quattropinte

Un anno di gloria. Le pagelle.

Sepe 5,5. Faccio una premessa. È uno di quei calciatori che non voglio vedere più con la maglia della Salernitana, dopo aver visto i vari Montervino, Schiavi, Pucino, Vitale. Come portiere non mi piace a livello di impostazione tecnica: è vero che gioca bene coi piedi e dà grande sicurezza alla squadra nell'impostazione e come carisma, ma il modo in cui para, spesso in ginocchio a tipo bagher di pallavolo, non me gusta (spoiler, comincio a parlare in messicano). Però il girone di andata gioca bene, fino all'infortunio gli metto un sei e mezzo in pagella. Dopo l'infortunio provvidenziale, scivola in panchina. Gli tolgo un voto e prende l'insufficienza perché non sa accettare di dovere fare la panchina a una leggenda del calcio mondiale, di cui parlo qui sotto.

Ochoa 9: non ho mai visto un portiere fare così tanto la differenza, almeno nella mia squadra del cuore. Gli interventi di Memo sono fenomenali, e sono tantissimi: contro il Milan (andata e ritorno), contro il Torino, l'Inter, il Napoli...tanti punti in classifica sono fatti grazie a lui. Del resto, come dicevo, stiamo parlando di una leggenda della storia del calcio mondiale. Uno che ha fatto cinque mondiali e che si appresta, speriamo, a fare il sesto, magari giocando ancora nella Salernitana. Grazie a De Sanctis per aver colto l'occasione sul mercato. Memo, in pochi mesi, al pari di Ribery, ha fatto da ambasciatore della Salernitana nel mondo.

Pirola 7: inizia in sordina con Nicola, ma con Sousa cresce in personalità, fa anche due gol e si candida per il riscatto la prossima stagione. In alcune partite il suo pressing sulle caviglie degli avversari è determinante, ci mette cuore e professionalità. Alla fine diventa titolare inamovibile nel terzetto scelto da Sousa. Bene così.

Lovato 5: sceglie per primo la causa granata e questo gli va riconosciuto. In ritiro ha un brutto infortunio in amichevole. Quando ritorna in campo è un disastro, con la Cremonese in casa Nicola non lo sostituisce per non stroncargli la stagione. Nel finale di campionato però va in crescendo, grazie anche al resto della squadra che gioca con fiducia. È il titolare dell'Under 21, la società ha puntato molto su di lui, speriamo che l'anno prossimo, con un ritiro fatto in tranquillità, possa rendere meglio. Noi lo aspettiamo.

Daniliuc 6.5: chiude nel terzetto titolare. Ha fatto delle partite ad altissimo livello, si è conquistato la maglia della nazionale austriaca, può migliorare in prospettiva. In alcune partite però fa degli errori piuttosto gravi in copertura. Per questo mi limito ad un sei e mezzo in pagella, perché in generale è un calciatore che può fare benissimo in futuro, vista la giovane età.

Gyomber 7,5: lui è l'immortale, l'ultimo reduce della squadra che ha conquistato la serie A (liberandoci da Claudio Lotito, il che vale più di una promozione). Inizia il campionato sempre con grande impegno, che è la qualità che lo contraddistingue insieme alla professionalità, all'umiltà e all'attaccamento alla maglia. Quando fa degli errori in campo, cerca sempre di rimediare in velocità rincorrendo gli avversari. A volte spazza la palla in tribuna e dimostra i suoi limiti tecnici. Nel calcio moderno, con la difesa a tre, per giunta, già il portiere deve sapere impostare l'azione...mentre il buon Norbert sembra venire dal passato, arcigno stopper di marcatura. Eppure, nel finale di campionato, diviene insostituibile e infallibile. Chiude annichilendo al Maradona un certo Osimenh. Sousa comincia a inserirlo negli schemi offensivi e lui comincia a tenere palla prima di buttarla avanti. Se non fosse per qualche infortunio, chiuderebbe ancora meglio. Terzo anno qui a Salerno, terzo anno di gloria per lui.

Troost-Ekong 7: arriva dal Watford per richiesta di Nicola, per cui dopo un buon inizio si troverà, con Sousa, indietro nelle gerarchie. Però quando gioca non demerita, fino al gol contro l'Udinese che farà la storia sua e del nostro club. Merita una menzione positiva anche il suo atteggiamento nello spogliatoio, sempre sorridente e pronto a dare una mano, così come nella vita, con il suo impegno ambientalista: già il suo acquisto è a impatto zero sulle emissioni. Ne parla il “Guardian” e anche questo dà lustro alla nostra città.

