Lo spazio necessario
Ho fisso in mente il momento in cui si diffuse Facebook tra le mie conoscenze. Meglio ancora, ricordo quando nel 2008 si diffuse nella mia città proprio come si diffonde una pandemia, un virus incontrollabile. Mi viene in mente la scena del film sui dieci comandamenti (I dieci comandamenti, film statunitense del 1956 con Charlton Heston, regia di Cecil B. DeMille), quando la terribile piaga biblica colpisce le case degli egiziani bussando silenziosamente e infettando a morte i primogeniti. Ero a casa di un mio amico, mi affacciai al balcone e immaginai in quante abitazioni e in quanti dispositivi fosse entrata la piaga di Zuckerberg. Dopo un poco di tempo e un po’ di tira e molla, ne sono uscito: sono tra i pochi che non hanno Facebook, che nei successivi tredici anni avrebbe raggiunto l’inimmaginabile cifra di due miliardi e mezzo di utenti. I motivi di questa mia diserzione sono poi stati evidenziati nel corso degli anni da parte di decine e decine di studiosi, che hanno portato alla luce quello che istintivamente mi sentivo addosso aggiornando il profilo, postando e accettando amicizie: i social network sono dannosi, fanno male.
Alla fine del suo lungo libro sul capitalismo della sorveglianza, Zuboff conclude la sua forte denuncia contro le multinazionali del web (Google in primis e poi i vari social network e gli attori del mercato mondiale dei dispositivi tecnologici) postulando la necessità di un “santuario”: uno spazio mentale isolato e liberato, a disposizione della coscienza di ognuno, oltre e fuori dal dominio degli algoritmi di internet. Questi algoritmi, secondo la studiosa americana, stanno mettendo in pratica la distopia skinneriana di un mondo senza più libero arbitrio, con gli individui schiavi delle necessità del profitto delle multinazionali, profitti ottenuti mediante l’innesco di meccanismi mentali per cui rinforzi e rilasci di dopamina ci portano dove vogliono i social e le big tech dietro di loro. Per quanto il lavoro di Zuboff sia criticabile su molti aspetti, messi ben in risalto da E. Morozov (https://lapiega.noblogs.org/post/2020/05/20/i-nuovi-abiti-del-capitalismo/), e corra il rischio di essere troppo riduzionista, patologizzante e slegato dai rapporti sociali, nondimeno ci presenta dei fattori che, nel contesto di totalizzazione del rapporto di capitale odierno, risultano operativi e potentemente dispiegati.
C’è tutta una letteratura ormai a riguardo, per cui sintetizzo il discorso utilizzando una citazione dall’ottimo lavoro di Cisti, istanza del social network federato Mastodon: un social network commerciale porta ogni individualità su di un unico piano, dove poi il contenuto più rumoroso si impone sulla collettività. Questo porta il bisogno di soddisfare chiunque sia nella nostra rete che produce quel senso di insoddisfazione e depressione nell’esprimere se stessi. Infatti siamo consci del fatto che l’uso di queste piattaforme produce comportamenti dannosi e ampiamente studiati, tra cui: – Fear of missing out: provare una profonda paura e fastidio all’idea che succeda qualcosa online mentre non siamo collegati. Letteralmente sentirsi “fuori dal loop”.– Notification trough: un senso di straziante e dolorosa anticipazione nel momento tra cui si posta qualcosa di personale o creativo online e i primi like, commenti e condivisioni.– Newsgoggles: consumo incontrollato di notizie di tragedie senza un vero impatto emotivo o psicologico. – Unbored never alone: costantemente connessi, mai annoiati. Come fa notare Mark Fisher in Realismo capitalista, una delle spinte che hanno portato alla genesi del punk è stato proprio quel sentimento di noia, come molti testi ci gridano a squarciagola, quella voglia di esprimere se stessi oltre la coltre di grigiore che ci circonda. I social invece attraverso lo stimolo continuo ci fanno proprio affogare in quel clima di mediocrità che ci porta ad appiattire sempre i nostri dibattiti. – Info-dependency: dipendenza psicologica dal continuo impatto di nuove informazioni. Spesso si presenta insieme a una fuga dalle dinamiche naturali che non sono altrettanto stimolanti (quotidianità, scuola, etc). Questo si lega genericamente a una visione consumista dell’informazione, che va di pari passo alla digestione di contenuti di qualità sempre più infima. – Ampulsivity in everyday life: gli impulsi umani sono spesso limitati o negati dalle opportunità, tempo e spazio. Online gli impulsi non hanno questi limiti e possono essere immediatamente tradotti in azioni. Questo può portare a comportamenti fortemente modellati dalle pulsioni amplificate digitalmente.