tracce noir

storie, illusioni e conflitti

Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia)

Sono estremamente grato al testo di Teodora Mastrototaro per tante ragioni, a partire dal titolo: “Le mucche se non le mungi esplodono (di gioia)”. Questa immagine riprende uno dei tanti luoghi comuni sugli animali da allevamento, che sarebbero sfruttati per il loro bene. Nel caso delle mucche questa diceria, che la mungitura sia necessaria per loro stesse e non una pratica violenta di sopraffazione da parte degli umani nei loro confronti, mi ha sempre destato una fortissima indignazione.

La mungitura non ha nulla di “naturale”, come ci si immagina invece nella falsa coscienza specista. Scrive l’attivista e artista Sunaura Taylor in relazione alla produzione del burro: “...fare le cose ‘naturalmente’ è spesso un compito molto più complesso di quanto pensino molti onnivori. Per prima cosa un operatore ‘munge’ lo sperma di un toro, nel senso che lo masturba. Quindi, l’allevatore che ha acquistato quello sperma spinge il braccio su per la vagina di una mucca per inseminarla artificialmente. Un vitello comincia a crescere, e alla fine il corpo della mucca inizia a produrre un alimento perfettamente adatto a quel vitello. Ma le mammelle della madre, invece di essere prese in bocca al vitello, sono inserite in coppe di metallo rivestite di materiale sintetico. Il latte viene aspirato, attraverso dei tubi, in una grande vasca. Poiché i capezzoli vengono strizzati ripetutamente dalla macchina, deve sopportare dolorosamente lacerazioni e mastiti – un’infezione della mammella – che spesso causano la presenza di pus nel latte. Nel frattempo, molto probabilmente alla mucca sono stati somministrati ormoni, ed è stata manipolata geneticamente in modo da produrre fino a dieci volte la quantità di latte che produrrebbe naturalmente. Di conseguenza, il suo corpo è sotto costante stress, ed è a rischio di svariati problemi di salute, che inducono l’allevatore ad aggiungere antibiotici a questo cocktail ‘naturale’. Quindi, invece di nutrire il vitello, il latte viene portato nelle fabbriche dove viene separato, analizzato per determinare il contenuto di grassi, pastorizzato per distruggere enzimi e microrganismi, aspirato in un bidone elettrico tramite uno scambiatore di calore a piastre, separato di nuovo e nuovamente rimescolato. Ecco qua il burro ‘naturale’!” S.Taylor, Bestie da soma, Edizioni degli animali, Milano 2021, pp. 249-250.

Dall’immagine sfolgorante della mucca che esplode di gioia, passiamo al sottotitolo del libro di Mastrototaro, che ci prepara al corpus del testo: (crudeltà sugli animali, un inventario). I versi della poetessa sono preceduti da una notizia, con data e luogo, di un evento che ha coinvolto uno o più animali, spesso riportando delle situazioni che hanno rappresentato uno snodo anche per i movimenti antispecisti: si passa infatti dalla detenzione degli orsi e delle orse del Casteller in Trentino, ai macachi su cui viene indotta la cecità per la sperimentazione del progetto Light-up dell’Università di Parma, fino ad arrivare ai grattacieli costruiti in Cina per allevare e macellare milioni di maiali. Questi episodi rappresentano quindi anche una sorta di calendario e di diario del rapporto malsano che esiste tra gli umani e gli altri animali. In poche righe la poetessa ci espone la situazione sotto forma di flash news breve ma carica di significato sia per gli animali coinvolti che per le persone che hanno lottato e sofferto per loro.

A volte non c’è nella notizia nemmeno un commento riportato, prima dei versi successivi, altre invece scorgiamo alcuni momenti significativi racchiusi sempre in poche parole: “20 settembre 2023 Sairano – tutti i maiali del rifugio Cuori Liberi sono stati abbattuti. Molti attivisti e attiviste sono stati picchiati, presi a calci e pugni e manganellati, alcuni fatti salire sulle camionette della celere e portati via senza rispettare i protocolli di sicurezza e sanificazione e per uno di loro colto da malore non è stato chiesto soccorso dalle forze dell’ordine” [pagina 64]. Questa vicenda, ad esempio, ha mobilitato decine di migliaia di persone in tutta Italia, nel mio piccolo ne scrissi proprio per Ghinea e partecipai al grande corteo svoltosi a Milano a difesa dei santuari e rifugi per animali liberi. Mastrototaro ci lascia pochi versi a commento, parole che scolpiscono momenti di lotta che si sono impressi nel corpo di chi ha lottato:

* Il corpo pieno di lividi sembra la superficie della luna conficchiamo la bandiera o in caso il manganello. Vince chi è più celere.

Sempre nel 2023, “il granchio blu è stato portato sulle coste italiane dalle acque di zavorra, diventando subito un nuovo ingrediente culinario”. Proprio qualche giorno fa ho visto un servizio della trasmissione TV “Report” che raccontava la crisi dell’allevamento delle vongole in seguito alla invasione di questa specie aliena: la soluzione è stata alla fine trovata raccogliendo i granchi, uccidendoli e inscatolandoli, pronti per invadere (questa volta pacificamente) i mercati esteri ed essere trattati come ingrediente gourmet da chef stellati.

Ricompare subito dopo nei versi dell’autrice anche la mucca da mungere del titolo, che però questa volta non esplode di gioia ma stramazza per la fatica: “13 aprile 2018 Svizzera – morta a ventun anni la mucca Haiti, mucca da latte da record. Ingravidata artificialmente, in venti anni ha prodotto 200.000 litri di latte per l’allevamento”. I corpi degli animali non reggono i ritmi imposti dalla cattiveria e dall’insensibilità umana, la violenza è brutale e pervasiva, nel testo conosciamo la tragica fine di gatti, elefanti, cani, asini, conigli: massacrati, torturati, smembrati, imprigionati o lanciati nello spazio. Nonostante l’autrice ci presenti delle situazioni provenienti da ogni parte del mondo, la geografia umana dell’introiettamento della insensibilità alle vittime animali è una cosa trasversale.

Oltre che un inventario, il testo si presenta anche come una cartina dell’indicibile e del normalmente non rappresentato: per questo ci è utile, perché ci indirizza in un territorio che in generale ci sovrasta e ci può rendere inermi. A questi animali viene restituito un nome, una storia, un racconto e quindi un posto nel nostro mondo. Come ci fa notare Bianca Nogara Notarianni nella sua bella introduzione, “Il lutto, ci spiega tanta teoria politica, è anche vettore di comunità – siamo anche coloro che piangiamo”. Per questo motivo i volti, le storie e i nomi di questi animali che abbiamo conosciuto grazie al libro di Teodora Mastrototaro possono diventare una parte di quella comunità che sogniamo, una comunità fatta di esseri umani ma anche di gatti ed elefanti, di cinghiali e granchi blu, una comunità che un giorno celebreremo come la gioia esplosiva della mucca che non viene più munta e non piangeremo più questa serie interminabile di violenze e di lutti.

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Il collasso non assomiglierà per niente ai film

fonte: https://thehonestsorcerer.substack.com/p/collapse-will-look-nothing-like-in

La recente crescita esponenziale di film post-apocalittici è piena degli stessi cliché. Questi temi hanno uno scopo utile, come far sentire a proprio agio il nostro cervello narrativo o evocare empatia per i protagonisti, ma fuorviano anche il pubblico. Come ogni collapsologist serio testimonierebbe, questi stereotipi non solo rendono questi film estremamente prevedibili, ma anche lontani dalla realtà.

Dobbiamo mettere in chiaro alcune cose sul collasso. Cominciamo con la mia preferita: vale a dire, che il collasso è un evento quasi istantaneo, e che avviene ovunque, esattamente nello stesso momento. Il giorno prima, tutto sembra e funziona bene; Il giorno dopo, il mondo intero è in rovina. Gli edifici sembrano fatiscenti nel giro di pochi giorni, le strade si intasano di veicoli incidentati e abbandonati e non ci sono quasi sopravvissuti da vedere. Tutto sembra, beh, visibilmente collassato.

Secondo la trama, tutto questo è una diretta conseguenza di un evento misterioso, che ha provocato la morte di un numero assurdamente elevato di persone in una settimana. Man mano che la storia si svolge, veniamo informati che il collasso della civiltà è il risultato delle malefatte di un piccolo gruppo di esseri umani, o di un virus o di un disastro naturale, e non la conseguenza di miliardi di noi che vivono in modo insostenibile per centinaia di anni. Se quest'ultimo viene pronunciato accidentalmente, viene immediatamente messo a tacere da una persona antipatica, riportando la conversazione su come dobbiamo combattere i malvagi cospiratori, gli alieni, gli zombie, i virus, e così via. “Ehi, abbiamo una missione da compiere! Dobbiamo salvare il mondo!”

A questo punto si scopre che solo un individuo molto speciale (il protagonista) ha la chiave per la sopravvivenza dell'umanità, e che c'è una terra promessa molto-molto lontana a cui questa chiave deve essere consegnata, di solito a caro prezzo. Secondo la storia, gli esperti sono riusciti a preservare la scienza e la civiltà in questo rifugio sicuro, e tutto ciò di cui hanno bisogno è quella conoscenza speciale, ingrediente, persona, oggetto [riempi lo spazio vuoto] per eliminare la causa del collasso e riavviare la società. Inutile dire che il ruolo di questo luogo mitico è quello di perpetuare la convinzione che gli “esperti” abbiano tutto sotto controllo e, qualunque cosa accada, il nostro attuale modo di vivere può continuare all'infinito.

“Qualcuno, da qualche parte, penserà sicuramente a qualcosa.”

Una volta che hanno deciso di completare la loro missione, gli eroi scoprono che non possono davvero fidarsi di nessuno che incontrano lungo il loro viaggio e devono essere molto sospettosi degli estranei. 'Ehi, vogliono rubare la nostra roba! Vuoi che ci tolgano anche la libertà?!” Nel loro mondo visibilmente collassato, gli ex vicini dei protagonisti sono ora i loro nemici: persone di cui devono diffidare e a cui possono sparare senza scrupoli morali. Il mondo post-apocalittico è diventato un luogo ostile e inaffidabile, con predoni in agguato dietro ogni angolo, in attesa di tendere un'imboscata a tutti coloro che passano. Di tanto in tanto i nostri eroi si imbattono in persone ben preparate che vivono nelle loro case pesantemente sorvegliate (con cibo, acqua ed energia per anni, ovviamente), ma sembrano non essere disposti ad aiutare. Ognuno pensa a se stesso.

Grazie alle molte ripetizioni attraverso innumerevoli film, romanzi e simili, questi cliché sono diventati quasi assiomatici: supposizioni che le persone accettano senza metterle in discussione. Di conseguenza, anche la parola “collasso” è diventata uno spauracchio, evocando immagini di rovine, grave pericolo e vittime di massa, qualcosa di cui nessuno vuole parlare, figuriamoci vivere.

Questo è il motivo per cui il collasso è negato con tanta veemenza, soprattutto dalle classi benestanti e manageriali. Essendo stati esposti a così tanto porno del collasso, sono terrorizzati all'idea di perdere i loro comodi lavori ben pagati, le McMansion e altri privilegi, quindi preferiscono scegliere di negarlo del tutto. Quando si tratta della probabile realtà del collasso, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. A parte un evento veramente apocalittico (un massiccio impatto di meteoriti o una guerra nucleare che provoca un inverno che dura molti anni e una completa distruzione dello strato di ozono), il collasso sarà completamente diverso. In primo luogo, non è qualcosa che accade ovunque nello stesso momento, causando miliardi di vittime nel giro di poche settimane. Certo, si può sempre evocare il peggiore di tutti gli scenari possibili, come un arresto improvviso dell'intera rete elettrica (che porta alla rottura totale del nostro sistema di supporto vitale) o un guasto multi-granaio che causa una carestia globale.

Affinché si verifichi un collasso completo, più sistemi devono rompersi contemporaneamente, il che è altamente improbabile. Ci sono migliaia di persone che lavorano duramente per a) impedire che queste cose accadano e b) ripristinare il normale funzionamento in pochi giorni. Nessuno sta con le mani in mano ad aspettare che tali scenari si svolgano. Mentre la catastrofe potrebbe colpire qualsiasi area in qualsiasi momento, ritengo che le possibilità che questo evento diventi globale siano relativamente basse.