Bradaric 7: anche lui comincia in sordina. Nicola non lo fa giocare, quando inizia è timido, sembra un acquisto sbagliato...Poi progressivamente sale in cattedra, mostra grande tecnica, sulla fascia diventa il punto di riferimento nello schema di Sousa e i suoi assist sono fondamentali, soprattutto quelli per Dia. Altra pedina importante per il prossimo anno, patrimonio della società.

Mazzocchi 8: inizia il ritiro in polemica con la società, poi finalmente raggiunge un accordo sul contratto e inizia il campionato alla grande. Primo gol in serie A contro l'Empoli con una serpentina meravigliosa, grande prestazione in casa della Juventus, gol vittoria fondamentale contro lo Spezia, con un tiro a giro nel set. È il primo calciatore della Salernitana a scendere in campo con la maglia azzurra della nazionale italiana. Solo questo gli merita il voto alto in pagella. Poi si infortuna e la sua assenza diventa pesante. Torna per il finale di campionato e fa il suo, anche se con qualche partita non proprio eccelsa, nella quale si incaponisce e non fa le decisioni giuste palla al piede. Però finisce con la fascia di capitano al braccio, spronando la squadra racchiusa per motivarsi in cerchio prima di affrontare il Napoli (la squadra della sua città) al Maradona. Si sentono le sue parole: questo è il giorno! E infatti la Salernitana quel giorno lo fa diventare storico, zittendo l'arroganza dei campioni d'Italia. Con qualche consiglio di Sousa in ritiro, dovesse rimanere, ancora capitano, può entrare nella leggenda del nostro club.

Sambia 6: lui è uno di quei calciatori che, al contrario di Sepe, adoro e apprezzo per umiltà e spirito positivo nell'affrontare questo sport. Nel periodo del Covid, quando era in Francia, entra in coma e rischia la morte. Pochi mesi dopo è di nuovo in campo e gioca con il sorriso, facendo gruppo con gli altri francofoni della squadra come Coulibaly. Inizia in maniera negativa il torneo, per Nicola non esiste. Poi inizia a giocare e stupisce tutti, sa tirare anche delle punizioni micidiali. Con Sousa arretra nelle gerarchie perché non sa dare quella costanza aggressiva nel gioco che pretende il nuovo tecnico. Se dovesse rimanere, può avere anche lui in ritiro l'occasione per dare il meglio di sé.

Bronn 5: per Nicola è titolare inamovibile, ma comincia a traballare nelle sue prestazioni assieme alle idee del tecnico del 7%. Con Sousa viene impiegato poco e quando entra non dà garanzie. Lui viene da una retrocessione in Francia e poi da un mondiale con la maglia della Tunisia. De Sanctis ha scommesso su di lui, ma se questo campionato è andato bene non è certo grazie alle sue prestazioni.

Vilhena 6,5: ex ragazzo prodigio, perso nei meandri del calcio europeo, viene preso in prestito dall'Espanol nello scetticismo generale. Grande tecnica, si dice, ma poca continuità. Con Nicola gioca sempre, anche quando magari potrebbe riposare. Ha dato nel complesso buoni spunti, conditi da gol importanti e di ottima fattura. La sua tecnica non si discute: in alcune partite, quando è in vena, fa la differenza, mentre in altre sembra perdersi tra i fantasmi che gli hanno condizionato la carriera. Finisce il campionato in buona forma, con mister Sousa che lo apprezza e, pare, chieda alla società il suo riscatto. Dovesse essere riconfermato, sarà bene anche per lui fare il ritiro e studiare cosa vuole il tecnico portoghese da lui.

Kastanos 7: all'inizio non è tra i miei preferiti, direi con un eufemismo, ma per meri pregiudizi: perché è della scuderia di Giuffredi, è stato preso da Fabiani, è cipriota (un cipriota conosco e lo odio profondamente). Al di là di queste mie paturnie, mentre mio cugino a metà stagione durante una partita che sta andando male mi dice “ma perché non gioca Kastanos?” facendomi incazzare, fa un campionato incredibile condito da gol stupendi. Mi tolgo il cappello e mi inchino a Greg, il nostro Bernardo Silva.

Nicolussi Caviglia 6,5: è un gran bel calciatore, un giovane-vecchio che sembra avere i nervi di acciaio e la classe di un veterano, eppure veniva dal Sud Tirol, in prestito dalla Juve. Il riscatto fissato è altissimo perché la Juve lo tiene in considerazione per il suo futuro, era una sorta di prestito secco: non credo lo rivedremo ancora qui, a meno che non vogliano fargli fare ancora le ossa. Con Nicola inizia benissimo, tanto che diventa quasi titolare inamovibile. Poi proprio contro la Juve va in confusione e fa una pessima partita. Con Sousa avrà poco spazio, ma perché non c'è molto tempo per esperimenti e bisogna portare a casa la salvezza.

