Pablo è vivo? 1

Giovane

Pablo iniziò a essere Pablo quando aveva quindici anni. Non che prima non fosse lui, o forse sì. Prima si chiamava Paolo Garnero, Paolo Attilio Garnero, Paolo A. Garnero. Più piemontese di così non si può, anzi cuneese, più cuneese di così… Paolo era sempre stato tra i ragazzi timidi, quelli che guardano le ragazze da lontano mentre si fidanzano con uno o l’altro dei suoi compagni più presenti. Mai con loro, mai con quelli che le desiderano da lontano. Ovviamente esistono anche ragazze timide, ma queste non sono poi così interessanti... a pensarci capiva perché i ragazzi come lui non interessavano alle altre. I ragazzi più presenti passano un sacco di tempo a affermarsi, a mettersi in mostra, spesso a spese dei ragazzi timidi che vengono bullizzati. Paolo non era mai stato bullizzato, non capiva il perché, aveva istintivamente paura dei bulli, non era particolarmente alto o grosso, o sportivo, o ricco, cose che ai bulli interessano e incutono rispetto. Lui se ne stava per conto suo, silenzioso, in disparte, si faceva i fatti suoi con i pochi amici e conoscenti che aveva. Tutti sfigati al primo anno come lui.

Un giorno a scuola venne sfidato da un ragazzo più grande, inconsapevolmente aveva fatto cadere lo zaino di quello. Questo tipo, un ripetente, bocciato qualche volta, ben piazzato fisicamente, anche vanitoso, si vestiva sempre di nero, aveva i capelli tenuti diritti con il gel, una pettinatura che dalle sue parti Pablo non aveva mai visto. Portava sempre degli scarponi militari, alti, inverno e estate. Qualcuno lo chiamava pank, il pank. A volte, per farsi bello con qualche amico o qualche ragazza, malmenava uno sfigato, preferibilmente una matricola. Gli piaceva vincere facile. Dunque, mentre usciva dalla scuola, Paolo urtò lo zaino del pank che cadde sulle scale. Provò anche a afferrarlo al volo senza riuscirci, non voleva certo fare danni a qualcuno. Quando vide lo zaino a terra pieno di scritte strane a pennarello iniziò a chiedersi di chi potesse essere. Alzato lo sguardo capì immediatamente. Il pank stava parlando con due ragazze, che gli si buttasse a terra lo zaino era un’onta che andava lavata pubblicamente. Ovviamente non poteva affrontarlo davanti la scuola, si fece vicino a Paolo e gli mormorò – Nei giardini davanti la stazione. - Paolo tornava a casa in treno, ogni giorno attraversava i giardini della stazione, ampi e oscuri a quell’ora invernale tardo pomeridiana. Mentre camminava veloce per arrivarci pensava a come poteva evitare quel guaio. Scappare di corsa? Avrebbe fatto la figura del bambino impaurito. Chiedere aiuto? A chi? I pochi che sapevano quello che stava per succedere erano per lo più amici del bullo che volevano godersi lo spettacolo. Sperare che prima di venire raggiunto arrivasse una pattuglia di carabinieri? Sperare che quello si dimenticasse, lasciasse perdere? Ma dai… Chiedere scusa pubblicamente? Ma insomma, perché avrebbe dovuto scusarsi? Arrivato ai giardini si fermò, posò il suo zaino su una panchina e si voltò. Il bullo era subito dietro di lui, alcuni ragazzi si misero in cerchio come per delimitare un ring. L’impressione di Paolo era che lo facessero anche per evitargli di fuggire. Il pank si avvicinò lentamente, i pugni alti, come un pugile. – Adesso ti sistemo io, vedrai… vedrai. - Arrivato a circa un metro Paolo lo colpì con un sinistro, con tutta la sua forza, in faccia. Quello si piegò all’indietro, incredulo. Appena si raddrizzò un altro pugno, sempre di sinistro lo rimandò indietro di un metro. Paolo sentì mormorii di commento dal pubblico, stava vincendo? Quando l’altro si buttò in avanti sanguinava dal labbro, colto di sorpresa si spostò lateralmente, d’istinto, sentì qualcosa graffiargli lo zigomo sotto l’occhio sinistro. Colpì con tutta la violenza di cui potesse essere capace, di cui non sapeva di essere capace. Si sentiva un altro, si sentiva forte, un matto forse, anzi sicuramente, tutta la paura e le regole di buona convivenza che la famiglia gli aveva inculcato, tutto il timore, la paura che aveva sempre provato dinnanzi a qualcuno più grande, più grosso, più… Tutto svanì. Un sinistro corto, centro sul naso, il braccio destro si allungo tutto colpendo l’altro allo zigomo sinistro. Perse l’equilibrio, Paolo gli fu addosso, lo prese per il collo, lo scaraventò nell’erba rada sotto i pini maestosi. Ancora un destro vicino all’orecchio. Poi un calcio nello stomaco, due. Poi un calcio in faccia, quello cadde all’indietro. Stava per dargliene ancora, era bello colpirlo senza remore, si sentì afferrare da dietro. – Basta, così lo ammazzi… - Si voltò pronto a colpire ma colse lo sguardo del ragazzo che gli teneva le spalle, non era ostile aveva una luce strana, era… era rispetto. Gli sembrò la prima volta nella sua vita che veniva guardato così. Il pank si era seduto sull’erba sanguinava dal naso, dalle labbra, aveva un occhio tumefatto, lividi sul viso. Due suoi amici gli porgevano fazzoletti di carta. – Devi andare in ospedale, farti vedere… – colse le voci come da lontano. – No, basta. Non vado da nessuna parte... – la voce rotta, sconfitto. Guardò quello che era stato un bullo minaccioso, sanguinante, seduto a terra con i vestiti impolverati e fuori posto. Non faceva più paura adesso. Osservò attentamente, gli scendevano le lacrime. Stava piangendo come un ragazzino di sedici anni, non era più un personaggio, un bullo famoso nella scuola.