Perché allora il collasso è inevitabile? Non siamo forse la specie più intelligente del pianeta in grado di risolvere tutto ciò che gli viene lanciato? Sebbene siamo molto intraprendenti, soprattutto quando si tratta di aumentare i profitti, abbiamo stupidamente sacrificato la sopravvivenza / sostenibilità a lungo termine per guadagni a breve termine. Abbiamo esagerato con la nostra mano, nonostante le prove evidenti che questo non sarebbe potuta finire bene. Certo, continueremo a trovare modi per mantenere la nostra produzione di energia e materiali, fino a quando non saremo più in grado di farlo. La tecnologia può aiutare e aiuterà, ma non è in grado di invertire l'esaurimento dei ricchi giacimenti di minerali e combustibili fossili che ha reso possibile la crescita precedente, e ha un costo.

In effetti, stiamo accelerando verso un punto di rendimenti decrescenti man mano che ci avviciniamo ai limiti geofisici. Presto non importerà più quanti sforzi mettiamo per risolvere il “problema” dell'esaurimento dei minerali o dei combustibili fossili, i costi energetici e materiali supereranno rapidamente tutti i potenziali benefici che speriamo di ottenere. Tali situazioni iniziano molto lentamente, oscillando avanti e indietro tra operazioni prolungate e modalità di crisi, solo per ribaltarsi in una serie infinita di emergenze che durano diversi decenni. Se pensate che il mondo sia impazzito e che stia per impazzire ancora di più, non vi sbagliate del tutto. State assistendo al crollo della modernità. (D'altra parte, se pensi “no, non potrebbe essere così”, allora ti suggerisco di rivedere le tue fonti di informazione.)

Le civiltà, proprio come i giacimenti petroliferi, “non si schiantano e bruciano, ma seguono un percorso ondulato verso il basso nel corso di anni o decenni”. Art Berman

Il declino è un viaggio accidentato e distribuito in modo non uniforme verso uno stile di vita veramente sostenibile. Più a lungo questo declino viene posticipato e maggiore è il divario tra ciò che è sostenibile e ciò che non lo è (ovvero overshoot), più ripido e profondo diventa il crollo. Anche se ci saranno seri momenti di “crash and burn”, il collasso non è una linea retta che punta sempre verso il basso. È spesso intervallato da momenti di tregua, o addirittura da una rinnovata crescita, per poi riprendere sotto forma di un'altra massiccia recessione.

Nel frattempo il sistema si ricalibra costantemente e cerca di riavviarsi... Sai, quelle migliaia di esperti che fanno gli straordinari per risparmiare quello che possono. Ma anche gli esperti hanno i loro limiti. Possono fare “magie”, ma in molti casi stanno solo armeggiando con i bordi, reagendo a un'emergenza dopo l'altra. Con l'aumento del numero di crisi da affrontare contemporaneamente, con l'allungamento dei tempi di consegna dei pezzi di ricambio e l'insorgere di carenze, molti sistemi rimarranno in uno stato di abbandono permanente. Strade. Tunnel. Ponti. Dighe. Tubi dell'acqua. La rete elettrica.

Senza una solida base che la sostenga, qualsiasi struttura è destinata a crollare, non importa con quanta cura gli artigiani cerchino di mantenere gli ornamenti sulla facciata. E le fondamenta di questa civiltà si stanno sgretolando. Veloce. Stiamo perdendo la biosfera e un clima stabile, risorse naturali e minerali, un sistema economico stabile e infrastrutture funzionanti. Queste sono le vere ragioni per cui stiamo affrontando una crisi dopo l'altra senza che se ne veda la fine, aggravata ancora di più (e in ultima analisi alimentata) dall'avidità dei nostri padroni aziendali.

La nostra civiltà è come un pantofolaio invecchiato: scivola verso l'aldilà un infarto alla volta, rianimato dai medici ancora e ancora.

Per quanto riguarda l'estrazione e la distribuzione del petrolio, stiamo già superando un importante punto di svolta. Dall'estrazione mineraria all'agricoltura, dal trasporto a lunga distanza all'edilizia “rinnovabili”, quasi tutte le attività economiche sono sostenute da questa sostanza altamente inquinante. Anche se i numeri della produzione di petrolio potrebbero continuare ad aumentare per un anno o due a venire, l'energia netta che guadagniamo dai prodotti petroliferi inevitabilmente raggiungerà il massimo. Da quel momento in poi, il cannibalismo energetico consumerà una parte in crescita esponenziale di qualsiasi petrolio che possiamo produrre, portando a un declino permanente dell'energia netta. Lo stesso vale anche per altri minerali e fonti di energia, limitando qualsiasi ulteriore crescita dell'impresa umana. Il mondo sta per entrare in un gioco della sedia su larga scala.

Di conseguenza, presto non sarà più possibile procedere come se non fosse più possibile. La brusca fine della crescita economica globale sconvolgerà tutti gli accordi finanziari esistenti, basati come sono sulla crescita infinita. Dopo un breve periodo di stampa di denaro, una grave crisi del debito e un'altra ondata di inflazione sono quasi garantiti. Molte aziende manifatturiere falliranno a causa dell'aumento dei costi dell'energia e dei trasporti, della carenza di materie prime e attrezzature e di un crollo generale della redditività (soprattutto nel settore dell'elettrificazione ad alta intensità energetica e dei materiali). Eppure il mondo non finirà.

Sì, la vita diventerà sempre più difficile durante gli anni e i decenni della lunga emergenza che ci attende. Con l'aumento dei costi del carburante e dei fertilizzanti, la siccità e le ondate di calore, la produzione agricola diventerà sempre più difficile da mantenere e i costi di produzione alimentare aumenteranno di conseguenza. C'è un'ondata in gran parte non segnalata di proteste degli agricoltori in corso in tutta Europa proprio per questo motivo. Le persone che coltivano i nostri cibi commestibili non riescono più a vedere un modo praticabile per rimanere in attività: l'aumento dei costi dell'energia (gasolio) e la fine di molti sussidi li hanno messi in una situazione impossibile. Questo porterà alla fame e alle rivolte per fame? Difficilmente. Verso una maggiore centralizzazione e un calo della qualità? Quasi certamente. Le piccole aziende agricole continueranno ad essere acquistate dalle grandi aziende agricole che avranno quindi un potere di lobbying ancora maggiore e un maggiore accesso ai sussidi governativi e alle agevolazioni fiscali. L'aumento dei prezzi del cibo per la gente e l'aumento vertiginoso delle rendite di monopolio per i ricchi sono il risultato probabile.

Il consolidamento aziendale non ridurrà la carenza di carburante e risorse; Non farà altro che esacerbare la disuguaglianza. Man mano che questo processo continua, il razionamento del cibo potrebbe tornare ad essere la norma, insieme a lunghe code per quasi tutto. Se non appartieni allo 0,1% più ricco, puoi dire addio alle vacanze all'estero, a un nuovo computer o persino a un nuovo tostapane. L'elettricità diventerà intermittente e i blackout a rotazione diventeranno la misura standard per far fronte alle carenze nella produzione e nella manutenzione. I servizi sanitari e i farmaci potrebbero anche diventare non disponibili (o addirittura più inaccessibili) per il pubblico in generale, portando a un calo dell'aspettativa di vita e a un aumento della mortalità in tutte le fasce d'età (ad eccezione dei benestanti che hanno a che fare con le loro strutture sanitarie private).

Afflitta da prospettive economiche sempre peggiori, dall'invecchiamento della popolazione, dalla penuria e dalle guerre, dal calo dei tassi di natalità (a causa dell'impennata del costo della vita e dell'infertilità dovuta all'inquinamento chimico), dall'aumento delle malattie infettive e dalle “morti per disperazione”, la popolazione mondiale potrebbe facilmente diminuire fino al 2-5% all'anno. A un tale ritmo il nostro numero si dimezzerebbe ogni 2-3 decenni, riducendo la popolazione mondiale a ben meno di un miliardo entro la fine di questo secolo. Non sarebbero necessari nuovi virus, fame di massa o guerre globali, ma solo il declino della civiltà e un corrispondente aumento delle morti in eccesso.

Come puoi vedere dall'immagine sopra, il collasso non assomiglierà per niente ai film. Non accadrà ovunque nello stesso momento, e sicuramente ci vorranno più di un giorno o due per svolgersi. Non porterà a vittime di massa in una settimana, ma ridurrà il nostro numero a una frazione di quello che è oggi entro la fine di questo secolo.

Questo declino è l'inevitabile conclusione per miliardi di persone che vivono ben oltre la capacità di carico del nostro ambiente e, in ultima analisi, del pianeta. L'overshoot e il conseguente esaurimento delle risorse, l'inquinamento e la crisi climatica sono ciò che i film post-apocalittici cercano di mettere a tacere a tutti i costi. Ma anche distogliere lo sguardo non aiuterà. Non è scolpito nella pietra il fatto che Big Ag debba acquistare tutti i terreni agricoli, né che si debba combattere una guerra globale per le ultime risorse rimaste sulla Terra.

Il collasso non è nemmeno qualcosa da cui si può “scappare” in un rifugio. Durerà molto, molto più a lungo di quanto potrebbero durare le vostre risorse, e alla fine sarete costretti a cooperare con i vostri vicini per una questione di sopravvivenza. Anche se non è una cattiva idea avere cibo e acqua riforniti nel seminterrato per emergenze o interruzioni, avere una rete di sicurezza di amici e familiari ti porterà molto più lontano.

Non aspettarti nemmeno che qualcuno da qualche parte trovi una soluzione. Una volta iniziato, il collasso è irreversibile. Notizia flash: è già ben avviato. Aumentare e mantenere la complessità (compresa l'ideazione di tecnologie sempre più sofisticate, che richiedono sempre più elettricità e l'estrazione mineraria) richiederebbe un aumento esponenziale dell'uso di energia, da cui il termine cannibalizzazione energetica. Trangugiare sempre più petrolio da sotto i nostri piedi, o costruire dispositivi “rinnovabili” sempre più elaborati utilizzando le nostre riserve minerarie in rapido esaurimento, richiederà presto più energia di quanta ne possa restituire alla società. Questo è un processo che può solo peggiorare con un maggiore uso della tecnologia. Vedete, è la tecnologia (basata su risorse non rinnovabili) ad essere insostenibile, non solo l'uso di combustibili fossili.

Una volta che l'energia netta raggiungerà il picco e inizierà a diminuire, ciò significherà una contrazione economica permanente. Sistemi complessi come le aziende, i governi o l'economia mondiale “sanno” solo come crescere, non sono progettati per funzionare in condizioni di “decrescita”. E mentre la base che lavora nei governi e nelle aziende farà tutto il possibile per tenere insieme il sistema, combatterà una battaglia persa. Questo è il motivo per cui le grandi società complesse come la nostra diventano fragili: invece di rinunciare volontariamente alle funzioni e semplificare per risparmiare energia, fanno il contrario. Concentrano il potere ancora di più, permettendo ai loro oligarchi in cerca di rendita di sottrarre ogni ricchezza rimasta, mentre il resto combatte con le unghie e con i denti per sopravvivere sotto la crescente “austerità”. Almeno fino a quando la fisica alla fine vincerà e le cose alla fine cadranno a pezzi.

A questo punto le persone – e questo include noi, me e te, caro lettore – dovranno sempre più fare affidamento sulle comunità locali, sulle capacità personali, sulle piccole aziende agricole e su strutture di governance radicalmente semplificate. Nessuno verrà in TV ad annunciare che il collasso è ufficialmente arrivato, e che siete liberi di andare. Queste cose accadranno in parallelo, e quando i nostri sistemi centralizzati finalmente abbandoneranno il fantasma, lasceranno un vuoto dietro di sé. Cosa riempirà questo vuoto, però, dipenderà da noi. Almeno lo spero. Alla prossima. B

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Il soufflé umano. Ingredienti principali: petrolio, minerali e cereali.