Coulibaly 9: quando Lassana gioca bene, non ce n'è per nessuno. In qualsiasi campo, contro qualsiasi squadra, al San Siro come al Santiago Bernabeu. Ha avuto anche i suoi momenti di calo, naturalmente, ma nel complesso ha fatto delle prestazioni così degne di nota e così determinanti per la squadra che lo piazzo tra i calciatori fondamentali per la salvezza di quest'anno. Al pari di Sambia, è uno degli atleti che più mi fanno amare ancora questo sport. Ha imparato pure a segnare: per me è da top club, ma spero che resti a Salerno.

Maggiore: 5,5: anche lui ha avuto un infortunio che gli ha condizionato la stagione. Però quello che ho visto non mi ha soddisfatto, speravo molto ma molto meglio. Certo non ha mai demeritato chissà che in campo, ma nemmeno ha dato quello che tutti si aspettavano, visto quello che ha fatto a La Spezia e per quanto la società crede in lui. L'anno prossimo vorrei vederlo meglio.

Bohinen 6: comincia sottotono, anche lui vittima di un infortunio, dal quale però sembra non riprendersi più, intimorito nel lanciarsi nella battaglia. Con intelligenza, però, Sousa gli dà qualche possibilità, perché la classe del Professore norvegese non si discute. Il suo filtrante “no look” al San Siro illumina la partita e porta la Salernitana al pareggio contro i campioni d'Italia. Finisce il campionato in crescendo e questo fa ben sperare per l'anno prossimo.

Candreva 9: Mast'Antonio. Esperienza. A 36 anni corre più di tutti e gioca più di tutti. I suoi gol sono da cineteca ed entrano nella storia centenaria della Salernitana. Il pallonetto all'Olimpico contro la Lazio, il cross sbagliato contro l'Inter, il gol salvezza contro l'Atalanta, la perla contro la Roma...Candreva è stato strepitoso, è entrato nel cuore della città. Mi auguro di vederlo ancora indossare la nostra maglia.

Botheim 5,5: Nicola lo fa giocare pochissimo, nonostante il gol contro la Sampdoria e il bellissimo assist per Dia contro il Verona. Per quanto ben dotato tecnicamente, mi sembra un po' leggerino per il nostro campionato. Sousa lo impiega e gli fa fare un po' le ossa, ma resta un incognita per il prossimo campionato: un attaccante deve sapersi fare strada a spallate per emergere e il buon Erik deve entrare nella mentalità di questa squadra. Chi lo ha seguito in questi anni e ha investito ne saprà più di me, per cui rimando il giudizio definitivo.

Piatek 6: gli metto la sufficienza nonostante i tanti gol sbagliati e le bestemmie della tifoseria. Certo non verrà riscattato dall'Herta Berlino, anche perché 10 milioni sono troppi e il suo ingaggio è alto. Però, mi perdonerete, merita la sufficienza per le tante partite nelle quali ha giocato quasi da solo in avanti, facendo a sportellate con tutti, fornendo assist decisivi, creando spazi fondamentali nelle azioni di attacco. Un altro attaccante avrebbe fatto meglio, ma la salvezza è anche merito suo.

Bonazzoli 4,5: è un grande calciatore, ma contemporaneamente è anche un cretino. Come possa sprecare il suo talento lo sa solo lui. L'anno scorso è stato l'eroe della salvezza con i suoi dieci gol decisivi. Quest'anno torna il giocatore involuto, che sbraita se sta in panchina, che fa le storie Instagram in bianco e nero col volto triste...Insomma, uno strazio. Eppure, visti anche i limiti di Piatek, c'era bisogno anche di lui, che invece è su un altro pianeta, pensando a chissà che cosa. Finisce la stagione in panchina perché Sousa non tollera il suo atteggiamento durante gli allenamenti. Probabilmente andrà via e credo che tutti i tifosi saranno d'accordo.

Dia 9: giocatore delizioso, uomo straordinario, dal carattere umile. Un campione. Con 16 gol fa impazzire una città ed entra nella nostra storia. Al Maradona fa un tunnel a Osimenh, guarda la linea oscura del tiro, fa un passettino coperto da 5 difensori del Napoli, e di sinistro con un tiro parabolico e geniale trafigge Meret. Questo suo gol segnerà la mia vita: ero tra le migliaia di persone pronte ad accogliere lui e la squadra all'Arechi al ritorno dopo la partita. Ora lo vuole mezza Europa e Iervolino fissa il prezzo ad oltre trenta milioni di euro. Li vale tutti, forse anche di più. Comunque vada, dovesse partite o meno, Boulaye resterà per sempre nei nostri cuori.

