John

Quel mattino John restò a poltrire a letto. Lui che sempre si alzava presto, magari alle cinque per arrivare in fabbrica al primo turno, alle sei, per abitudine non restava mai a riposare oltre le sette. Non ricordava da quanti anni andasse avanti quella vita. Quel mattino invece trovò particolarmente piacevole muoversi tra le lenzuola, cambiare posizione a occhi chiusi, nemmeno controllare che ore fossero. Sentiva che avrebbe potuto dormire ancora, come per recuperare ore e ore di riposo perse nel corso della vita. Ne era stupito ma la considerava una conquista. Quando infine si alzò vide sullo schermo dello smartphone che si erano fatte le nove e trenta, trentatré per la precisione, due ore e mezza di recupero si disse. Avvertì un lieve cerchio alla testa, incolpò la poca abitudine al sonno prolungato, un caffè e passa. Salutò Claudio, il suo coinquilino era già sveglio e anche questo non era solito, lui dormiva fin quasi all’ora di pranzo. Mentre preparava la colazione per entrambi il dolore aumentò, la sensazione di avere un chiodo infilato nel cranio. Una sensazione reale, tanto che si toccò la parte superiore a destra della testa. Ovviamente non c’era niente, pensò di essere stato stupido a controllare. Quando la caffettiera cominciò a borbottare le ginocchia gli si piegarono, John cadde sul pavimento e ci rimase. Aveva solo ricordi molto confusi, Claudio che lo scuoteva guardandolo dall’alto, il suo viso preoccupato, uomini vestiti di arancione che gli giravano intorno, il paesaggio che variava velocemente. Non riusciva a percepire il tempo che passava. A un certo punto, non sapeva dove era, nemmeno quando era, gli sembrò di sognare. Vide sua madre che lo sgridava, si era avvicinato troppo al fiume, solo i grandi si potevano avvicinare, era pericoloso. La madre era giovane, molto giovane, lui sapeva che era morta da anni, portata via dalla malaria. Quell’ambiente gli ricordava il passato, non poteva essere ma sicuramente era, il Ghana. Ma non il Ghana moderno che aveva visto due anni prima, nel corso del suo ultimo viaggio, questo era lo sfondo delle sua infanzia. D’altronde la madre così giovane, lui era nato quando lei aveva diciassette anni, le case con i tetti di lamiera, chiamarle case dopo essere stato in Europa era difficile, tutto concorreva a ricordare il passato. Anche la sensazione che provava, combattuto tra la curiosità per il fiume proibito dove poteva andare solo scortato da uno dei genitori del villaggio, la soddisfazione di averlo fatto, averlo visto da solo senza nemmeno gli amici, e la paura di quello che poteva succedere, fossero i coccodrilli o i mercanti che rapivano i bambini, quello che aveva sentito al ritorno dalla scappatella. Probabilmente, però, la paura più grande gliela incuteva proprio la madre, sapeva che le sue punizioni potevano essere terribili, le sue mani che spesso lo accarezzavano potevano colpirlo con violenza, poteva poi essere chiuso per ore al buio, a riflettere sui suoi errori diceva. Ma come ci era arrivato in Ghana? Perché era tornato a quel tempo? John sapeva di avere sessantatré anni, di vivere in Italia da oltre trenta… Si sforzò di ricordare, di mettere in fila una poi l’altra le nozioni che considerava vere e contemporanee, il lavoro in fabbrica, una fonderia, la casa nel centro di quel paesino alla periferia di Torino, la Grande Punto usata che aveva acquistato da un connazionale, rossa. Aveva problemi di cuore, questo gli aveva detto il medico dopo gli ultimi controlli… Aprì gli occhi sentendosi toccato sul viso, li richiuse subito, aveva visto un volto di donna con una mascherina chirurgica vicinissimo al suo. C’era stata la pandemia, il corona virus ma era finita, no? Sembrava piuttosto che quella donna gli sollevasse le palpebre e guardasse le pupille, lo fece nuovamente con l’altro occhio, non capiva se fosse il destro o l’altro, come cazzo si chiama. Si sentì infastidito diede uno spintone alla donna, meglio, avrebbe voluto ma il braccio non si mosse. Cosa succedeva? C’entrava sua madre? Una vendetta tardiva per la sua partenza? Emigrare fu una scelta che facevano in pochi a quel tempo, ricordava che la salutò al villaggio, lei rifiutò di accompagnarlo all’autobus che l’avrebbe portato via. Aveva le lacrime agli occhi al contrario della sua eccitazione. Non la vide più. Quando tornò, dieci anni e molte lacrime dopo, scoprì che era morta. La malaria, spiegarono. Come suo padre quando lui era bambino. La malaria portava via chi non se ne andava in tempo. Restò il ricordo di quella donna giovane, molto giovane, forte tanto da crescere tre figli da sola con solo l’aiuto del villaggio. La paura delle punizioni severe, l’amore che