Fonte: https://thehonestsorcerer.substack.com/p/the-human-souffle

Presupposti errati L'umanità – almeno nella maggior parte dei paesi del mondo – è già in fase di superamento ecologico. Secondo questa metrica, il Qatar, ad esempio, avrà già esaurito tutta la sua giusta quota di produttività biologica (colture, pesce, prodotti forestali, ecc.) e rilasciato la sua giusta quota di CO2 entro il 6 febbraio 2025. Per il resto dell'anno dovrà fare affidamento sulle importazioni per soddisfare le esigenze della sua popolazione (2,7 milioni di persone). Non c'è da chiedersi perché: il Qatar è una piccola città-stato in una delle regioni più aride e calde del mondo. Sono, tuttavia, seduti in cima a un'enorme riserva di petrolio e gas; i prodotti di cui possono commerciare con cibo e altre materie prime. Ad essere onesti, ci sono ancora alcuni paesi che non consumano tutta la produttività biologica della loro terra in un anno, ma su una media globale, l'umanità avrebbe ancora bisogno di 1,7 Terre per sostenere il suo attuale livello di consumo.

Questo metodo di analisi dell'impronta ecologica, tuttavia, si basa su una serie di ipotesi errate. E mentre queste supposizioni potrebbero essere vere per il momento, ci lasciano con la falsa impressione che le cose potrebbero andare avanti bene se facessimo qualche aggiustamento qua e là. Le proposte di miglioramento vanno principalmente nella direzione di ridurre le emissioni di CO2, poiché la produzione alimentare è diventata molto più efficiente nel tempo che non dovremmo più preoccuparcene. Per illustrare questo punto, basta dare un'occhiata alla definizione di “impronta ecologica” pubblicata sul sito web del Global Footprint Network:

Impronta ecologica “Una misura di quanta area di terra e acqua biologicamente produttiva un individuo, una popolazione o un'attività richiede per produrre tutte le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti che genera, utilizzando la tecnologia prevalente e le pratiche di gestione delle risorse. L'impronta ecologica è solitamente misurata in ettari globali. Poiché il commercio è globale, l'impronta di un individuo o di un paese include la terra o il mare di tutto il mondo”.

Potrei essere pignolo qui, ma l'ultima volta che ho controllato la “tecnologia prevalente e le pratiche di gestione delle risorse” (così come il “commercio globale”) dipendono interamente da quantità follemente elevate di consumo di energia. Qualcosa che, secondo il paradigma tecnologico prevalente, significa due cose: petrolio e gas naturale. Tutte le nostre macchine agricole e minerarie, dai trattori alle mietitrebbie, dagli escavatori ai dumper, sono alimentate a gasolio, derivato dal petrolio. (Non diversamente da tutti quei camion e navi pesanti che trasportano tutti quei cereali, minerali e un trilione di altri prodotti in tutto il mondo (1).) Oh, e non dimentichiamo tutto il gas naturale convertito in fertilizzanti (attraverso il processo Haber-Bosch), o le molte altre applicazioni del metano nell'industria alimentare (sia come fonte di calore che come fonte di CO2 che migliora la crescita delle piante nelle serre).

E già che ci siamo, commemoriamo le innumerevoli gigatonnellate di carbone bruciate nelle fornaci e nelle fornaci che producono il ferro e il cemento necessari per costruire quelle macchine, magazzini e tutto il resto delle infrastrutture che consegnano il cibo sulla tua tavola... La contraddizione tra il desiderio di ridurre le emissioni di CO2 e il desiderio di mantenere i nostri attuali accordi economici per 8 miliardi di esseri umani è difficile da non notare qui. Viviamo sotto un paradigma di autodistruzione, in cui l'alimentazione, l'alloggio e il vestiario di miliardi di persone dipendono interamente dal nostro accesso illimitato ai combustibili fossili, la cui combustione sta causando un brusco ritorno di un clima caldo, che non si vedeva da milioni di anni.

Il circolo vizioso finisce Nonostante la loro relativa abbondanza sulla Terra, la quantità di risorse minerarie (rame, alluminio, sabbia, ecc.) su cui possiamo mettere le mani è limitata anche dalla quantità di energia da combustibili fossili che possiamo dedicare alla loro estrazione. I minerali facili da ottenere, di alta qualità e di alta qualità, adatti a semplici metodi di estrazione, sono stati tutti consumati molto tempo fa, e ciò che rimane, non importa quanto abbondante, ci richiede di spostare miliardi di tonnellate di rocce per ottenerle, e quindi richiede milioni di galloni di carburante da bruciare in dumper ed escavatori. Solo fino a quando saremo in grado di produrre sempre più combustibili fossili, anno dopo anno, per tenere il passo con l'esaurimento dei minerali di alta qualità (e la loro sostituzione con minerali di qualità sempre più scadente), gli affari potranno continuare come al solito. Da qui il grafico sopra.

“Se non fosse per il cambiamento climatico e la massiccia distruzione ecologica e l'inquinamento provocati dall'estrazione mineraria, questa attività potrebbe continuare senza sosta, praticamente per sempre. E se potessimo elettrificare queste attività, anche il cambiamento climatico non sarebbe un problema...' – o almeno così la maggior parte di noi vorrebbe pensare. Il problema è che lo stesso dilemma (l'esaurimento della roba di alta qualità e la sua eventuale sostituzione con risorse di bassa qualità ma abbondanti) colpisce lo stesso il petrolio. Questo è il motivo per cui la produzione globale di petrolio è su un plateau piatto da dieci anni (ad eccezione dei due anni della pandemia), con un picco massimo di produzione giornaliera di greggio già superato nel novembre 2018.

Il petrolio di bassa qualità, nel nostro caso, significa un basso ritorno energetico sull'energia investita: sempre più pozzi sempre più profondi perforati nella stessa area solo per tenere il passo con l'esaurimento accelerato dei pozzi esistenti. Ciò significa più carburante speso, più camion carichi di sabbia, tubi di perforazione e fluidi di fracking consegnati in loco, più CO2 pompata nel sottosuolo per spremere il petrolio rimanente, più carbone bruciato per produrre tubi di perforazione e condutture che consegnano il prodotto. In poche parole: man mano che i pozzi più vecchi e produttivi si esauriscono, dobbiamo correre sempre più velocemente solo per rimanere al loro posto. E ora, con il picco dell'estrazione di petrolio di scisto – l'ultima fonte di crescita della produzione globale di petrolio – molto probabilmente già alle spalle, non c'è molto da fare per aumentare la produzione netta di petrolio.

Questo non ha nulla a che fare con chi è il presidente, o quanta “burocrazia” viene rimossa. Siamo lentamente arrivati a un punto in cui l'esaurimento anche del più recente dei pozzi ha raggiunto un ritmo così elevato che, indipendentemente dal numero di buchi che abbiamo scavato nella sabbia, possiamo solo mantenere la produzione piatta. E dal momento che il mercato non può pagare abbastanza per un barile di petrolio per finanziare la perforazione di un numero sempre crescente di pozzi sempre più costosi (più lunghi, più profondi) a tempo indeterminato, la tendenza di crescita inarrestabile della produzione di petrolio finirà per trasformarsi in un lungo declino. Che, tra l'altro, non è più negato (nemmeno dalle organizzazioni più ottimiste) e ci si può aspettare che inizi tra 5 anni.

Non è che finiremo il petrolio entro la fine del decennio, ma che il circolo virtuoso di materiali e cibo sempre più economici (resi disponibili da combustibili fossili sempre più economici) si trasformerà lentamente in un circolo vizioso, in cui sempre meno carburante a buon mercato renderà possibile l'estrazione di materiali e la produzione di cibo sempre meno. Di conseguenza, negli anni e nei decenni a venire ci troveremo di fronte a un graduale declino sia della produzione di combustibili fossili che di minerali, risparmiando tutto ciò che possiamo per mantenere la produzione alimentare il più a lungo possibile. Questo, d'altra parte, non solo renderà impossibile continuare la “transizione energetica” (che richiede la quadruplicazione dell'estrazione di molti minerali), ma ci impedirà anche di utilizzare “le pratiche tecnologiche e di gestione delle risorse prevalenti” o di affidarci al “commercio globale” per troppo tempo. Quindi permettetemi di riformulare la definizione di cui sopra per riflettere la realtà: Impronta ecologica (versione corretta) Una misura di quanta area di terra e acqua biologicamente produttiva un individuo, una popolazione o un'attività richiede per produrre tutte le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti che genera, utilizzando una riserva finita di combustibili fossili inquinanti e esaurendo rapidamente i minerali. L'impronta ecologica è solitamente misurata in ettari globali. Poiché il commercio è globale, almeno fino a quando i livelli di produzione di petrolio lo consentono, l'impronta di un individuo o di un paese include la terra o il mare di tutto il mondo.

Ciò implica che d'ora in poi dovremo ricalcolare continuamente la nostra vera impronta ecologica sulla base delle risorse disponibili localmente utilizzando mezzi di estrazione a bassa tecnologia e a basso consumo energetico. E se questo significa che non ci sono (o sono rimaste pochissime) risorse in un'area che potrebbero essere estratte (o utilizzate per coltivare piante), allora quella terra diventerà semplicemente incapace di sostenere livelli di popolazione così elevati.

Un'illusione pericolosa Visto nel contesto più ampio delineato sopra, il presunto disaccoppiamento globale dei terreni agricoli e della produzione alimentare deve essere chiamato per quello che è: una pericolosa illusione. Siamo in un assoluto e sempre crescente superamento dell'ecologia. Consumiamo e inquiniamo molto più di quanto potrebbe essere rigenerato o assorbito dalla Natura in un anno. Un dato di fatto, mascherato solo da un analogo aumento dell'uso di combustibili fossili e minerali, che dà una spinta artificiale e temporanea alla produzione di cibo a livello globale. Quando il declino della produzione di petrolio raggiungerà un certo punto, tuttavia, sarà impossibile continuare con questa farsa e le conseguenze dell'ignorare la realtà cominceranno a farsi sentire. Basta dare un'occhiata al grafico qui sotto e confrontarlo con la citazione della stessa pagina intitolata Peak Agricultural Land.

“Gli esseri umani hanno rimodellato la terra del pianeta per millenni disboscando terre selvagge per coltivare colture e allevare bestiame. Di conseguenza, gli esseri umani hanno disboscato un terzo delle foreste del mondo e due terzi delle praterie selvatiche dalla fine dell'ultima era glaciale. Questo ha avuto un costo enorme per la biodiversità del pianeta. Negli ultimi 50.000 anni – e quando gli esseri umani si sono stabiliti nelle regioni di tutto il mondo – la biomassa dei mammiferi selvatici è diminuita dell'85%. L'espansione dell'agricoltura è stata il principale fattore di distruzione delle terre selvagge del mondo. Questa espansione dei terreni agricoli è ora giunta al termine. Dopo millenni, abbiamo superato il picco e negli ultimi anni l'uso globale dei terreni agricoli è diminuito”.

Il picco dei terreni agricoli non è stato un caso, né parte di una spinta internazionale per rinaturalizzare praterie e foreste. La perdita di terreni agricoli è stata, ed è tuttora, dovuta alle molte conseguenze – finora ignorate – dell'eccesso ecologico umano: l'inarrestabile espansione delle città e delle reti stradali, l'erosione del suolo, l'esaurimento dei nutrienti, l'inquinamento, la desertificazione e, più recentemente, l'intrusione di acqua salata dall'innalzamento dei mari. L'apparente disaccoppiamento della produzione alimentare dalle dimensioni dei terreni agricoli è un fenomeno temporaneo: il risultato di un aumento dell'uso di fertilizzanti, meccanizzazione, pesticidi, erbicidi e ingegneria genetica. Processi, alimentati interamente da combustibili fossili e che hanno un costo in termini di perdita di biodiversità, deflusso di nutrienti (che causa fioriture algali) e, in ultima analisi, perdita di fertilità del suolo. Infine, come conseguenza della combustione di tutti quei combustibili fossili e dell'abbattimento (e poi della combustione) di tutti quegli alberi, il cambiamento climatico rappresenterà una minaccia sempre maggiore per i raccolti sui terreni agricoli rimanenti. “Si può ignorare la realtà, ma non si possono ignorare le conseguenze dell'ignorare la realtà” — Ayn Rand

Questo non vuol dire che la fame e la carestia stiano per colpire le nazioni ricche nel giro di pochi anni. Sebbene i sistemi alimentari rappresentino almeno il 15% di tutto l'uso di combustibili fossili, molto probabilmente l'economia abbandonerà prima le sue parti meno essenziali (come la produzione di automobili). Quindi, mentre la produzione di petrolio inizia a diminuire da qualche parte verso la fine di questo decennio / inizio del prossimo, è più probabile che assisteremo a licenziamenti di massa dalle fabbriche piuttosto che a una brusca carenza di grano, mais o riso. (Anche se il cambiamento climatico, la guerra e il collasso politico possono rovinare considerevolmente questa previsione.)

Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, circa 735 milioni di persone in tutto il mondo soffrono già la fame e 3,1 miliardi non possono permettersi e/o non hanno accesso a diete sane. Con il deterioramento delle condizioni economiche, ci si aspetta che questi numeri crescano silenziosamente, con una percentuale crescente della popolazione occidentale che si unisce alle fila delle persone che soffrono di malnutrizione. Inoltre, il pesce, la carne, i latticini e i prodotti a base di uova, così come i prodotti esotici, diventeranno sempre più costosi e quindi sempre più inaccessibili alla stragrande maggioranza della popolazione. (Nel caso ve lo steste chiedendo, oltre al picco dei terreni agricoli, abbiamo già superato anche il “picco dei pesci”: il pescato ricostruito ha raggiunto il picco di 130 milioni di tonnellate all'anno nel 1996 e da allora è diminuito più fortemente).

I prodotti animali richiedono molta più energia per essere prodotti, e non solo sotto forma di mangimi, ma anche in termini di elettricità, gas naturale e gasolio. Poiché questi input diventano sempre più scarsi a causa della nostra incapacità di aumentare la produzione di combustibili fossili a tempo indeterminato, ci si può aspettare che il prezzo delle proteine animali aumenti più velocemente di quello degli alimenti a base vegetale (che richiedono molto meno carburante per kcal rispetto alla carne). Nel frattempo, aumenterà anche il costo della produzione di alimenti ultra-trasformati (che richiedono anche innumerevoli gigawatt di energia per la produzione) – insieme ai margini di profitto delle grandi aziende che si fondono in mega-monopoli che li vendono. L'inflazione alimentare è quindi destinata a rimanere e ci si può aspettare che acceleri ulteriormente, colpendo peggio i meno abbienti delle nostre società.

Il soufflé si sgonfia La popolazione è, ed è sempre stata, una funzione del cibo e delle risorse disponibili. Nel corso della storia umana, e ancora in molti luoghi dell'Africa, più bambini significavano più aiuto in casa e in giardino. (I giovani sono in grado di coltivare o raccogliere più cibo di quello che consumano, il che è particolarmente utile quando i genitori invecchiano e diventano fragili). Nelle società industrializzate, tuttavia, i bambini sono diventati un peso e una fonte di stress e ansia. Le loro tasse universitarie, insieme all'aumento del costo per mettere su famiglia (la necessità di comprare una casa e un'auto più grandi, spendere più cibo, carburante, vestiti e beni di consumo, ecc.) pongono un onere sempre più insopportabile sulle giovani coppie.

Non c'è da stupirsi che i giovani abbiano scelto di fare carriera e, negli ultimi tempi, si sentano sempre più incapaci di mettere su famiglia in un contesto di crescente rischio di precarietà e di crescente incertezza sul futuro. Masse di giovani hanno quindi “scelto” di “andarsene”, o per usare una parola più contemporanea: di “sdraiarsi” silenziosamente, quando la civiltà ha smesso di lavorare per loro. Quando la produzione di petrolio è entrata nella sua fase di plateau elevato dieci anni fa (con la produzione di greggio che si aggirava intorno ai 51583 terawattora a livello globale, più meno l'1,6% tranne che per il 2020 e il 2021), l'economia dei materiali non poteva più crescere. Senza un'adeguata crescita dell'energia e dei minerali in eccesso, tuttavia, non c'è modo di mantenere gli attuali standard di vita per un numero ancora crescente di esseri umani. Un inevitabile declino del tenore di vita cominciò così a prendere piede. Nel frattempo la corsa a vivere una vita borghese e ad avere una famiglia era persa per troppi giovani, prima ancora che la loro vita iniziasse davvero.

Un altro fattore importante, finora senza precedenti nella storia dell'umanità, è l'inquinamento chimico da pesticidi ed erbicidi (così come dai processi industriali) che causa un calo precipitoso dei tassi di fertilità sia maschile che femminile. Queste cosiddette “sostanze chimiche per sempre”, che tendono a circolare nella catena alimentare per un tempo terribilmente lungo, causando danni a tutti i partecipanti, possono ridurre la fertilità femminile fino al 40% e il numero di spermatozoi maschili del 53%. (Ascolta questa conversazione molto interessante per saperne di più o guarda questo “divertente” video di 20 minuti.) E con l'aumento del carico di inquinamento, ci si può aspettare che la situazione peggiori. Se le tendenze attuali si mantengono, non ci saranno quasi bambini nati entro la metà del secolo, anche se nel frattempo la situazione economica è migliorata (3).

Come effetto combinato della crescente precarietà economica, potenziata dalla scarsità di risorse e da un aumento senza precedenti delle sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino, non c'è da stupirsi che ci sia un crollo dei tassi di natalità in tutto il mondo. Questo è particolarmente vero nelle regioni più benestanti del mondo, che hanno sperimentato il maggior inquinamento industriale negli ultimi secoli, e la cui classe operaia, un tempo stimata, soffre sempre più della stagnazione dei salari, dell'aumento del costo della vita e della perdita di posti di lavoro a causa della deindustrializzazione. C'è da meravigliarsi che l'età media abbia raggiunto il suo massimo storico in tutte le regioni più “sviluppate” del mondo? Basta dare un'occhiata a questa mappa, pubblicata dall'American Geographical Society, e vedere come bassi tassi di natalità si traducono in un'alta età mediana e viceversa.

C'è però un avvertimento: poiché l'età media della popolazione supera i 30 anni, la tendenza potrebbe diventare troppo facilmente irreversibile. Le persone al di sopra di questa età non possono aspettarsi di avere famiglie numerose – avrebbero bisogno di averne una molto prima – con conseguente precipitoso declino della popolazione man mano che le generazioni più anziane lasciano la scena. (Se siete interessati a come potrebbe apparire il picco della popolazione in base alla realtà – rispetto alle proiezioni del tutto irrealistiche delle Nazioni Unite basate sulla crescita economica infinita – visitate l'eccellente blog di Tom Murphy e leggete la sua opinione sull'argomento.) Nel frattempo, però, questa tendenza potrebbe portare a un rapporto di 4-8 nonni per ogni nipote, rendendo sempre più impossibile mantenere la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria finanziata con fondi pubblici (poiché la maggior parte dei costi sanitari si verifica durante gli ultimi anni di vita di una persona). Con i primi anni di consumo che cadono tra i 25 e i 45 anni e con l'avvicinarsi della pensione da parte di un numero sempre maggiore di persone, le società in fase di maturazione subiranno un'ulteriore erosione della spesa dei consumatori. Tutti gli oggetti di grande valore (una casa, la prima auto, mobili, elettrodomestici, ecc.) vengono acquistati durante questa fase della vita di una persona, dopodiché le persone tendono a rinunciare alla spesa e iniziano a risparmiare per la pensione. E come abbiamo visto, non solo abbiamo molti meno giovani, ma hanno anche molti meno soldi da spendere a causa dell'aumento dei costi delle case e dei prezzi dei generi alimentari...

Conclusione Ho paragonato l'impresa umana a un soufflé fallito, che dopo che il calore (l'energia) è stato spento, inizierà a sgonfiarsi immediatamente. Essendo basato interamente sul rapido esaurimento delle risorse facili da ottenere, non esiste uno “stato stazionario” o un “equilibrio” per una civiltà in overshoot, poiché deve crescere incessantemente per evitare l'inizio della contrazione (2). Così, non appena i pozzi petroliferi – la fonte di energia che alimenta ogni altra attività – cominceranno a esaurirsi più velocemente di quanto potremmo sostituirli, l'attuale stagnazione finirà e la deflazione diventerà inevitabile. Dovremo imparare a nostre spese che i combustibili fossili, i minerali, il cibo e la popolazione non sono entità separate nel nostro mondo moderno, ma un sistema strettamente interconnesso che sta esaurendo la sua energia. Il cambiamento climatico, le guerre, i nuovi virus, le sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino e altri jolly si aggiungono “semplicemente” a tutto questo; l'accelerazione di queste tendenze socio-economiche è stata messa in moto dal consumo eccessivo di risorse.

Poiché il sistema umano non riesce ad aumentare il suo assorbimento di energia, non avrà più il potere di sostituire i terreni agricoli perduti con una maggiore meccanizzazione, né di compensare la perdita di risorse minerarie facili da estrarre con minerali sempre più poveri che richiedono sempre più spalare e trasportare per essere ottenuti. Qualcosa deve dare. I prezzi dei generi alimentari hanno già iniziato ad aumentare rapidamente per riflettere questa nuova realtà, lasciando sempre meno soldi per i beni di consumo, le automobili e le case, e provocando una “crisi del costo della vita” non disposta a diminuire. Un crollo della spesa, d'altra parte, ha già iniziato a trasformarsi in un crollo della produzione – una tendenza che potrebbe lasciarci con un eccesso di petrolio e risorse man mano che gli impianti di produzione chiudono e la domanda evapora più velocemente del declino dell'estrazione del petrolio. Oh, la bellezza dei sistemi autoadattativi!

Da tutto ciò si evince che la crisi dei consumi continuerà ad accelerare in tutto il mondo, poiché l'età media della popolazione continuerà ad aumentare, nasceranno sempre meno bambini e l'inflazione alimentare eroderà sempre di più il budget del salariato medio. L'offerta e la domanda di prodotti alimentari e di consumo cominceranno quindi a diminuire man mano che supereremo il massimo storico della popolazione mondiale, insieme a un picco nell'estrazione di petrolio e minerali. In realtà, possiamo già osservare i primi segni di questa tendenza, con alcuni problemi economici piuttosto seri in Cina – il più grande produttore mondiale di beni – e la stagflazione in Occidente, il più grande consumatore del globo. Un sistema finanziario basato sulla crescita, d'altra parte, non reagirà in modo così sottile a tali sviluppi, minacciando di trascinare l'intera economia. Come reagiranno le nostre élite politico-economiche deliranti, fuorviate e in preda al panico a ciò, tuttavia, è una questione completamente diversa. Alla prossima, B

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Cecità

In un’anonima città come tante, un uomo è alla guida della sua automobile, fermo al semaforo rosso: improvvisamente, sulla sua vista cala un’ombra bianca e lattiginosa. Da quel momento in poi si diffonderà inesorabilmente un’epidemia di cecità, che toccherà quasi tutti gli abitanti del luogo. I primi ciechi vengono reclusi in delle strutture apposite, sorvegliati dalle guardie armate, ma questo espediente servirà a poco, perché ben presto l’ondata di cecità travolgerà tutte le persone, compresi i militari che avrebbero dovuto sorvegliare le prime ammalate.

Cecità, il famoso libro di Josè Saramago, fu pubblicato nel 1995 con il titolo Ensaio sobre a Cegueira. L’intento dello scrittore Premio Nobel è quello di fare innanzitutto una spietata critica della società occidentale, meglio dire dell’organizzazione della società occidentale. L’ombra biancastra che scende sulla vista della popolazione è una chiara metafora della mancanza di saper riconoscere l’altro, con la scomparsa della solidarietà e di quella empatia che sono necessarie per far prosperare tutte le possibili architetture sociali.

Se tutte le persone perdono la vista, allora si blocca il meccanismo di riproduzione e cambiamento incessante che ci circonda: le strade non vengono pulite, i rifiuti ammorbano l’aria, non c’è possibilità di spostarsi con facilità da un posto all’altro della città e così via. Questa situazione di stallo che si diffonde mi ha ricordato uno dei capisaldi della filosofia yogica e buddista, quello dell’impermanenza. Noi vorremmo che la realtà che ci circonda fosse stabile, confortevole e immutata, ma queste condizioni sono possibili solo all’interno di un costante cambiamento, che è la base della vita stessa. Se non c’è impermanenza non c’è vita, bisogna riflettere su questo fatto quotidianamente nella giornata che scorre.