Nicola 4,5: aveva tra le mani una buona squadra, ma ha fatto di tutto per sminuirne il valore. Forte del miracolo dello scorso anno, viene riconfermato a furor di popolo. Il 3-5-2 è quello lì e sembra non discostarsene mai. Per alcune partite funziona, il primo tempo contro la Juve è da conservare nella storia. Fa pure diversi punti e non siamo mai in zona retrocessione, perché vinciamo gli scontri diretti in casa. Il calendario del girone di ritorno, però, è più tosto e fa paura. Le sconfitte pesanti a Sassuolo e Monza però lasciano sbalorditi, la squadra sembra non essere in campo. Come è possibile? Resta in sella fino al disastro di Bergamo, poi viene richiamato, quindi perde anche a Verona e Iervolino è costretto a mandarlo via definitivamente. Pesano sul suo esonero alcune errori di valutazione su calciatori che poi si faranno valere con Paulo Sousa: quando cambia modulo è per mettere tutti dietro la linea della palla, per cui la Salernitana non tira più in porta. Finisce con lo spogliatoio contro, un gruppo che non ha saputo gestire e che, senza volere entrare nel gossip, non aspettava che un altro allenatore.

Paulo Sousa 9: quando arriva la squadra è impaurita, non gioca più a calcio, la zona retrocessione non è poi così lontana. Il mister però non ha intenzione di portare a casa la salvezza con pragmatismo e con i muscoli. Non è Semplici o Iachini. Sousa vuole fare di questo girone di ritorno il primo tassello di un percorso di crescita che guardi al futuro del club. Per cui la squadra deve avere fiducia e costruire gioco, deve avere coraggio e lottare contro ogni avversario, anche fuori casa e anche contro le Big del campionato. La Salernitana non tirava più in porta: lui mette due trequartisti dietro la punta e trova un legame tra centrocampo e attacco. Ma è tutta la squadra ora a muoversi in sincrono, corta e aggressiva, verso la porta avversaria. I singoli calciatori vengono motivati e ciascuno trova il suo ruolo nello sforzo collettivo. Dopo ogni partita, è un piacere ascoltare il mister in conferenza stampa spiegare il calcio a noi profani, a noi tifosi abituati ai cross in avanti per pennellone Djuric e che Dio ce la mandi buona. Perché Sousa durante gli allenamenti, al di là di tutto quello che ho detto, riesce a spiegare ai calciatori gli schemi e i movimenti adatti. Finisce la stagione da vero e proprio guru, parlando al cuore della città, facendoci sognare tutti.

De Sanctis 8: deve fare un lavoro enorme appena arrivato, ovvero piazzare i 20 calciatori della Fabianese, tutta gente di serie C, che ci è stata accollata per anni dal buon pasticciere Angelo Mariano. Si mette di buona lena e li piazza tutti, da Sanasi Sy e “Papa Wojtyla” Jaroszinsky fino a Orlando, Castillo e Kristoffersen. Solo per questo meriterebbe un plauso. Con Nicola la squadra va in confusione e tanti suoi acquisti sembrano dei bidoni. Il tempo gli darà ragione, perché i vari Bradaric, Sambia, Daniliuc, Vilhena si faranno valere. Azzecca l'operazione Dia e porta a Salerno con una mossa geniale nel mercato di riparazione la leggenda messicana Memo Ochoa. Ovviamente qualche errore lo fa pure lui, ci mancherebbe, il budget a sua disposizione era sostanzioso, ma il voto alto alla fine si giustifica con un dato di fatto molto semplice: 42 punti, salvezza acquisita a due giornate dalla fine, migliore campionato della nostra storia.

Iervolino 10: quando è arrivato ha detto che il suo obiettivo era diventare il presidente più benvoluto della storia della Salernitana. Dopo solo un anno e mezzo, c'è già riuscito.

Negri oltre Negri

Nel primo post di questo blog ho scritto di Costanzo Preve, per cui mi sembra giusto, per “par condicio”, dire due cose sul suo acerrimo nemico filosofico e politico, ovvero Toni Negri.

Negri è stato uno dei marxisti italiani più brillanti ed eterodossi del Novecento e questo è stato possibile perché ha iniziato il suo percorso intellettuale e politico nel primo operaismo, quello di Raniero Panzieri e Mario Tronti. In due righe sintetizzare cosa sia stato l'operaismo italiano degli anni '60 è impossibile, però se lo devo mettere qui come slogan posso ricordare l'articolo “Lenin in Inghilterra” di Tronti, per cui le lotte operaie sarebbero dovute essere più efficaci nel punto più alto di sviluppo del capitalismo, l'apertura nietzschiana della classe operaia composta da barbari in lotta contro la civiltà, una classe operaia senza alleati, la critica alla neutralità della scienza fatta da Panzieri, l'analisi del capitalismo come pianificazione e non come anarchia di interessi...etc.etc.