Il graffio sotto l’occhio sinistro formò una crosta rossa, vista allo specchio il giorno successivo la guancia era un po’ gonfia. Era la cicatrice di una battaglia vinta, qualcosa di cui andare orgogliosi. Ai suoi aveva raccontato di essersi graffiato con il ramo di un albero mentre attraversava i giardini, erano fatti suoi quelli. Arrivato alla stazione notò come gli altri ragazzi stessero parlando di lui, quando lo videro da lontano tacquero tutti. Lo guardavano con una luce nuova, mai successo. Non era una brutta situazione, proprio no. A scuola fu ancora più incredibile, gli sembrava che i ragazzi gli si aprissero davanti per lasciargli libero il passaggio, sembrava tutti sapessero cosa era successo la sera prima. Addirittura alcune ragazze lo guardavano da lontano, poteva essere ammirazione? Cosa mai successa, o forse non se ne era mai accorto, no, mai successo prima. All’intervallo si sentì chiamare mentre raccontava per la quarta o quinta volta lo scontro con il bullo. Un ragazzo di seconda, un compagno del pank. Di nuovo nulla di ostile, di nuovo quello sguardo rispettoso, un ambasciatore, era usanza non lasciare strascichi quando gli scontri si chiudevano così nettamente. – Marino chiede se la cosa si è chiusa. - – Marino? - – Il tipo che ieri hai menato, Massimiliano Marino, il punk. - – Il punk. - – Punk. Si dice così. Allora? - – Per me è tutto finito. Mi lasci stare e io lascerò stare lui. - – D’accordo allora. - Quello gli tese la mano, una stretta forte, rispetto. Un patto tra uomini, una cosa seria. – Tu sei Paolo, vero? - – Paolo Garnero. - – Ti ha soprannominato Pablo, una forma di… di rispetto. - – Pablo, mi piace. - Quello annuì. Si salutarono con un cenno, certe cose non hanno bisogno di molte parole. Da allora fu Pablo, tutti iniziarono a chiamarlo così.