Altro elemento fondamentale della lettura del romanzo, è quello che riguarda l’ottusa cecità, appunto, del Potere nell’affrontare le emergenze e la quotidianità delle nostre città. I militari che sparano sulle prime persone cieche radunate nella struttura detentiva sono l’emblema di quanto ogni Stato affronti con violenza brutale qualsiasi situazione che gli si presenta davanti. Questa scena del romanzo mi ha ricordato quanto accadde in Italia nel carcere di Modena all’inizio della diffusione del Covid.

Nel marzo 2020 le persone detenute protestarono in tutto il paese per chiedere che il governo (all’epoca guidato dal premier Giuseppe Conte) affrontasse in qualche maniera la condizione delle persone detenute. In alcuni paesi accade che si liberino le persone carcerate, ma in Italia no: nel paese dei carabinieri di Pinocchio, di Bava Beccaris e delle stragi di Stato questo non può accadere. La rivolta parte dal carcere di Salerno e si diffonde in tutta Italia, arrivando anche al penitenziario di Sant’Anna a Modena. In quel marzo 2020 i permessi vengono revocati, i colloqui con l’esterno interrotti. All’interno si diffonde il contagio. Secondo la versione ufficiale delle forze dell’ordine le persone detenute sarebbero morte in seguito ad overdose per metadone.

Dei 9 morti di Modena uno era italiano, Salvatore Piscitelli, uno moldavo, Artur Iuzi, e gli altri sette nordafricani: cinque tunisini – Hafedh Chouchane, Ali Bakili, Slim Agrebi, Ghazi Hadidi, Lofti Bem Mesmia – e due marocchini – Erial Ahmadi e Abdellha Rouan. Queste morti restano tutte a carico morale dello Stato italiano che, al netto di qualsiasi fantasiosa ricostruzione ufficiale, avrebbe dovuto far uscire dalle celle i detenuti per affrontare civilmente la pandemia del Covid.

Così non accadde anche in altre strutture detentive, proprio come nel romanzo di Saramago quando chi si trova recluso deve spostarsi con cautela per procurarsi da mangiare o solo per andare in bagno, perché i soldati possono sparare chi oltrepassa la linea segnata nel cortile. L’antropologia di Saramago è molto nera e pessimistica, perché la solidarietà non esiste nemmeno tra i gruppi di ciechi, tranne qualche momento di preziosa umanità, che illumina le pagine del libro.

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Il caso Tulaev

Mosca, 1938. Qualche chilometro fuori dalla capitale dell’URSS, tra boschi innevati e un silenzio spettrale, si incontrano tre alti dirigenti del partito comunista. Il dialogo è drammatico, dopo l’omicidio misterioso del compagno Tulaev, influente e spietato membro del comitato centrale, il cerchio della repressione si stringe non solo verso il possibile esecutore materiale del delitto, ma coinvolge in un’orgia delirante di sospetti tutti i vari uomini dell’apparato che sono invisi per qualche motivo alla polizia segreta oppure semplicemente possono fungere da capro espiatorio per l’occasione.

I tre comunisti sono terrorizzati, ormai certi di avere il destino segnato: così come centinaia di migliaia di loro pari, tra i bolscevichi della prima ora come tra le fila dei quadri intermedi del partito, anche per loro è pronto un colpo di pistola alla tempia o una scarica di fucili del plotone di esecuzione, dopo essere stati annientati moralmente in un processo farsa nel quale ammettere le proprie colpe di traditori della rivoluzione. La bianchezza della neve moscovita diventa un tutt’uno con la discussione allucinata: cosa fare? Fuggire, spararsi un colpo di pistola adesso, sperare di essere “solamente” deportati in Siberia? Scende la sera e i tre dirigenti del PCUS ritornano mestamente nelle loro abitazioni, rassegnati ad affrontare gli eventi.

Questa scena terribile e magnifica è solo una delle tante del capolavoro di Victor Serge “Il caso Tulaev”, un romanzo scritto nel 1947 durante l’esilio in Messico del rivoluzionario apolide, un anno prima della sua morte. Serge, pseudonimo spagnolo di Viktor L’vovic Kibal’cic, riesce a costruire un racconto di fantasia sul periodo delle purghe staliniane, liberamente ispirato alla carneficina di Stato successiva all’omicidio del capo del partito a Leningrado Sergej Kirov nel 1934. Del grande terrore degli anni trenta, Serge riesce a ricostruire il clima e gli stati d’animo delle vittime e dei carnefici di questa epoca così decisiva per la storia del Novecento e del fallimento nel delirio staliniano del socialismo reale. La fedeltà al Partito della vecchia guardia bolscevica rimase viva anche dopo l’arresto e i processi farsa, spesso i dirigenti arrestati si interrogano sul destino di un regime che reputano, nonostante gli orrori della repressione, storicamente superiore e moralmente migliore del capitalismo occidentale.

Tra le pagine del libro compare anche lui, il “capo”, ossia Josip Stalin. Con i suoi occhi furbi e la corporatura massiccia, il paranoico dittatore sovietico parla a tu per tu con alcuni dei suoi vecchi compagni del periodo eroico del 1917, decidendo con una semplice frase il loro destino: una parola in più o in meno del capo e la sorte del dirigente amico di gioventù di Stalin può variare dall’esilio in Siberia a un colpo di rivoltella nella tempia appena usciti dalla stanza del Cremlino. Tutto pare vertere sulla volontà imprevedibile e inaccessibile del capo, ma questi a sua volta si atteggia a semplice esecutore di una volontà storica più grande di lui, una dura necessità sanguinosa che solo la sua grandezza può sopportare e applicare come necessità per far avanzare il socialismo nel suo radioso avvenire.

La realtà storica, tuttavia, preme implacabile nelle stesse pagine del romanzo: con la seconda guerra mondiale alle porte, con un paese fiaccato da anni di carestia dovuti al delirante disegno di industrializzazione forzata e di collettivizzazione delle campagne, nonché dall’eliminazione fisica della maggioranza dei quadri del partito e dell’esercito, un massacro ancora maggiore sta per arrivare e travolgere milioni di russi. La domanda che aleggia per tutta la durata del testo è sempre la stessa: come è stato possibile tutto ciò, ovvero che la rivoluzione bolscevica finisse in un Termidoro di sangue e in un regime poliziesco crudele e ottuso?

Altra domanda che può farsi oggi il lettore: come è stato possibile che quasi tutta la sinistra mondiale giustificasse questo abominio in nome del supporto al socialismo? Chi sapeva quanto è accaduto, lontano dal pericolo di morte immediato nella Russia di Stalin, che meccanismi mentali ha messo in opera per giustificare di fronte a se stesso e al mondo una strage così scientifica e implacabile? L’elenco degli intellettuali e dei grandi politici fedeli allo stalinismo novecentesco è lunghissimo, ed è veramente difficile pensare che nessuno sapesse quanto stava accadendo a Mosca durante tutti gli anni trenta.

Per rispondere a una domanda così complicata e brutale, assieme all’osservazione dei personaggi descritti ne “Il caso Tulaev”, con il loro gregarismo e la loro ottusità, con l’umanissima paura di essere uccisi e la volontà delatoria di scaricare sul compagno di partito più vicino la paranoia assassina di Stalin, possiamo anche rivolgere lo sguardo all’attualità. I crimini del regime di Bashar Al-Asad, per dirne una, come sono stati recepiti dalla sinistra occidentale? Abbiamo visto anche dei fieri compagni comunisti italiani recarsi deferenti in visita dagli uomini del macellaio di Damasco: mentre centinaia di migliaia di persone venivano uccise, massacrate, torturate, esiliate, i compagni stringevano le mani degli ottusi e spietati carnefici del regime siriano in nome del presunto ruolo anti-imperialista di Asad.

Forse basta poco nella propria mente per giustificare un omicidio, un genocidio, sull’altare immaginario di una necessità storica o geo-politica che si rivelerà sempre tragicamente falsa. Quasi tutti gli strenui difensori dello stalinismo novecentesco sono diventati dopo il crollo del 1989 i propagandisti più feroci del capitalismo neoliberista attuale: questo non può stupire, visto il carattere della stessa Russia del secolo scorso, nel suo statalismo brutale, nel suo sviluppismo ottuso. Se una transizione poteva esserci non era certo quella “doppia”, dal capitalismo verso il socialismo e dal socialismo verso il comunismo, come si diceva a Mosca nel 1938 mentre i dirigenti comunisti sparivano nel nulla, ma semplicemente una lunga e dolorosa transizione di un paese arretrato verso il capitalismo occidentale.

Come oggi la Russia di Putin sia integrata nel capitalismo globale è sotto gli occhi di tutti: imperialismo, economia mafiosa, omofobia, tutti i tratti che imperversano nelle nostre società le ritroviamo perversamente inglobate a Mosca. La stessa Mosca che ha tenuto in piedi il regime genocida di Bashar Al-Asad, fino al giorno della sua caduta, l’8 dicembre 2024. Se vogliamo trarre una conclusione per l’attualità di fronte alla rilettura delle pagine di Victor Serge, possiamo forse pensare a quanto la lucidità necessaria per l’analisi della società attuale debba essere accompagnata sempre da altre virtù etiche quali il coraggio, la solidarietà e il desiderio di ricercare sempre la verità, anche quando essa sia scomoda e metta in discussione il nostro orticello fatto da piccole sicurezze e comodità militanti.

Nel mentre oggi stesso nei movimenti di opposizione al sistema capitalista siamo circondati dai tristi e farseschi epigoni della cultura staliniana, tra maschere di partitini e piccole organizzazioni che si dicono comuniste o per il “potere al popolo”, possiamo riflettere sul valore di un’etica rivoluzionaria sganciata dal sentimento di fedeltà ad un capo o ad una organizzazione burocratica: riprendere oggi il desiderio consiliare del 1917, quel movimento di assemblee che sconvolse per un attimo il mondo intero, significa espungere e ripudiare una volta per tutte ogni residuo di stalinismo che resta nelle nostre pratiche politiche quotidiane, cominciando a immaginare organizzazioni sociali non statuali, federate tra loro e orizzontali, limitate nella dimensione.

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I bar di Scerbanenco

Di Giorgio Scerbanenco (1911-1969) si può dire che sia stato il grande maestro del giallo e del poliziesco italiano, uno degli scrittori che ha gettato i semi di un genere che oggi ritroviamo molto diffuso e declinato in particolar modo nel noir, quel sottogenere del giallo che risulta più legato ad una sua dimensione e ambientazione sociopolitica. Narrando i conflitti dell’Italia del secondo dopoguerra, con l’immigrazione verso il Nord del paese, i delitti della malavita milanese, i primi segnali del Boom economico e le sue contraddizioni sociali e di classe, Scerbanenco ha disegnato un’immagine piuttosto vivida e indelebile sia della storia del Belpaese che dei primordi del noir italiano.

Ultimamente la sua opera è stata riscoperta e tirata fuori dagli scaffali impolverati, probabilmente per l’acquisita consapevolezza di quanto lo scrittore nato a Kiev sia uno dei precursori di quel genere che nel Novecento abbiamo visto prosperare innanzitutto negli USA con grandi autori quali Dashiell Hammett (Piombo e sangue, Il falcone maltese, La chiave di vetro) e Jim Thompson (Un uomo da niente, L’assassino che è in me, Gateway). Negli ultimi anni, infatti, le sue opere sono in ripubblicazione grazie alla meritoria casa editrice La nave di Teseo. Nella scrittura di Scerbanenco a spiccare sono soprattutto l’eleganza sobria del vocabolario e la ricostruzione affascinante di una ambientazione caratteristica di uno spaccato sociale e storico che esonda dalle biografie dei personaggi e coinvolge tutta un’epoca e un paese in ricostruzione ma afflitto da tensioni vecchie e nuove.

La quadrilogia di Duca Lamberti, giovane medico radiato dall’ordine per aver pratica l’eutanasia ad un’anziana donna, diventato un investigatore privato in collaborazione con la questura di Milano, è composta dai libri Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi ammazzano al sabato. In questi testi un luogo privilegiato è quello dei bar del capoluogo lombardo o di altre località del Nord Italia. Luogo di incontro tra i personaggi del giallo e di svolta della trama del romanzo, i bar rappresentano il principale espediente letterario per disegnare l’Italia del boom economico, tra la presenza di avventori loschi e i vari servizi forniti alla clientela dai proprietari del bar.