Su questa base, il primo Negri sviluppa negli anni '70, fino al suo arresto, tutta la sua teorizzazione della autonomia operaia, quella dei “libri del rogo” (Feltrinelli editore che se li vendette alla polizia) da “Dominio e sabotaggio” alle “Trentatré tesi su Lenin”, fino ad arrivare all'operaio sociale, che è il primo momento nel quale Negri intuisce l'avvento della fase post-fordista del capitalismo. In carcere e poi in esilio in Francia, Negri comincia ad approfondire tematiche più filosofiche e farà la sua ibridazione del marxismo con il pensiero di Foucault, Deleuze e Guattari, Spinoza letto da Deleuze. Questo incrocio è davvero originale e ancora oggi viene osteggiato da tutte le altre correnti marxiste. La lettura dei Grundrisse che Negri fa in “Marx oltre Marx”, con l'idea del superamento della teoria del valore, risente appunto delle influenze francesi.

La terza stagione negriana è quella del ritorno in Italia e del successo mondiale di “Impero”, scritto con Micheal Hardt, testo che viene adottato come manifesto da parte del movimento no global. Si è scritto molto su questo testo, che all'epoca mi piacque molto. Oggi posso dire che la parte più interessante è quella filosofica di ispirazione spinoziana, mentre le teorie sul declino dello Stato erano molto forzate e soprattutto Negri conservava, sia pure nel suo originale slang eretico, una persistente adesione all'ortodossia economicista di Marx, secondo la quale un soggetto (non più la classe operaia, ma le “moltitudini”) interno allo sviluppo del capitalismo avrebbe condotto immediatamente (termine molto negriano) all'avvento del comunismo, una volta crollato l'involucro di dominio che nega questa realizzazione.

Praticamente Negri struttura la sua tesi delle moltitudini in conseguenza allo sviluppo dell'operaio sociale: nel capitalismo post-fordista e immateriale le moltitudini sono il soggetto rivoluzionario perché costruiscono la cooperazione, che è la base del superamento del capitalismo. Su questo punto specifico, devo dare ragione a Costanzo Preve quando rilevava che non esiste questo passaggio meccanico perché nella forma egemone dell'azienda capitalista (come avrebbe detto Bordiga) non c'è nessuno spazio per la cooperazione. Tanto più che la classe operaia fordista si era già dimostrata storicamente non essere una classe capace di superare il capitalismo, smentendo così Karl Marx.

Nella sua trilogia composta da “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”, Negri afferma di non essere anarchico ma comunista perché ha fiducia nella forza della cooperazione di questa nuova classe operaia, una cooperazione che è immanente ai rapporti e alla forma di produzione odierna. Preve apostrofava l'autonomia operaia come la manifestazione italiana dell'anarchismo (credendo così di farle torto): qui invece Negri riprende secondo me una tradizione che è la parte meno attuale del marxismo, ovvero quel meccanicismo economicista che è mezzo messianico e mezzo scientifico. Il pensatore che ha fatto incontrare Marx con Nietzsche, alla fine mi sembra che recuperi proprio l'esatto opposto, cioè lo spettro di Hegel.

In conclusione, devo dire che a mio modestissimo parere Negri ha avuto il grande merito di svecchiare una dottrina, quale quella marxista, che è sempre stata un gigante dai piedi di argilla, perché si basa su presupposti scientifici che non lo sono. In sostanza, è stato un fatto positivo che diverse generazioni di militanti comunisti abbiano conosciuto grazie a lui filosofi come Foucault, Deleuze e Guattari. Questo, come dicevo sopra, è stato possibile perché (sempre secondo le mie personalissime opinioni) l'operaismo italiano di Panzieri e soci è stato l'ultimo disperato tentativo di salvare il marxismo. Negri si è preso il compito di attualizzare l'operaismo dopo la fine del fordismo, e così dopo il crollo del Muro di Berlino ha potuto presentare una forma di marxismo non coinvolto nel fallimento del socialismo reale che non fosse povero di idee come i trotzkismi di vario genere e il marxismo anglosassone che era rimasto fermo agli anni '60.

