Abolire le prigioni
Eravamo nel 2006 quando l’ultimo grande indulto generalizzato portò la popolazione carceraria da quasi 70.000 persone detenute a 25.000 in meno. Ricordo il dibattito dell’epoca perché facevo parte di una rete locale per l’amnistia: fu un momento importante per la vita di migliaia di persone, si discuteva di sovraffollamento e di recidiva, mentre purtroppo già montava quel clima forcaiolo e giustizialista che infesta oggi il nostro paese. Passano alcuni anni e nel 2013 c’è di nuovo un trend in crescita di detenzioni, si ritorna a 60.000 persone stipate nelle patrie galere e il governo Letta fa un nuovo (l’ultimo ad oggi) indulto per 10.000 persone detenute.
Com’è abbastanza noto, oggi siamo punto e daccapo, di nuovo più di 60.000 persone nelle carceri, una condizione di sovraffollamento che viene stimata tra le 10.000 e le 15.000 unità in meno a disposizione e soprattutto una situazione esplosiva con ripetuti e documentati episodi di violenza da parte delle guardie, suicidi e atti di autolesionismo: una condizione generale pessima a dir poco. Tutto ciò avviene di fronte a due fenomeni che sono in netta contraddizione tra loro: da un lato abbiamo un deciso calo dei reati violenti, degli omicidi e delle rapine, mentre dall’altro lato aumenta a dismisura il controllo sociale e la penalizzazione di comportamenti che vengono definiti socialmente pericolosi, ovvero aumenta la popolazione carceraria non perché aumentino i reati ma perché ogni singolo attimo della nostra vita quotidiana viene visto sotto la lente d’ingrandimento del controllo poliziesco e diventa passibile di punizione.
Questo slittamento è stato descritto al suo nascere da pochi illuminati punti di osservazione, basti pensare a Gilles Deleuze che parlava di “società del controllo” già nel 1990: oggi abbiamo sotto i nostri occhi questa dimensione securitaria diffusa un po’ ovunque, basta farsi un giro in una stazione ferroviaria per vedere come siano repressi fenomeni di alto rischio sociale come il sedersi su una panchina o mangiarsi un panino. Si potrebbe dire che lo Stato tuteli i propri cittadini dalla pericolosa “emergenza stanchezza” di chi aspetta un treno. Le vecchie sale d’attesa notturne, ovviamente, anche quelle non esistono più: troppo pericolose. A fronte di questo fenomeno palpabile, verrebbe da chiedersi come mai lo Stato non intervenga per una razionalizzazione della struttura nazionale carceraria, costruendo altre galere per mitigare fenomeni rischiosi quali il sovraffollamento, come pure invocano praticamente tutti i partiti di governo o di opposizione che siano.
A mio avviso questo avviene perché la priorità dello Stato, piuttosto che regolare il sovraffollamento che pure causa problemi a guardie e sbirri vari, è quella di tenere separato e lontano il carcere dal resto della società. Nelle strade deve esserci l’incentivo blindato al consumo controllato da guardie onnipresenti (leggasi “decoro”) ma chi è punit* deve sparire dalla nostra vista, deve diventare un* reiett* lontan* verso cui l’ultima cosa che deve nascere è la solidarietà o l’immedesimazione. Il carcere è diventato lo snodo centrale per la riproduzione del dominio del capitale nelle nostre società, basti pensare all’enorme gualg a cielo aperto che sono diventati gli Stati Uniti d’America, con una forte messa a valore della popolazione carceraria ottenuta tramite la privatizzazione delle galere che ben conosciamo grazie alla serie tv “Orange is the new black”.
Questo dato di fatto è poco affrontato dai movimenti e dalla sinistra di classe nel nostro paese nella misura in cui essi restano legati a una visione riformista e integrata nel sistema capitalista. La debolezza del movimento rivoluzionario in Italia si esprime principalmente attraverso questa grave mancanza di prospettiva sul carcere: si parla di sovraffollamento, di migliori condizioni detentive, di depenalizzazione di alcuni reati, si discute in alcuni casi del 41 bis e dell’ergastolo ma rarissimamente si prova a pensare e soprattutto a lottare per l’abolizione del carcere. L’abolizionismo oggi è una corrente teorica minoritaria a livello internazionale ma nel nostro dibattito politico risulta pressoché assente, mentre ci sarebbero molti esempi a cui rifarsi e numerose pratiche da sviluppare.
Due sono gli esempi che mi vengono in mente: il femminismo anticarcerario diffuso nelle pratiche comunitarie di giustizia trasformativa e l’esperienza delle comunità rivoluzionarie curde nel Rojava liberato. In entrambi i casi si affrontano eventuali atti violenti (come uno stupro o un omicidio) in maniera diametralmente opposta a quanto avviene nelle nostre “democrazie”: la persona che ha commesso questi atti violenti viene presa in carico dalla comunità e dentro la stessa comunità si discute (in primis con le vittime dirette o indirette dell’offesa) di una redistribuzione giusta ed equa del fatto commesso. Solo in ultima istanza si arriva ad un allontanamento dalla comunità, ma questo allontanamento non viene pensato nei termini di una detenzione o della creazione delle strutture detentive così come le conosciamo, gestite da un potere statuale.
“La giustizia trasformativa si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della persona che l’ha subita, ma anche le condizioni che hanno permesso questa violenza. In altre parole, invece di guardare l’atto (gli atti) di violenza in un contesto vuoto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare in modo che ciò non accada mai più? Che cosa deve accadere perché la sopravvissuta possa guarire?”[https://lapiega.noblogs.org/post/2018/11/27/come-possiamo-conciliare-labolizione-delle-galere-con-il-metoo/ ].