In Venere privata, ad esempio, leggiamo: “Il locale, che sorgeva anch’esso, come la villa, sul fianco di un colle, voleva essere un country-night, con qualche concessione alla balera. La veranda giardino dove si ballava era quasi vuota, le luci basse illuminavano coppie di modesti peccatori da giorni feriali. Per il momento due giovani ballavano alla musica del juke-box, ma alle 22 un manifesto prometteva un brillante complesso orchestrale, la frase dava l’idea di una cinquantina di suonatori, ma gli strumenti sul palchetto dell’orchestra erano quattro. Su un terrazzino c’erano alcune tavole apparecchiate, era il ristorante, e in meno di un’ora riuscirono a mangiare del prosciutto che sapeva di frigorifero, del pollo in gelatina che invece era assolutamente di grande cucina, e una mediocre insalata «capricciosa». La cosa migliore era l’aria, dolcemente umida, e la vista, in tutto il buio, di tanti punti luminosi, case, villette, lampioni, che degradavano verso la pianura milanese” (G.Scerbanenco, Venere privata, La biblioteca di Repubblica, 2005, p.25).

Sempre nello stesso romanzo, più avanti si legge: “Era alta, infatti. L’attendeva in piedi sulla porta del bar e a lui fece impressione che, appena uscito dalla Giulietta, lei gli venisse incontro, con quel calore nel passo e nello sguardo, come rivedesse un amico tanto caro. Fino a dieci minuti prima non sapeva di avere nel mondo, e così vicino, un’amica come lei. «Qui possiamo parlare tranquilli, è l’unico bar della zona senza televisione e senza juke-box, così la sera non c’è quasi mai nessuno»”(ivi, p.95).

In un altro libro della quadrilogia di Duca Lamberti, I milanesi ammazzano al sabato, si legge più dettagliatamente: “Entrò nel bar, a poche decine di metri da casa sua. Erano anni che veniva lì, due volte al mattino, due volte nel pomeriggio, una volta la sera. Non beveva sempre la grappa, molte volte prendeva il cappuccino, qualche volta un amaro. Era lo squallido bar del benessere di massa. C’era tutto, il flipper, il juke-box, il televisore, la radio che suonava in sordina quando non c’erano programmi alla televisione, la saletta semiappartata coi tavolini coperti di panno verde per giocare a carte, un settore del bar con frigorifero a vetro da cui si vedevano prosciutti, salami, quarti di groviera e una distesa sterminata di bacinelle di vetroplastica con le acciughe, i carciofini, i capperi. C’era il piccolo forno per le pizze, c’era un altro settore del banco con le paste e le focacce in busta di plastica, più una specie di palazzo di vetro delle nazioni unite, composto di caramelline, con gomma o senza, di un’infinita varietà di gusti, e perfino con la vitamina C contro l’influenza” (G. Scerbanenco, I milanesi ammazzano al sabato. Un’indagine di Duca Lamberti, La nave di Teseo, 2022, pp 142-143).

Negli ultimi anni di vita, Scerbanenco soggiornò a Lignano Sabbiadoro, in provincia di Udine, scrivendo gli ultimi bellissimi romanzi, tra i quali La sabbia non ricorda, ambientato proprio nella città friulana. “Il caffè era vicino, appena sullo stradone, un cento metri verso Latisana. Una casetta a due piani, con una osteria che aveva l’insegna “Bar”, e le sue serate, da quando l’avevano costruita, dopo che era uscito di prigione, le aveva trascorse sempre lì. A quell’ora c’erano solo i padroni che mangiavano di sopra, al primo piano, e sentendolo entrare scese il figlio, un ragazzino con le guance gonfie per un boccone che finiva di masticare. «Dammi un bianco,» disse lui. Il ragazzino gli servì il bicchiere di vino bianco e lui lo bevette di colpo perché aveva ancora sete. «Me ne dai un altro,» gli disse. Mise sul banco delle monete. «Poi dammi anche un gettone.» Il ragazzino lo conosceva, non aveva neppure riposto il bottiglione di vino bianco, sapendo che ne avrebbe ordinato almeno un altro. Poi aprì la cassa, nell’ombra affocata del locale si udì il tlin del campanello della cassa, come qualche cosa di fresco, e gli dette un gettone” (G.Scerbanenco, La sabbia non ricorda, La nave di Teseo, 2024, p.125).

Scerbanenco è stato un autore molto prolifico e non si è limitato al genere poliziesco né ai gialli, scrivendo invece romanzi di vario genere, dal rosa al western fino alla fantascienza. Nell’opera del 1950 Anime senza cielo, una “storia d’amore e di spionaggio tra profughi del dopoguerra”, come si legge sulla copertina dell’edizione del 1978 pubblicata da Rizzoli, troviamo infine un’ambientazione nei bar dell’epoca che risulta altrettanto centrale nel testo: “Non era andato in pensione, era ancora in tuta ed era ubriaco. Aveva mangiato al buffet della stazione e poi aveva girato di caffè in caffè, incapace di fermarsi in un locale più di cinque minuti. Per un po’ aveva bevuto ancora grappa, sapendo anche troppo bene che che doveva risparmiare, ma in un locale vicino alla stazione aveva visto quei bicchieri Napoleon, simili in tutto a quello che gli aveva teso suo padre un giorno lontano, e insieme coi ricordi era venuta anche la nostalgia infantile di riprovare il sapore di quel cognac che da allora non aveva più bevuto” (G.Scerbanenco, Anime senza cielo, Rizzoli, 1978, p.12).

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Distopie reali

In che stato versa il genere distopico nelle opere della letteratura, nel cinema e nella televisione? La distopia descrive una società immaginaria, spesso ambientata nel futuro, nella quale le tendenze sociali, politiche e tecnologiche che oggi osserviamo nel presente sono portate agli estremi più negativi e paradossali: questa focalizzazione consente in ultima istanza un racconto critico della realtà in cui viviamo. Da più parti, in vari commenti critici, si parla di una recente “fine della distopia” e si sottolinea come il genere distopico sia stato sovrastato dall’accelerazione della realtà politica e sociale: se una distopia scritta negli anni cinquanta del secolo scorso aveva bisogno di qualche decennio per assorbire i contenuti più estremi prima di vederli poi girare tranquillamente nelle notizie di cronaca, adesso sembra che i tempi di congiungimento tra reale e irreale si siano di gran lunga accorciati, in modo che la distopia più immaginifica sia visibile solo dopo pochi anni dal suo concepimento artistico e letterario. Se leggiamo il bellissimo libro di James Ballard “Kingdom Come”, tradotto in italia “Regno a venire” per Feltrinelli nel 2009, vediamo come l’immagine di un’Inghilterra distopica popolata da pervasivi centri commerciali aperti 24 ore su 24, luoghi che hanno fagocitato le istituzioni democratiche tradizionali fino a sostituirne il loro ruolo e il loro significato nella struttura sociale, sia sempre più sovrapponibile al contenuto quotidiano di qualsiasi tabloid. «Le chiese sono vuote e la monarchia è naufragata schiantandosi contro la sua stessa vanità. La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce. Non c’è quasi nessuno che abbia un briciolo di senso civico. È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre. Il grande sogno dell’Illuminismo, cioè che la ragione e l’egoismo razionale un giorno avrebbero trionfato, ha portato direttamente al consumismo dei nostri giorni» [James Graham Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, 2009, p.110].

Un altro esempio ci viene dalla trasposizione televisiva del 2017 del romanzo “The handmaid’s tale”, opera dell’autrice canadese Margaret Atwood nel 1985. Siamo in un futuro decisamente tenebroso, gli Stati Uniti d’America si sono trasformati in una dittatura fondamentalista religiosa e hanno cambiato nome in Gilead: nella nuova società si seguono i dettami più estremisti e fanatici presi alla lettera dal Vecchio Testamento, c’è un controllo militare fortissimo, gli oppositori politici vengono impiccati ed esposti per le strade, ma soprattutto c’è un carattere fortemente misogino e repressivo nei confronti delle donne. Pochissime persone, infatti, in seguito alle devastazioni ambientali, all’inquinamento e alle malattie precedenti il cambio di regime, sono rimaste fertili e la popolazione ormai si riduce sempre di più: per questo motivo le ultime donne che possono avere dei bambini vengono schiavizzate e affidate, come “ancelle”, alle famiglie potenti di Gilead. Anche la moglie del leader della nazione, il “Comandante”, ha la sua ancella schiava che deve partorire al suo posto e donarle un figlio. La figura della moglie del comandante è estremamente significativa, una donna impegnata politicamente con gli insorti ma con un passato turbolento nel quale esprimeva il suo protagonismo, poi sacrificato sull’altare della nuova realpolitik misogina: un riferimento piuttosto scoperto alla parabola di alcune intellettuali ex femministe militanti che hanno sposato oggi le teorie più reazionarie, spesso ispirate ad un ritorno al cristianesimo più retrogrado e fondamentalista.

Quanto è diversa la realtà immaginata nel 1985 dalla Atwood rispetto all’odierna America di Trump e quanto sono possibili già domani gli scenari allucinati di un paese che sacrifica i contenuti dell’illuminismo borghese pur di rispondere mobilitando le masse alla crisi del capitalismo? Se guardiamo al successo anche in casa nostra di teorie e gruppi politici che stanno slittando dall’anticapitalismo di sinistra ad una sua versione retrograda da “socialismo conservatore” possiamo esaminare da vicino la progressione della realtà verso la distopia de “Il racconto dell’ancella”. Un altro elemento forte del genere distopico è sempre stato quello di focalizzare le ibridazioni tra la specie umana e le tecnologie informatiche, immaginando un sempre maggiore asservimento degli uomini al dominio dei software e degli hardware innestati come cyborg nelle carni umane. Alcune raffigurazioni delle distopie più fortunate nel panorama televisivo e del web odierno ci raccontano un possibile e prossimo venturo riassorbimento della finzione con la realtà.

Nella puntata speciale uscita il natale 2014 intitolata “White Christmas” della serie tv “Black Mirror” si racconta di un uso sempre più fisicamente invasivo di internet: con un apposito dispositivo chiamato “Z-Eye” il web diventa tutt’uno con il piano reale e relazionale delle persone, proiettando così anche alcuni aspetti tipici della vita dei social network. Matt, il protagonista della puntata, viene bloccato dalla moglie dopo che questa ha scoperto le attività clandestine del marito: dopo il blocco effettuato tramite lo Z-Eye, la moglie di Matt vedrà solo una sagoma bianca che è impossibilitata ad interagire. Questa trasposizione da fiction degli effetti dei blocchi sui social network se da un lato richiama ad una situazione già presente nella realtà per l’estensione dell’ecosistema dei social nelle vite di ciascuno già oggi decisamente pervasiva e reale, dall’altro lato ipotizza gli effetti dell’inserimento del software nel corpo umano: anche qui è molto facile prevedere come lo sviluppo tecnologico sia già in marcia forzata verso il raggiungimento di questo ulteriore obiettivo, basti pensare agli occhiali-smartphone di Samsung, ai progetti avveniristici di Google così ben finanziati dai ricavi esentasse del suo dominio globale per farsi un’idea della corsa al prossimo riassorbimento nella realtà di questo immaginario.