Se devo leggere oggi quello che resta del dibattito in ambito marxista (mi capita sovente di leggere alcuni teorici antispecisti che si rifanno al marxismo hegeliano) provo un profondo imbarazzo, perché almeno Negri ci ha messo un po' di fantasia mentre questi stanno ancora al materialismo dialettico. Detto come battuta, ma non troppo.

Giuseppe Mahatma Gondeh: il peggior politico della storia repubblicana

Premessa. Siccome sono sul mio blog, scrivo quello che cazzo mi pare. E quindi sono giustificato da me medesimo a spararla anche grossa, fosse solo per provocare l’utente medio del Left Twitter, quello che crede, come il cantante Al Bano Carrisi, che Putin sia stato costretto dagli americani a invadere l’Ucraina. E quindi comincerò a disegnare questo breve ritratto di Giuseppe Conte affermando inequivocabilmente che egli è stato ed è tuttora la peggiore sciagura per il nostro paese, peggio pure di Matteo Renzi. E qui immagino che l’utente medio del Left Twitter italiano la prenda pure peggio della cosa che ho appena scritto su Al Bano e Putin.

Quindi, partiamo. Quali sono le malefatte del nostro avvocato di Volturara Appula? Numero uno. Giuseppe Conte viene scelto come “Avvocato del popolo” da Beppe Grillo e Luigi Di Maio per la sciagurata avventura del governo insieme alla Lega di Matteo Salvini. Quello di cui, secondo la famosa opinione del comico genovese fondatore del MoVimento 5 Stelle, ci si poteva fidare. La carriera politica del Nostro nasce quindi sotto pessimi auspici. Al governo, grazie a milioni di voti provenienti dal meridione, arriva quello che “senti che puzza scappano anche i cani”. Per cui già questo potrebbe bastare per condannare l’untuoso avvocato pugliese: ha permesso al peggiore esponente razzista (prima contro i meridionali, poi contro tutti gli stranieri, soprattutto quelli di pelle scura) di poter dettare legge. Salvini arriva al governo con la metà dei voti dei 5 Stelle, ma finisce per invocare “Pieni poteri” e alle Europee arriva al 40%. La decisione di Beppe Grillo di fidarsi di Salvini è stata una delle peggiori sciagure accadute nel nostro paese, e per questo non possiamo che ringraziare colui che ne è stato il primo beneficiario, passando da ministro in pectore del governo grillino monocolore mai realizzato, a primo ministro della Repubblica.

Conte Uno con Salvini, quindi. Per cosa possiamo ricordarlo? Innanzitutto, per smontare immediatamente quella che è forse l’unica cosa che potrebbe essere richiamata a suo vantaggio, il reddito di cittadinanza, misura tanto attesa da milioni di persone in tutta Italia, ricordiamo che essa fu prorogata con un taglio decisamente razzista. Per fare contento Salvini, il reddito non venne assegnato a chi avesse meno di dieci anni di residenza in Italia. A conti fatti, milioni di lavoratori e lavoratrici o disoccupate e disoccupati migranti presenti da anni nel nostro paese, sono stati esclusi dal sussidio. Una cosa che recentemente le istituzioni europee hanno giudicato fortemente discriminatoria. Ma non c’è problema, perché nel frattempo il reddito è stato abolito dal governo Meloni, quello che Conte ha fatto nascere rompendo l’alleanza con il PD pur di non affondare alle elezioni.

Accontentato Salvini sulla misura bandiera dei 5 Stelle, come non accontentarlo sulla misura bandiera della Lega? I decreti sicurezza, noti appunto come decreti Salvini, sono tra le peggiori leggi mai promulgate in Italia dai tempi del Duce. Questa infamia ricade oggi anche su Sergio Mattarella, che le ha approvate. Se le persone continuano a morire sui barconi a pochi metri dalle coste, come a Crotone qualche giorno fa, la colpa ricade sempre su colui che guidava il governo Conte Uno. Giuseppe Conte, appunto.

Altra misura bandiera, questa volta di nuovo dei grillini, la riforma della giustizia del ministro Bonafede, stretto collaboratore di Conte, anzi, proprio colui che ha portato l’avvocato con i capelli unti in politica. A parte la vergognosa abolizione della prescrizione, altre misure adottate per le carceri si faranno sentire durante la pandemia, quando nel penitenziario di Modena avviene uno dei peggiori eccidi di Stato della storia italiana, con le guardie che sparano sui detenuti, uccidendo nove persone. Chi era il capo di stato in quel momento? Esatto. Questo era il Conte Due. Visto che parliamo di pandemia, come non ricordare la sciagurata decisione di non fare la zona rossa ad Alzano e Nembro. Per non scontentare Confindustria, sono morte migliaia di persone. Certo, si potrebbe dire: ma Giuseppe Conte non ha mai capito un cazzo di niente, perché mai avrebbe dovuto capirne di misure pandemiche? In effetti l’obiezione ha un suo senso, ve lo concedo.

