Marco G.

Marco sedette sul pavimento. Fissava il muro, circa trenta centimetri sopra la presa elettrica, si impose di restare lì finché non l’avesse beccato. Con sua madre fuori al lavoro, Katia, la sorella, all’università, aveva la casa tutta per sé. Nessuno l’avrebbe disturbato, gli avrebbe fatto domande impiccione o discorsi pieni di buon senso. Era il giorno giusto, l’avrebbe scoperto, visto, allora avrebbe… Beh, non sapeva ancora cosa avrebbe potuto fare ma confidava nella sua capacità di improvvisazione, nell’inventiva che gli riconoscevano tutti i conoscenti. In fondo lo sapeva da tempo che c’era, era lì, nella sua casa, puntava proprio lui. Aveva scoperto che passava proprio da quel punto, attraversava il muro sopra la presa elettrica, probabilmente era per questo che non funzionava più. Arrivava per dargli la caccia. Il diavolo. Rimase fermo per una ventina di minuti, niente. Quando il desiderio di accendersi una sigaretta iniziò a farsi sentire si impose di non cedervi, per aumentare la capacità di resistenza decise di mantenersi proprio immobile, seduto a gambe incrociate. Una posizione del loto in attesa. Sapeva che sarebbe arrivato, doveva solo non farsi traviare dai desideri che quello gli mandava per distrarlo. Passò ancora un quarto d’ora e successe qualcosa, apparve una macchia sul muro, come d’acqua, colorata di scuro però. Non era ferma, girava, si allungava e stringeva, come respirasse. Era lui. Ne fu certo quando vide delle scintille uscire dai buchi della presa, cosa poteva essere a elettrizzare una presa elettrica se non il malvagio? Doveva improvvisare. Doveva. Si alzò di scatto e, velocissimo, sferrò un pugno sulla macchia, con tutta la sua forza. Questa scomparve immediatamente. Restò una macchiolina di sangue. Eccitato pensò di fotografarla subito e poi togliere un pezzo d’intonaco per conservare quella reliquia, il sangue del diavolo. Chissà che poteri inimmaginabili aveva quella roba. Quando provò a muoverle sentì il dolore bruciante alle dita, ormai tutte rosse. Capì. Non era il sangue del demonio, era il suo. La pelle delle dita si era lacerata in più punti. Avvolse la mano con un fazzoletto preso dalla tasca e tornò a esaminare il muro. La macchia era scomparsa, subito, forse ancora prima di essere colpita. Questa repentinità gli fece balenare il pensiero che forse quella visione che si muoveva sul muro era uno scherzo della sua fantasia, o dei sui occhi stanchi. In fondo la notte precedente non aveva dormito un cazzo, una canna sull’altra finché il sole era sorto nuovamente. Avrebbe avuto bisogno di un tiro. La cocaina sarebbe stata d’aiuto, peccato non averne, nemmeno poteva uscire per procurarsene, quello sarebbe andato chissà dove ora che era stato scoperto. Annusò il muro, niente, no, aspetta… Gli parve di percepire un vago sentore di zolfo, ci siamo! Ecco la prova definitiva. È qui. In casa mia! Tornò a sedersi davanti al muro. Gli doleva la schiena per tutto quel tempo dritto aspettandolo. Doveva trovare un metodo rapido per farlo saltare fuori così che avrebbe… Avrebbe visto poi che fare, ora doveva farlo uscire dal suo rifugio nel cemento. Pensò per qualche minuto alla velocità della luce, chiamava così quello stato mentale in cui poteva avere le intuizioni migliori, un segreto che solo lui conosceva. Bingo! Idea! Certo! L’idea nuova gli venne spontaneamente, come sempre, in questo era proprio bravo, doveva riconoscerselo. Avrebbe fatto uscire il demonio con il gas. Come era possibile non averci pensato prima? Con un sorriso di trionfo corse in cucina aprì tutti i fornelli, un po’ di gas usciva ma poi smetteva subito. La valvola di sicurezza, cazzo. Spostò il mobile in avanti ma si mosse di poco. Pensò di nuovo concentrandosi ma questa volta fu rapidissimo. Prese dalla cassetta degli attrezzi un cacciavite, svitò poi estrasse il forno dal suo alloggiamento. Individuò subito il tubo flessibile giallo, svitò la fascetta che lo stringeva e lo strappò via. Controllò che tutti i rubinetti fossero ben aperti e tornò a sedersi sul pavimento in salone. Adesso a noi. Ti aspetto. In pochi minuti l’odore del metano si diffuse per la casa, gli sembrò un effluvio piacevolissimo, liberatorio. Dal muro ancora nessun movimento. Per ora. Aspettò immobilizzandosi, l’odore si fece più penetrante. Altri minuti e percepì una sonnolenza che risaliva lungo la schiena. Ci siamo, prova a farmi sentire stanco… Mica ci casco. Sono qui, vieni fuori. Si chiese che aspetto poteva avere quell’essere, cioè, specificò il pensiero, il diavolo può assumere l’aspetto che vuole, certo, chissà con quale si sarebbe presentato a lui. Ancora una decina di minuti. Se lasciava correre l’attenzione subito il sonno si faceva sentire, bastardo. Doveva restare concentrato, al massimo. Un rumore improvviso lo fece trasalire. Cosa succede? Di nuovo… Sembra… Sembra qualcuno che prende a pugni il portoncino d’ingresso. – Cosa succede? – una voce dall’esterno – La mia casa si è riempita di gas, siete voi che avete una perdita? - Quell’impiccione del vicino, quello del piano superiore. Cazzo vorrà? – Siete voi? Siete vivi? – non aveva intenzione di smettere – Chiamo i carabinieri, l’ambulanza. - Lo sentì parlare con qualcuno nel frattempo accorso. – Probabilmente sono soffocati, è pericoloso, bisogna stare attenti. Non suoni il campanello! Qui salta tutto. - Una voce di donna rispose. – A quest’ora la signora è al lavoro, la ragazza sarà fuori… Dovrebbe esserci il figlio, quello strano, un po’… Insomma quello che sembra un drogato. - Marco non resse più. – Cazzo volete voi! – urlava a squarciagola – Lasciatemi stare, fatevi i cazzi vostri! -