Forse, per allontanarci dall’avvenire della coincidenza, dovremmo rivolgerci a uno dei padri nobili della fantascienza distopica del Novecento, ovvero lo scrittore americano Philip K. Dick, le cui opere letterarie sono state praticamente saccheggiate dal cinema a partire da “Blade Runner”, trasposizione cinematografica del testo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Nella sua immensa produzione Dick ha creato una narrazione critica attraverso i suoi romanzi di fantascienza sia del benessere del sogno americano del secondo dopoguerra che degli anni della controcultura e dell’uso di droghe nel periodo della contestazione che ruota intorno al 1968. Nello straordinario romanzo “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, (1965) compare una singolare ed ambigua raffigurazione della stessa divinità: Dick, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, segnati da sofferenze e crisi mistiche, si è spesso interrogato sul rapporto col divino, mettendolo in correlazione ad una visione critica del potere e della società americana. La trama del romanzo affronta la rivalità emersa tra due spacciatori di droga e commercianti piuttosto singolari, Leo Bulero e Palmer Eldritch: il primo vende ai coloni terrestri emigrati su Marte dei giocattoli in miniatura nei quali collocare la bambola Perky Pat. Unita all’assunzione di una droga chiamata Can-D, i coloni possono immaginare molto realisticamente (fin troppo) di essere di nuovo sulla Terra a vivere una vita felice e di essere proprio come le belle bambole simili alla coppia Barbie-Ken dell’american dream del boom post bellico occidentale. Il concorrente di Bulero è appunto Palmer Eldritch, un mostro con occhi artificiali ed una mano sostituita con una protesi metallica e denti d’acciaio inox. Eldritch è uno spregiudicato spacciatore e di seguito ad un viaggio nello spazio mette sul mercato una nuova droga, il Chew-Z, che darà ai coloni esperienze di vita molto più vivide e realistiche di quelle create dal Can-D. Il Chew Z spacciato da Palmer Eldritch comincerà a far saltare la sottile linea divisoria tra realtà e finzione fornita dalle droghe precedenti, per cui gli assuntori si troveranno catapultati in mondi differenti nei quali a comandare è questo Dio cattivo, lo stesso mostro-cyborg Palmer Eldritch:

«‘Che roba è?’ chiese Eldritch. ‘Una Bibbia di re Giacomo. Ho pensato che poteva servire a proteggermi’. ‘Non qui’ disse Eldritch. ‘Questo è il mio dominio’. Fece un gesto in direzione della Bibbia e quella sparì. ‘Però potresti averne uno tuo, di dominio, e riempirlo di bibbie. E questo può farlo chiunque. Non appena la nostra attività sarà avviata. Avremo dei plastici, naturalmente, ma succederà più tardi, quando partiranno le attività sulla Terra. E comunque è una mera formalità, un rituale per facilitare la transizione. Il Can-D e il Chew-Z verranno messi in commercio sulla stessa base, in aperta concorrenza; non pretenderemo che il Chew-Z faccia niente che il vostro prodotto non faccia già. Non vogliamo far scappare la gente; la religione è diventata un argomento delicato. Sarà solo dopo averlo provato qualche volta che si renderanno conto dei suoi diversi aspetti; il tempo che non passa e l’altro, forse quello più vitale. Che non si tratta di una fantasia, che entrano veramente in un nuovo universo»[P.K.Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2003, pag.114].

Il mostro-divino Palmer Eldritch ci parla della paura che emerge nel rapporto tra gli uomini e le sostanze stupefacenti e tra gli uomini ed il commercio. Se la droga è il bene scambiabile da cui trarre profitto per eccellenza nel “mercato libero” perché crea dipendenza e quindi riproduce i propri consumatori, allora nel cambiamento di percezione che innerva la società queste caratteristiche di devozione alle sostanze psicotrope potranno manifestarsi anche nel volto sfigurato di Dio, un volto reso mostruoso dal commercio più che dalla droga stessa: una distopia alquanto realistica se proiettiamo le mostruosità del capitalismo in un futuro remoto, un futuro nel quale il genio di Philip K. Dick osserva il volto malvagio di Dio.

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La poetica di Joe R. Lansdale

“La luna era molto luminosa, e rendeva l'acqua lucente come il vestito buono di un povero” La notte del Drive-in 3. La gita per turisti, p. 44

C'è una foto diventata ormai famosa, data la sua diffusione virale sui social network di tutto il mondo, che ritrae un “friday night” tipicamente inglese: per le vie di Manchester due poliziotti tentano di sedare un uomo ubriaco e molesto, un altro giace accasciato al suo fianco con una birra appoggiata a terra mentre altri personaggi compongono la scena vestiti in abiti da sera. Il tutto viene incorniciato da una luce artificiale notturna che illumina il giallo catarifrangente dei giubbotti della polizia, le automobili sulla strada, i negozi sullo sfondo e i mattoni rossi di Well Street.

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Questa foto, seppure di ambientazione britannica, ricorda molto la poetica di Joe R. Lansdale, lo scrittore texano più conosciuto e bravo al mondo. Se leggiamo l'incipit di uno dei suoi romanzi, Una coppia perfetta, possiamo infatti trovare una scena descritta nitidamente con gli stessi colori: «Quando arrivai in macchina al night club, Leonard era seduto sul marciapiede con uno straccio zuppo di sangue premuto sulla testa. Due auto della polizia erano parcheggiate pochi metri più in là. Uno dei poliziotti, Jane Bowden, una donna tarchiata con i capelli biondi legati a coda di cavallo, era in piedi accanto a Leonard. Era un'amica di Brett, la mia ragazza. Nel parcheggio c'era un tizio disteso sulla schiena».

Le pennellate di Lansdale introducono il lettore con sole quattro righe di pagina nel meraviglioso mondo di Hap e Leonard, i suoi due personaggi più famosi, protagonisti di una saga che è difficile, come tutte le opere del genio texano, incasellare in un preciso genere letterario. Pulp, noir, western moderno, hard boiled, come lo vogliamo chiamare, lo stile di Lansdale travalica qualsiasi etichettatura classica. Tante sono le abilità di questo scrittore che riescono a trasformare ogni suo libro in un’avventura per chi legge. Innanzitutto il ritmo narrativo incalzante è costruito da una trama che si rivela sempre essenziale, non ci sono mai pagine in eccesso e ragionamenti posticci, l’evoluzione della storia si regge semplicemente sui dialoghi dei personaggi e sulla ricostruzione dell’ambientazione.

Questa scorrevolezza è il primo punto a favore dei testi di Lansdale, che si rivelano di una facilità di lettura costruita con un’abilità letteraria fuori dal comune, perché gli elementi che reggono la narrazione sono pieni di una fantasia senza freni da parte dell’autore e di una precisione ineguagliabile. La caratterizzazione dei personaggi è leggendaria. Hap e Leonard, per esempio. Il primo è bianco, progressista e pacifista, mentre il secondo è nero e repubblicano, ex militare in Vietnam, omosessuale: un incrocio perfettamente non convenzionale che si incastra nello scenario di un'America piena di razzismo, povertà, criminalità organizzata (la “Dixie Mafia”) e i due nostri eroi solitari pronti a combattere i mostri più improbabili.

Una scena che si ripete con costanza nei finali di Hap e Leonard è quella dei due protagonisti, investigatori privati squattrinati e improvvisati, che si ritrovano a fronteggiare una banda di pericolosi criminali tra i quali spunta nella lotta finale un gigante, un cattivo dalla mole improbabile, quasi resistente alle pallottole. Un’esagerazione che riporta il lettore su un crinale sottile tra fantasy e realismo. La voce narrante espressa in prima persona dal racconto di Hap serve poi a fornire potenza espressiva ulteriore al racconto. Un altro momento unico nella letteratura dello scrittore texano riguarda inoltre la capacità di costruzione dei dialoghi, nei quali i personaggi hanno una loro voce perfettamente riconoscibile e un loro linguaggio assolutamente ben centrato, con una coerenza e una credibilità perfetta. Lo vediamo soprattutto quando i personaggi sono adolescenti o bambini: data la difficoltà di costruzione della voce, la credibilità messa giù dall’autore risulta sempre sorprendente.

Questi gli ingredienti principali della narrativa di Lansdale, cui non possiamo che aggiungere l’iconica causticità delle battute fulminanti, con linguaggio di strada e sboccatissimo: un esempio su tutti, quando Hap incontra Brett, la sua futura compagna, lo scrittore texano per sottolineare l’avvenenza della donna fa dire ad Hap che “anche il Papa si sarebbe chiuso nei cessi del Vaticano per farsi una sega”.

Il contesto di queste battute fulminanti è quello di un mondo ostile, rutilante e pieno di personaggi improbabili, ma allo stesso tempo realistici come la cattiveria umana, che è infinita e terribilmente tangibile, una volta che ci si è messi in marcia sulle strade senza nessun riparo confortevole. Spesso perché si è nati poveri oppure perché si è neri in un Texas razzista nel quale svetta ancora la bandiera confederata e appaiono i fantasmi a cavallo del KKK; oppure perché un tornado ha spazzato via la piccola casa nel sud texano, oppure ancora perché si è finiti dentro una torbida storia di ricatti da parte di criminali senza scrupoli.

In questo lago nero di oscurità, nei romanzi di Lansdale rifulge la luce del coraggio degli ultimi e della solidarietà tra oppressi. Hap e Leonard sono spesso chiamati a fronteggiare nemici verso i quali la stessa polizia (a sua volta storicamente corrotta o inetta, tranne rare eccezioni) nutre un grande timore: i due protagonisti però riusciranno sempre a sconfiggere i mostri e nella loro lotta ci sarà lo spazio per una risata, uno sberleffo in faccia alla vita e alla cattiva sorte. Questo coraggio nasce dalla consapevolezza e dalla disperazione che, come dice un personaggio di uno dei libri più belli di Lansdale, Foresta: “poi, all'improvviso, la verità mi è saltata agli occhi, semplice come un bicchier d'acqua. La vita è quello che è, ed è tutto tranne che giusta”.

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Mostri del Novecento

Destandosi da un mattino di sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel letto, in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si reggeva a stento la coperta, ormai prossima a scivolare completamente a terra. Sotto i suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale. Franz Kafka, La Metamorfosi

La storia degli uomini è popolata da mostri. Gli esseri umani hanno spesso incontrato nel loro cammino delle strane e ibride creature, non immediatamente classificabili nella specie umana o in quella animale o vegetale: creature presenti in varie forme nella vita, nell’arte, nella letteratura e nella varie scienze sociali che essi hanno costruito nei secoli con l’osservazione e lo studio della realtà che li circonda. Il termine latino monstrum deriva dal verbo monere e cioè avvisare, ammonire: il monstrum è un ammonimento, un’apparizione o un prodigio per gli uomini. Una figura abnorme, portatrice di qualità ibride tra le varie specie, metà uomo e metà bestia come il Minotauro greco, il centauro o l’uomo ragno, oppure tra più specie incrociate come l’unicorno, il cavallo alato o il lupo mannaro. Tutte figure che hanno popolato la riflessione umana per millenni, influenzando non solo l’arte e la letteratura, ma anche lo stesso sviluppo della vita sociale, storica e dunque politica degli uomini. Per prima cosa risalta questa qualità di ibridazione tra specie, ma il mostro, questa creatura che si discosta dalla normazione regolata fatta dagli umani, ripone nella capacità di eccedere la sua quintessenza. Il mostro eccede in quantità o qualità determinate caratteristiche proprie di uomini o animali, tanto che si ritiene questa eccedenza un surplus così irrimediabilmente irrecuperabile da essere catalogato in qualche dimensione nuova, che osserviamo all’inizio nella sua manifestazione di prodigio, di portento che lascia sgomenti ed attoniti:

Il mostro, dal Medioevo fino al XVIII secolo, di cui adesso ci occupiamo, è essenzialmente il misto. È il misto di due regni, del regno animale e del regno umano: l’uomo con la testa di bue è un mostro, l’uomo dai piedi di uccello è un mostro. È il misto di due specie: il maiale che ha una testa di pecora è un mostro. È il misto di due individui: colui che ha due teste e un corpo è un mostro, colui che ha due corpi e una testa è un mostro. È il misto di due sessi: colui che è contemporaneamente uomo e donna è un mostro. È un misto di vita e di morte: il feto che viene alla luce con una morfologia che non gli consente di vivere, ma riesce tuttavia a sussistere per qualche minuto o qualche giorno, è un mostro. È, infine, un misto di forme: colui che, come un serpente, non ha né braccia, né gambe è un mostro. Trasgressione, per conseguenza, dei limiti naturali, trasgressione delle classificazioni, trasgressione della legge come quadro di riferimento: è proprio di questo che si parla nella mostruosità. Ma non penso che sia solamente ciò che costituisce il mostro. Non è l’infrazione alla legge naturale -per il pensiero del Medioevo e senza ombra di dubbio anche per il pensiero del XVII e XVIII secolo- a costituire la mostruosità. Perché vi sia mostruosità, occorre che la trasgressione del limite naturale, la trasgressione del quadro della legge sia tale da riferirsi a (o per lo meno da mettere in causa) un’interdizione della legge civile, religiosa o divina. (Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2006, pag.64)

Il mostro eccede nella misura, può essere un minuscolo lillipuziano, il gigantesco Gulliver o l’enorme scimmia King Kong appesa sul grattacielo americano, ma può anche manifestarsi nell’eccedenza di poter superare determinate leggi fisiche ritenute insormontabili attraverso l’immortalità, la telepatia, la bilocazione, l’invisibilità. Di fronte a questo costitutivo campionario di eccedenze, abnormità e ibridazioni gli uomini si sono sempre rapportati con reazioni parimenti eccessive. L’uomo è stato attonito scopritore del mostro e suo attento e scrupoloso studioso ma anche suo creatore. Nell’ibridazione di più specie o di esseri con componenti della tecnica fino ai cyborg ed ai robot opera esclusiva della tecnologia, fino alla creatura del Dr.Frankenstein, l’uomo e il mostro hanno stretto una particolare alleanza. E questi mostri sono spesso usciti dalle pagine dei libri o dalle pellicole cinematografiche o dai dipinti nelle chiese e sono diventati oggetto di culto, di timore, di speranza e di riscatto per gli uomini. Mostri buoni e mostri cattivi, mostri liberatori o tiranni, mostri dell’adattamento al sistema di produzione vigente e mostri del superamento dell’ordine costituito. Mostri immaginari ma anche (questo è un altro punto decisivo della questione) mostri realmente esistenti. E se non esistenti nella realtà fisica immediatamente riscontrabile, perlomeno esistenti per l’effetto prodotto da essi nella costituzione essa stessa ibrida della vita umana, nella commistione del pensiero e dell’osservazione della realtà, nel prodotto immediato tra fiction, discorsi e narrazione e sue risultanze storico pratiche.