Arriviamo a un’altra perla di Giuseppi, il politico italiano tanto amato da Donald Trump. Già nel primo programma elettorale dei 5 stelle c’era una forte richiesta di togliere le sanzioni alla Russia, che nel frattempo aveva infiltrato vari governi in tutto il mondo, finanziato la destra cattolica integralista internazionale (citofonare Pillon e Fontana), invaso vari paesi, usato armi chimiche assieme ad Assad e distrutto Aleppo, avvelenato gli oppositori politici, ucciso i giornalisti indipendenti, eccetera, eccetera, eccetera. Il governo Conte è grande un amico della Russia, ci sono le foto dei brindisi in ambasciata. Gli accordi economici con lo stato terrorista russo sono enormi. Tanto che oggi, di fronte ad un paese che resiste eroicamente e drammaticamente al genocidio perpetrato da parte di Putin, la proposta del leader ora diventato pacifista, Giuseppe Mahatma Gondeh, è chiara: non date le armi all’Ucraina, non sia mai debba rispedire i russi a casa loro.

Siamo arrivati alla fine, più che altro perché mi sono stancato di scrivere. L’infamia che circonda quest’uomo è solo in minima parte diffusa nell’opinione pubblica, che lo aveva addirittura incoronato come il leader del nuovo fronte progressista. Si sa che in politica vale tutto e il contrario di tutto, così come le giravolte e i cambi di campo sono all’ordine del giorno. Io però credo di vedere una certa linea di continuità nell’operato di quest’uomo. Dalla repressione alle leggi razziste, dal sostegno ai dittatori al giustizialismo nei tribunali, dalle stragi nelle carceri a quelle in mezzo al mare. Io vedo una bella linea di continuità: mi pare ingiusto accusare l’avvocato di essere un voltagabbana. Diamogli un merito, è stato ed è coerente: è il peggior politico della storia repubblicana.

