Cecità

In un’anonima città come tante, un uomo è alla guida della sua automobile, fermo al semaforo rosso: improvvisamente, sulla sua vista cala un’ombra bianca e lattiginosa. Da quel momento in poi si diffonderà inesorabilmente un’epidemia di cecità, che toccherà quasi tutti gli abitanti del luogo. I primi ciechi vengono reclusi in delle strutture apposite, sorvegliati dalle guardie armate, ma questo espediente servirà a poco, perché ben presto l’ondata di cecità travolgerà tutte le persone, compresi i militari che avrebbero dovuto sorvegliare le prime ammalate.

Cecità, il famoso libro di Josè Saramago, fu pubblicato nel 1995 con il titolo Ensaio sobre a Cegueira. L’intento dello scrittore Premio Nobel è quello di fare innanzitutto una spietata critica della società occidentale, meglio dire dell’organizzazione della società occidentale. L’ombra biancastra che scende sulla vista della popolazione è una chiara metafora della mancanza di saper riconoscere l’altro, con la scomparsa della solidarietà e di quella empatia che sono necessarie per far prosperare tutte le possibili architetture sociali.

Se tutte le persone perdono la vista, allora si blocca il meccanismo di riproduzione e cambiamento incessante che ci circonda: le strade non vengono pulite, i rifiuti ammorbano l’aria, non c’è possibilità di spostarsi con facilità da un posto all’altro della città e così via. Questa situazione di stallo che si diffonde mi ha ricordato uno dei capisaldi della filosofia yogica e buddista, quello dell’impermanenza. Noi vorremmo che la realtà che ci circonda fosse stabile, confortevole e immutata, ma queste condizioni sono possibili solo all’interno di un costante cambiamento, che è la base della vita stessa. Se non c’è impermanenza non c’è vita, bisogna riflettere su questo fatto quotidianamente nella giornata che scorre.

Altro elemento fondamentale della lettura del romanzo, è quello che riguarda l’ottusa cecità, appunto, del Potere nell’affrontare le emergenze e la quotidianità delle nostre città. I militari che sparano sulle prime persone cieche radunate nella struttura detentiva sono l’emblema di quanto ogni Stato affronti con violenza brutale qualsiasi situazione che gli si presenta davanti. Questa scena del romanzo mi ha ricordato quanto accadde in Italia nel carcere di Modena all’inizio della diffusione del Covid.

Nel marzo 2020 le persone detenute protestarono in tutto il paese per chiedere che il governo (all’epoca guidato dal premier Giuseppe Conte) affrontasse in qualche maniera la condizione delle persone detenute. In alcuni paesi accade che si liberino le persone carcerate, ma in Italia no: nel paese dei carabinieri di Pinocchio, di Bava Beccaris e delle stragi di Stato questo non può accadere. La rivolta parte dal carcere di Salerno e si diffonde in tutta Italia, arrivando anche al penitenziario di Sant’Anna a Modena. In quel marzo 2020 i permessi vengono revocati, i colloqui con l’esterno interrotti. All’interno si diffonde il contagio. Secondo la versione ufficiale delle forze dell’ordine le persone detenute sarebbero morte in seguito ad overdose per metadone.

Dei 9 morti di Modena uno era italiano, Salvatore Piscitelli, uno moldavo, Artur Iuzi, e gli altri sette nordafricani: cinque tunisini – Hafedh Chouchane, Ali Bakili, Slim Agrebi, Ghazi Hadidi, Lofti Bem Mesmia – e due marocchini – Erial Ahmadi e Abdellha Rouan. Queste morti restano tutte a carico morale dello Stato italiano che, al netto di qualsiasi fantasiosa ricostruzione ufficiale, avrebbe dovuto far uscire dalle celle i detenuti per affrontare civilmente la pandemia del Covid.

Così non accadde anche in altre strutture detentive, proprio come nel romanzo di Saramago quando chi si trova recluso deve spostarsi con cautela per procurarsi da mangiare o solo per andare in bagno, perché i soldati possono sparare chi oltrepassa la linea segnata nel cortile. L’antropologia di Saramago è molto nera e pessimistica, perché la solidarietà non esiste nemmeno tra i gruppi di ciechi, tranne qualche momento di preziosa umanità, che illumina le pagine del libro.

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