– Le dinamiche di interazione sulla piattaforma producono delle aspettative nel “mondo reale” che non possono essere soddisfatte. Quando questo accade seguono inevitabilmente ansia, impazienza, rabbia e frustrazione. – Swarm mindset e “inversione”: i bot sembrano umani e gli esseri umani si appiattiscono a dei bot. Del resto se per le corporazioni è necessario tenerci incatenati alle loro piattaforme, esse devono anche fare in modo che i nostri dati, le nostre abitudini e ogni nostra espressione sia quanto di più comprensibile ai loro algoritmi, che ovviamente ha come risultato di renderci prevedibili come bot. Al tempo stesso le intelligenze artificiali affinano sempre di più le loro capacità di previsione, rendendosi quindi sempre più simili ad umani molto ripetitivi. (da https://mastodon.cisti.org/about/more )
Appare chiaro che le varie piattaforme vogliono tenerci dentro le loro scatole skinneriane (https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber ) per fare facili e immensi profitti, per accumulare i quali creano un circuito funzionante e inesorabile di dipendenza: più contenuti produciamo più le piattaforme accumulano dati, dati che serviranno per vendere pubblicità personalizzate agli inserzionisti, e così via, nell’ormai arcinoto meccanismo economico che ha fatto la fortuna delle aziende della Silicon Valley. Jaron Lanier è stato uno degli artefici della creazione di queste tecnologie ed è uno dei pionieri della realtà virtuale. Dopo anni di lavoro nelle maggiori aziende high tech, pur restando interno a questo mondo, sta raccontando cosa c’è dietro, come funziona questo grande esperimento su larga scala di cui noi saremmo le cavie :
“in breve, dice Lanier, il sistema di feedback nei social sta creando un loop di punizione e validazione sociale che fa leva sulle nostre vulnerabilità per manipolarci a piacimento. Si tratta di meccanismi ‘sostanzialmente additivi’, perché inducono a rincorrere il piacere della ricompensa, mentre la punizione e il rinforzo negativo rinnovano continuamente la paura di non essere abbastanza.” (https://www.che-fare.com/social-liberta-jaron-lanier/)
Una cosa molto indicativa ed emblematica, quasi ironica, di questo grande “esperimento”, sta nel fatto che i leader delle corporation, gente come Jack Dorsey o lo stesso Steve Jobs all’epoca, si tengono bene a distanza dal frutto della loro fortuna, magari vietando l’uso di internet ai propri figli, facendo meditazione e disinteressandosi dei social network, vivendo una vita rilassata e offline mentre noi ci accapigliamo nei flame su Twitter e Facebook. La cosa su cui, in conclusione di questi brevi appunti, mi preme comunque ragionare, riguarda la ricaduta politica e collettiva di tutto ciò. La stragrande maggioranza dei gruppi politici e delle singole individualità che fanno politica oggi utilizzano infatti i social network: vi sono entrati anni fa con la consapevolezza che fosse necessario per parlare a una grande massa di persone.
Ogni tanto, quando Facebook chiude una pagina di qualche gruppo politico, si torna a parlare della contraddizione tra le pratiche dei movimenti alternativi e il loro uso (che si vuole solo strumentale) dei social network commerciali. Poi, passato lo “scandalo” momentaneo, tutto torna come prima e i compagni riprendono a insultarsi sotto i post e a fare a gara di like per le proprie pagine. Prima abbiamo visto sinteticamente e rapidamente quali sono gli effetti negativi che i social media producono sull’individuo, parimenti si dovrebbe cominciare a parlare delle conseguenze nefaste che essi hanno avuto in questi anni sulla politica “a sinistra” nei vari movimenti. È innegabile che ci sia stato un ulteriore adeguamento alla politica spettacolare, alla ricerca di un consenso quantitativo, ottenuto peraltro con le stesse tecniche del marketing. Abbiamo visto crescere a dismisura il rafforzamento di pratiche verticistiche e in ultima analisi violente nei gruppi: chi decide cosa pubblicare su Facebook, chi ha le password, chi amministra i gruppi, chi fa un evento…
Si potrebbero fare mille esempi di esperienze politiche arenatesi nell’uso distorto dei propri strumenti di comunicazione, che da semplici strumenti si sono trasformati nel principale, se non unico, momento di attivismo politico. Gilles Deleuze scriveva che
“le forze repressive hanno sempre bisogno di Io su cui contare, di individui determinati su cui esercitarsi. Quando diventiamo un po’ sfuggevoli, quando ci sottraiamo all’assegnazione di un io, quando non ci sono più uomini su cui Dio possa esercitare il suo rigore o da cui possa farsi rimpiazzare, allora la polizia perde la testa”(G. Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Ombre corte, 1999, p. 51.).
