca e su molte iniziative pubbliche. Lei era affamata di potere? No, direi di no, a meno che… In effetti il potere o la fama si esprimono in molti modi diversi, no? Pensò alla determinazione con cui affrontava le elezioni locali, la serietà con cui si preparava. Determinazione dimostrata in molti altri ambiti poi, qualcuno pure da non pubblicizzare... In effetti, anche lei, cosa ci trova? Lasciò i pensieri scorrere e esaurirsi, non era la serata. Stava leggendo prima dell’interruzione, riprese. Un ebook, Bruce Sterling, il cyberpunk. Riletto a trentaquattro anni dalla pubblicazione si rivelava interessante. Alcune premonizioni tecnologiche o sociologiche erano azzeccatissime, altre palesemente imbarazzanti. Le videochiamate viste come fiction, science fiction nel vero senso del termine, erano nulla rispetto a quello che si può fare oggi. Sorrise. I fucili a colla, i telex, nella realtà scomparsi da decenni, le email o le rete stessa descritte in una fase embrionale per un romanzo ambientato nel 2023. Adesso, pensò, adesso. Molto diverso dalla realtà anche se alcuni spunti si stanno in effetti muovendo in quella direzione. Una pausa. Esther trascinava la sua serata tra vari interessi, nessuno dei quali la prendeva tanto da assorbirla. Go into the zone. Ma quando mai, almeno non stasera. Certo che essere sempre presente, al momento attuale, la meditazione praticata… Non è serata, no. Nulla riesce a concentrare l’attenzione, il pensiero si divide in mille rivoli che ricercano ognuno la sua fetta di consapevolezza. Ecco, un pensiero tale non sarebbe nemmeno comprensibile per molta della gente che conosce, proprio al di fuori della loro portata. Per mille tipi di limiti, indifferenza a ogni cosa esuli dalle proprie vite, o attenzione comunque distorta, non aperta, attratta da altro. Infatti uno dei cardini di quella cosa che chiami meditazione è l’estrema, meglio ancora la totale, apertura nei confronti del mondo. Uno per volta, ogni argomento dello scibile umano. E, per qualcuno, anche del non scibile o dell’extraumano. Mettere parole una dopo l’altra è la caratteristica del pensiero. Secondo Chomsky il linguaggio non è stato inventato, non è sorto, per comunicare. Piuttosto per pensare meglio. Per costruire pensieri sempre più complessi fino all’astrazione, per confrontarsi con il mondo. Un gran casino. A pensarci sembra di essere sotto droghe, le più varie. Ma mettere una parola dopo l’altra è anche la caratteristica degli scrittori, che, oltretutto, le fermano. Su carta o altri supporti non importa, le fermano per i posteri. Molto più probabilmente per il nessuno che le leggerà. Era da tempo che non scriveva più Esther. Aveva, quella mattina, visto un articolo su un quotidiano che descriveva i mille lavori a cui si dedicavano vari scrittori italiani per vivere. Quasi nessuno alla scrittura, da ridere. Vari autori, scrittori, del tutto sconosciuti, almeno a lei. Una notizia che è una non notizia. Se non sono conosciuti che vogliono vivere come scrittori? Se non vivono della scrittura che si definiscono tali? Mistero. Qualche riga in più. Certo che almeno metà degli italiani ha scritto un romanzo si dice. Molti di più l’hanno pensato. Per lei erano sempre state un mistero le case editrici a pagamento. Con qualsiasi formula, tipo ti pubblichiamo un libro poi tu ti compri tutte le copie stampate, ti salassi e riempi la cantina di libri tuoi che ogni volta che vedi ti deprimi. Meglio pagare per far pubblicare e produrre dieci copie, nemmeno i ventiquattro famosi lettori. Ci saranno dieci persone a cui regalare il tuo libro? Qualcuno, parenti, amici, che per pietà farà finta di essere interessato? Ah, già, gli scrittori sono tendenzialmente maledetti, non hanno amici, se ne hanno qualcuno è analfabeta. Con la famiglia hanno rotto da anni, magari proprio a causa della scrittura… Cazzo in che pensieri mi vado a mettere, mi deprimo da sola, meglio drogarsi. Il problema, Esther, è che di pensare non si smette mai, neppure quando dormi.