sentiva quando era in casa. Una lama di luce colpì gli occhi, non capì se li aveva aperti autonomamente o no, uomini vestiti di bianco o di verde, cuffie e maschere, gli giravano intorno. Tubicini appesi. Era stato rapito dagli alieni? No, non credeva a quelle cavolate. Non erano più serie del malocchio che gli stregoni della sua infanzia lanciavano a pagamento contro i nemici. Certo c’era qualcuno che ci credeva, a entrambe le cose, magari non insieme. Pensò al paradiso, alle storie che la madre raccontava ai figli, Albert il fratello minore e la sorellina, la sorellina… Come poteva non ricordare il suo nome? Non lo ricordò, per quanti sforzi fece. Passò un tempo indefinibile a scrutare l’immagine mentale di quel volto di bambina stampato nella sua memoria, sua sorella, ma il nome non lo ricordava più. Sapeva che anche lei era morta da alcuni anni, non più la malaria, cioè quella l’aveva sì, ma la causa di morte, gli raccontarono, fu l’AIDS. Morta, più giovane, senza nome. Sentì qualcosa stringere il braccio, tra il gomito e il bicipite, come quando ti misurano la pressione. Tra il continuo brusio che gli riempiva le orecchie sentiva dei beep elettronici. Persone sconosciute e mascherate passavano nel suo campo visivo. Era stanco, chiuse gli occhi, sembrava piacevole stare distesi, a letto, al caldo, senza doversi preoccupare del lavoro. Niente da fare, solo riposare… Quando riaprì gli occhi pensò di aver dormito, non sapeva se era vero, che ora fosse. Vide che era in un letto, una via di mezzo tra l’essere sdraiato e seduto, intravedeva macchinari strani, numeri colorati che scorrevano. Quei fili arrivavano alle sue braccia, al suo torace. Ripensò agli alieni, no, ma dai. Davanti a lui un letto con un uomo sdraiato che dormiva, o era morto. Decise di voltare la testa per guardare di lato ma nulla si mosse, provò ancora, niente. Ci pensò, considerò che non sapeva come si faceva a muovere la testa, non ricordava più. Era paralizzato? Tornò a considerare il paradiso, quello di quel predicatore ebreo di cui parlava la madre, o quello dei vecchi del villaggio, dove andava chi moriva, insieme agli animali ormai estinti. Animali giganteschi, gorilla giganteschi, coccodrilli lunghissimi ma non erano cattivi, no. Lì tutti erano amici, per quello era un paradiso. Ricordò che nella sua vita adulta, quella iniziata con quell’autobus giallo sporco di cui ricordava ogni dettaglio, iniziata a sedici anni e mezzo con la nave mercantile che lo portò in Francia, in quella vita non credeva ai paradisi. A nessuno dei due. Non ne ricordava il motivo, solo che li considerava falsi entrambi. Provò a concentrarsi, doveva capire cosa stava succedendo. Concluse che l’unica parte del corpo su cui aveva qualche controllo erano le palpebre, un po’ poco. Poco come controllo e poco come comprensione della situazione. Non ricordava quasi nulla di quanto era successo. Cioè, proprio nulla. Niente. Stranamente quella consapevolezza non lo angosciava, gli era del tutto indifferente. Non avvertiva sentimenti, nemmeno sensazioni, poteva essere caldo o freddo ma non lo sapeva. L’Africa era calda, l’Europa fredda, specie in inverno. Chissà in che stagione erano. Si sentì sfinito. Non aveva visto nessuno, vestito di qualsiasi colore, non si chiese più dove fosse, era così importante? Scivolò in una specie di sonno, forse di incoscienza. Riaprì gli occhi, voci lontane lo avevano destato. La luce era forte, come un sole guardato direttamente, come il fuoco che fonde l’acciaio, l’altoforno. Aveva visto i primi altoforni negli anni ottanta, in Francia, nel sud della Francia. Il ciclo di produzione francese lo aveva interamente inciso nella memoria come su pietra, come una Stele di Rosetta poteva confrontarlo con quello tedesco o quello in uso a Taranto. In Puglia era vissuto alcuni anni, la fonderia di Taranto, enorme, una città gli era cresciuta intorno. Il passato, era il passato questo. Il pensiero spuntò all’improvviso, stava pensando al passato lontano perché ricordava solo quello. Di cosa succede oggi non è dato sapere nulla. Dove sono, perché sono qui, che giorno è… Chi sono? Provò a definirsi, aveva sempre dato per scontato di essere lui, cioè, sé stesso, ma se ora doveva specificare, sempre a sé stesso, chi era questo sé non era in grado di dargli un nome. Ricordava che tutto aveva un nome. Sua madre si chiamava Rose, come un fiore, suo padre era stato William, il fratello Albert, tutti hanno un nome. Sua sorella si chiamava… Sicuramente aveva un nome pure lei, quindi anche lui doveva avere un nome. Peccato non ricordarli. Vide che il posto di fronte a lui dove c’era un letto con su quell’uomo ora era vuoto. Nemmeno il letto c’era più.