Oggi invece stiamo facendo di tutto per agevolare il lavoro delle forze repressive, inteso in senso lato come il controllo del potere sulle nostre vite. Fa un po’ sorridere oggi pensare alla pratica di mettersi un falso nome su Facebook, visto l’enorme potere e la capacità di asservimento che la piattaforma di Zuckerberg ha ormai sulle nostre vite. Molte persone del resto si sono anche adeguate quando il social ha chiesto la carta di identità agli iscritti, ma non è neanche questo il punto. Il problema sta nel cominciare a capire che forse, lo dico come ipotesi, uno strumento commerciale così violento, escludente, pervasivo, sia diventato uno dei principali avversari da combattere e non, come invece si pensa diffusamente, uno strumento da attraversare criticamente, utilizzare strumentalmente, piegare alle proprie necessità :
“The social industry platforms are far more worried about the prospect of digital suicide, of disconnection, than they are about any purported ‘subversive’ use of their means.”(R. Seymour, The twittering machine, Indigo Press, 2019, p.102. The twittering machine, Indigo Press, 2019, p.102.)
Detto questo, restano aperti tutti gli altri problemi, dalla comunicazione di messaggi efficacemente distribuiti fuori da queste piattaforme all’isolamento che provoca l’uscita volontaria dai social. Rimanendo ad esempio alla questione del rilascio di dopamina nel cervello, dovremmo allora studiare anche gli effetti negativi su chi si è cancellato da tutti i vari social network: la loro singolarità isolata in relazione al cervello sociale . Posto che il piano della realtà prevalente è quello formato da una infosfera digitalizzata (con un’interazione di utenti mediata, come abbiamo visto, da piattaforme private) allora quella paura detta FOMO (Fear Of Missing Out) provata dall’utente dei social network quando spegne lo smartphone è centuplicata per chi esce definitivamente dalle piattaforme. Gli effetti negativi a catena possono essere molteplici.
Poniamo che ci sia un’indagine della polizia che abbia come obiettivo una data popolazione e che su cento persone sotto osservazione solo cinque non siano presenti su Facebook, su chi cadrebbero i primi sospetti della polizia? In poche parole, di fronte a tale stravolgimento sociale, linguistico, fisico e dunque antropologico è davvero difficile sia declinarlo dall’interno che starne completamente fuori. Forse è vero, come scrive anche Francesca Coin nell’articolo sopra citato riguardo Lanier, che il segreto del grande successo dei social non sta tanto nel rilascio di dopamina e nella dipendenza psicologica nella quale volontariamente ci inseriamo: sta piuttosto nel fatto che desideriamo un posto migliore del mondo di merda in cui viviamo, per cui speriamo che le relazioni e le politiche che costruiamo nei social siano migliori e ci liberino. Posto che questa è una pericolosa illusione, dovremmo allora avere la pazienza e la forza mentale (se ne rimangono ancora a disposizione) non solo di uscire dalla scatola skinneriana ma anche di trovare quello spazio di cui parlava la Zuboff e ritessere relazioni positive grazie alle quali non avremo più un bisogno disperato e assoluto di una realtà virtuale.
Non parlo però di un santuario slegato dai rapporti sociali e di potere ma di uno spazio assieme singolare e collettivo. Trovare delle piattaforme alternative che non creino profitto per le grandi imprese della Silicon Valley è fondamentale ma occorre anche fare un ragionamento sulle identità che ci andiamo costruendo in rete, anche perché stanno diventando una gabbia di narcisismo che non fa più bene veramente a nessuno. Ricordo ad esempio nei primi tempi di vita di Twitter quando l’appena nato social network si configurava come un enorme flusso di notizie e opinioni quasi completamente slegato dalla personalità degli utenti, senza la pagina personale a farla da padrone, con una minima individuazione del creatore dei contenuti: poi è venuta l’esigenza di profilazione e tramite gli algoritmi il flusso è andato in secondo piano. Bisognerebbe riflettere sulle vie di fuga da questa individualizzazione forzata da parte delle piattaforme, cercando, come diceva Deleuze, di far perdere la testa alla polizia.