«U-u-u-u-u-uhu-hu-huuu! Oh, guardatemi, sto per morire! La tempesta nel portone mi ulula il de profundis e io mugolo con lei. Sono finito, finito! Una canaglia col berretto bisunto, il cuoco della mensa per l’alimentazione normale degli impiegati al Consiglio dell’Economia Nazionale, mi ha versato addosso dell’acqua bollente e mi ha scottato il fianco sinistro. Che bestia, e pensare che è un proletario! Oh Signore, mio Dio che male! L’acqua bollente mi ha corroso l’osso e adesso mugolo, mugolo, mugolo, ma serve forse a qualcosa?». Inizia così, con la morte di un cane randagio in un oscuro vicolo di Mosca, il romanzo di Mikhail Bulgakov Cuore di cane, un testo uscito nel 1925, negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e dopo i tentativi di correzione economica fatti da Lenin con la NEP. Al cane Pallino, grazie all’intervento del professore Preobrazeskij, vengono innestate nel corpo di animale delle componenti umane che lo trasformano in un mostro ibrido che avrà, però, vita breve. L’esperimento fallito richiama in maniera scoperta, come altri testi della letteratura pubblicata fuori dai confini sovietici, le problematiche evoluzioni del grande esperimento socialista post-rivoluzionario. Nel circo di Bulgakov, scrittore che godrà di una misteriosa accondiscendenza da parte di Stalin nonostante il carattere fortemente critico dei suoi scritti, compaiono queste figure mostruose e fantastiche che assumono sul loro corpo gli sconvolgimenti avvenuti in Unione Sovietica in quel periodo storico. Il socialismo fortemente egualitario e post-bellico crea inevitabilmente i primi scontenti, considerando anche le problematiche suscitate da una manovra capitalista che costruisce l’embrione di una nuova borghesia statale. L’artificio di un intervento sull’economia imposto dall’alto da parte di un potere conquistato per via rivoluzionaria mette in scena nella letteratura questi ambigui mostri provocati dall’interventismo socialista. Per questo motivo tali mostri avranno un grande successo in occidente: a venire mutata con la forza è una natura umana considerata immodificabile ed eterna, specchio di un sistema di produzione considerato alla stessa stregua come immutabile. In un regime capitalista puro e democratico il cane Pallino sarebbe rimasto dentro la sua specie, mentre nel socialismo della NEP si tentano invece questi strani innesti destinati al fallimento. La natura umana viene sconvolta e turbata rispetto al suo corso regolare. Siamo di fronte a delle entità mostruose dal carattere prometeico che sfidano leggi eterne ed immutabili, siamo di fronte a dei malriusciti mostri come quelli del Dr. Frankenstein. Se il mostro del proletariato industriale veniva inteso come il classico spettro che popolava le notti insonni della borghesia europea (“uno spettro si aggira per l’Europa…”), qui invece siamo di fronte al grido che ha attraversato tutto il novecento, un secolo segnato dallo scandalo per la presenza di queste anormali creature senza religione né umanità. I mostri di Bulgakov sono dei mostri del superamento, perché richiamano il tentativo eccedente di mutamento dall’esterno della natura umana: visti dall’occidente capitalista, però, diventano i mostri tipici dell’adattamento, perché si trasformano nel segnale di pericolo di un possibile rovesciamento del regime di produzione vigente. Il punto critico e politico della faccenda è dunque qui, nel fatto che ogni idea di trasformazione venga negata alla radice e bollata come mostruosa, proprio mentre ben altri mostri imperverseranno sulla scena e verranno considerati assolutamente naturali, basti pensare al tragitto che porterà l’uomo comune, “normale” e borghese, ad affidarsi pochi anni dopo ad Adolf Hitler e al suo tentativo eugenetico di creare una razza pura di dominatori del pianeta.

Sul versante opposto dell’imprevedibile surplus genetico e dell’escrescenza deviante dalla norma, peraltro costruita razionalmente a tavolino nei laboratori sovietici, lo stesso orizzonte politico che guardava inorridendo la possibile generazione di nuovi mostri si è anche speso per la creazione di mostri a proprio uso e consumo, di mostri “funzionali”, mostri dell’adattamento al sistema esistente. Mostri della produzione industriale, figure mitologiche di operai devoti al proprio sfruttamento in metamorfosi nella catena di montaggio, mostri soldato diventati tutt’uno con le protesi militari ad essi applicate, da Rambo in poi, mostri sportivi gonfi di steroidi anabolizzanti che hanno sublimato il dogma della competizione trascendendo ogni remora estetica e ogni finalità di conquista sportiva per diventare una sola cosa con la propria esibita trasformazione in fenomeni da esibizione spettacolare. Il mostro dell’adattamento si muove nella sottile linea di confine tra il rispetto del limite imposto dal contesto sociale normativo e il suo possibile superamento in termini di eccessivo e patologico rispetto della norma stessa. Determinati a selezionare la presunta identità razziale “ariana” sterminando con scientifica violenza ogni eventuale “degenerazione” dal modello presupposto, i nazisti produssero durante la loro breve ma intensa esperienza storica di potere nel Terzo Reich una incredibile quanto significativa e complessa serie di tentativi “eugenetici” volti a intervenire sulla natura umana per isolarne e scongiurare la perpetuazione di suoi elementi supposti devianti. La pratica degli esperimenti operati dai medici nazisti nei campi di concentramento si è risolta fondamentalmente in un clamoroso e tragico museo degli orrori: ricerche sulla cura ormonale dell’omosessualità, castrazioni e sterilizzazioni, esperimenti di congelamento e chi più ne ha più ne metta. Il desiderio di intervenire sulle possibili deviazioni dal modello di razza pura e di evitare di confrontarsi con gli aspetti non convenzionali della natura umana ha prodotto da un lato una lotta senza quartiere contro il fantasma del mostro del superamento, dall’altro lato si è rispecchiato nella volontà di creare il calco di un mostro funzionale, di un soldato perfetto e fedele alla religione totalitaria del Reich nazista. Il sogno di un’omologazione forzata che avrebbe dovuto generare mostri, proprio come il sonno della ragione paventato da Goya. Se nella letteratura inglese del primo ottocento abbiamo visto nascere l’ipotesi dei mostri del superamento, con il secolo successivo compaiono dunque i primi esempi dei mostri dell’adattamento. Ad esempio la fortunata opera di Franz Kafka ci presenta numerose specie di queste possibili evoluzioni e ibridazioni dell’umano in forma mostruosa ed animale. Anche nel suo racconto più famoso, “La metamorfosi”, (pubblicato nel 1915) lo spaventoso insetto nel quale si trasforma lo sfortunato commesso viaggiatore rappresenta l’allegoria di un uomo comune ridotto in forme mostruose dalla necessità, e forse dall’impossibilità, di un adattamento alle istituzioni forti della società europea del novecento, ossia la famiglia patriarcale, la produzione fordista e la macchina burocratica statale. Percepito dagli altri come un disgustoso insetto, oggetto della repulsione della maggioranza o dell’amorevole pietà di pochi, lo sfortunato uomo comune non potrà che venire schiacciato e messo da parte con la ramazza della domestica.

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Addio alle armi

È il pomeriggio del 20 luglio 2001, sono davanti il televisore, con lo zaino in spalla e pronto a uscire di casa. Mia madre si è chiusa in camera e non mi rivolge la parola, troppo irritata per la mia decisione di raggiungere Genova e le contestazioni al G8. Ci sarà un treno ad aspettarmi alla stazione, che durante la notte farà il suo lento percorso per portare le decine di persone al grande corteo del giorno dopo. Mentre sto per uscire dalla porta di casa, dalla TV danno una notizia drammatica: pare che sia morta una persona durante gli scontri, pare che sia un anarchico basco.

Esco di casa con questa confusa notizia, che poi si rivelerà una di quelle che oggi chiamiamo fake news, ma nel nostro paese hanno una lunga tradizione, dall’arresto di Valpreda annunciato da Bruno Vespa al TG1. Un anarchico basco, una descrizione di un militante alieno, cattivo, distante anni luce da quello che i media vorrebbero fossero i manifestanti pacifici, quelli che non se la sono cercata. Poi emergeranno tutti i dettagli, sempre dopo gli altri tentativi goffi di depistaggio, del “tu lo hai ucciso, col tuo sasso” urlato ai compagni vicini al corpo di Carlo Giuliani. Carlo, un ragazzo come noi.

Salendo su quel treno verso Genova non conoscevo ancora il suo nome. Arrivato al grande corteo ricordo il sole alto e cocente, il lungomare ampio, gli elicotteri che vennero verso di noi sparando i lacrimogeni, quelli che contenevano il gas tossico CS, combinato col cianuro. Non sapevo nemmeno questo quando mi arrivò addosso quella scatoletta di ferro nella calca di persone ammassate: mi si chiusero gli occhi e mi si fermò il respiro, per pochi secondi che sembrarono un secolo, un’eternità. Poi la fuga dalle forze dell’ordine in una città spettrale, con la gente chiusa in casa. Poi il ritorno a casa e i discorsi sull’estintore, sulle foto di Carlo col passamontagna, le litigate sulla legittimità di una rivolta, la legittima difesa del Carabiniere che aveva ucciso Carlo Giuliani sparandogli un colpo di pistola dalla sua camionetta.

L’ho presa veramente alla lontana per parlare di questo libro, Addio alle armi di Hemingway, che narra la precipitosa fuga dei soldati italiani, la disfatta di Caporetto, durante la prima guerra mondiale. In uno dei brani più drammatici di questo libro, il protagonista si trova davanti al plotone di esecuzione improvvisato per quei soldati che stanno disertando (in realtà la fuga è così caotica che è difficile distinguere chi fugge assieme alle truppe e ai comandanti da chi sta scappando via in proprio). A guidare questo plotone di esecuzione sulle rive del fiume ci sono, appunto, i Carabinieri, con i loro cappelli grandi a tricorno, sono i predecessori di Mario Placanica, l’assassino di Carlo Giuliani. Difendono l’ordine di uno Stato giovane, che ha mandato a morire centinaia di migliaia di ragazzi da tutti i posti più remoti dello Stivale per difendere dei confini che verranno tracciati con il loro sangue alla fine di quella tremenda “inutile strage”.

Lo Stato era giovane, nato nel 1861, quando bisognava ancora “fare gli italiani” ossia appiattire su un discorso unitario regioni e lingue così distanti, messe in riga da un centro di potere, la monarchia sabauda, che in fin dei conti parlava francese. Decenni dopo un erede Savoia in esilio avrebbe urlato “italiani di merda” sparando a un gruppo di ragazzi in vacanza uccidendo un povero turista in una barca. La creazione di quello Stato ha avuto un filo conduttore, l’Arma, che ha messo in riga più volte disertori e disertrici, povere, operaie e chiunque abbia avuto la forza di ribellarsi, come Carlo Giuliani, che il 20 luglio del 2001 scese tra le strade della sua città per protestare contro i potenti del mondo, perché nel cuore aveva un sentimento, una voce che gli diceva che no, le cose non dovevano continuare ad andare così.

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