Brevi considerazioni sulla libertà delle mucche

Questa riflessione affronterà per rapidi cenni una parte della lunga storia del rapporto tra le mucche e la specie umana. Parlerò dunque prevalentemente della violenza perpetrata ai danni delle mucche. Latte, carne, cuoio, gelatina e tanto altro. I pezzi delle mucche spuntano da ogni parte nella nostra vita quotidiana, sia che apriamo il frigorifero sia che guardiamo cosa è riposto nell’armadio dei vestiti o delle scarpe. Oggi pensare a una mucca significa pensare innanzitutto ai suoi pezzi e ai suoi scarti utilizzati dall’industria. Basta fare una ricerca su Google digitando la parola “mucca” e subito comparirà sullo schermo l’indirizzo di qualche ristorante che ci offre pezzi di bovino fatti a bistecca, prelibatezze da gustare la sera a cena, quando finalmente possiamo concederci il piacere di rilassarci e uscire in un locale del centro. La mucca non esiste. Seppellita sotto quintali di spezie, aromi, forme di parmigiano, prodotti del territorio, cultura del mangiare, moda. Invisibile eppure onnipresente. Facciamo un’opera di archeologia e cerchiamo di risalire all’origine di questa storia, prima di quando sia stato possibile trovare questo animale in una scatoletta della Simmenthal. Innanzitutto, dunque, chi è la mucca? Il nome nasce da un verso, il muggito, fatto da un animale mammifero erbivoro, femmina del toro, chiamata anche vacca, appartenente alla famiglia dei bovini. Detto questo, in genere, se continuiamo la nostra ricerca dal computer o dal telefonino, subito verremo subissate da decine di informazioni riguardanti il latte. Ovviamente parleremo anche di questo, del latte sottratto ai vitelli e venduto dall’industria casearia, ma torniamo all’origine, ai bovini. Il termine “Bovidae” fu coniato da uno studioso britannico, John Edward Gray, nel 1821. L’ottocento è il secolo delle scienze e tra queste prospererà anche la zoologia, materia che non sarà, come vedremo, di certo alleata dell’oggetto dei suoi studi. Restando sulla classificazione di Gray, dalla famiglia Bovidae scendiamo nella sottofamiglia Bovinae, alla quale appartiene anche la mucca. I bovini presentano delle corna permanenti, anche se oggi capita raramente di vedere una mucca con le corna, perché negli allevamenti con uno spazio limitato le corna sono un affare pericoloso per chi è padrone del prezioso animale da reddito, per cui si pratica la decornazione con una sega. Ma anche su questo ritorneremo poi, quando le mucche saranno quasi tutte rinchiuse dall’industria umana in questi spazi angusti. Per ora parliamo di quando le antenate delle nostre amiche spaziavano libere nelle vaste praterie del mondo. Parliamo di diecimila anni fa, quando giravano in mandrie da 40 o 50 individui, ruminando per circa otto ore erba, steli, foglie e radici di alcune piante. Gli occhi grandi tendono verso l’esterno. L’udito è molto acuto, più di quello dei cavalli e circa trenta volte più di quello umano. Non sono velocissime, seppure oggi siamo abituate alla mucca allevata per la produzione di latte, quindi spesso affetta da malattie alle mammelle, ingrassata a dismisura prima della macellazione: non credo sia questo il caso dei bovini che pascolano nella tundra desertica di migliaia di anni fa. “Genetisti dell’Università di Mainz in Germania, del Museo Nazionale di Storia Naturale in Francia e dell’UCL nel Regno Unito hanno studiato le ossa e i resti di bovini domestici da un sito archeologico in Iran. Hanno scoperto che i bovini moderni sono i discendenti di un’unica mandria di buoi selvatici di oltre 10.500 anni fa” [https://guinguette-maraispoitevin.com/it/una-breve-storia-delle-mucche-parte-1/]. Nel periodo in cui la specie umana è prevalentemente nomade non c’è una spinta alla domesticazione, che appare invece, per quanto riguarda il Bos primigenius (bovini selvatici, “uro” o “yak”) quando si formano i primi insediamenti stanziali che organizzano lo sfruttamento animale su scala più larga e sistematica: “Archeologi e biologi sono d'accordo sul fatto che ci sono prove evidenti di due distinti eventi di addomesticamento dell'uro: B. toro nel vicino oriente circa 10.500 anni fa, e B. indica nella valle dell'Indo del subcontinente indiano circa 7.000 anni fa. Potrebbe esserci stato un terzo uro addomesticato in Africa (chiamato provvisoriamente B. africano ), circa 8.500 anni fa. Gli yak furono addomesticati nell'Asia centrale circa 7.000-10.000 anni fa” [https://it.hagebau-wuerth.at/storia-dell-addomesticamento-di-mucche-e-yak]. Questo incontro tra bovini e umani porta dunque a un primo cambiamento significativo nella storia di entrambi. Per l’uomo questo addomesticamento viene fatto in contemporanea con quello di altre specie, per cui si instaura la prima forma di economia legata allo sfruttamento animale, che consiste sia nell’utilizzo diretto degli altri animali per il cibo, il vestiario e il lavoro nei campi, sia per l’accumulazione dei capi come beni economici, da cui appunto si trarrà poi il termine “caput”, capo di bestiame, il capo animale conservato come bene economico. Bovini che cominciano a essere sfruttate in maniera invasiva, sulla pelle, sulla carne e sulla fatica dei loro corpi: corpi che cambieranno significativamente, come cambierà la percezione stessa di un animale che ha in principio molto in comune con la specie umana (intelligenza, sensibilità, relazionalità etc.) ma che verrà visto progressivamente come un oggetto e una risorsa da sfruttare, sempre meno come una possibile compagna di vita sul pianeta. Paradossale in questo senso è il fatto che il latte delle mucche, il primo elemento dello sfruttamento che nei millenni segnerà l’economia degli allevamenti animali, non è al principio compatibile con l’alimentazione umana. Di fatto, il latte, alimento strappato con la violenza alle mucche, contenente elementi che servono alla crescita del vitello nelle sue prime settimane di vita, verrà prima trasformato in formaggi e solo dopo molto tempo gli umani riusciranno ad assumerlo. Tutt’oggi, il latte vaccino viene presentato dall’industria come alimento essenziale per lo sviluppo umano, naturale, ricco di calcio etc. Lontano dalla percezione mainstream avviene la sottrazione dei piccoli vitelli e la reclusione delle mucche. Questa forzatura, costruita nel tempo e presentata oggi come una proiezione della vita agreste preindustriale, è invece l’esatto opposto di qualcosa che richiama una preesistente natura: una costruzione artificiale stratificata nel corso dei secoli attraverso un adattamento delle due specie in questione, quella sfruttata negli allevamenti (prima estensivi e poi intensivi) e quella che agisce un’oppressione sempre più tecnologizzata. Torniamo all’altro elemento citato dello sfruttamento dei bovini, quello della creazione di un bene da conservare nell’economia familiare, da vendere o da scambiare nel mercato. Si fa spesso riferimento al termine “caput” come fondamento terminologico del capitalismo, sebbene l’economia capitalistica sia un fenomeno successivo alla prima economia rurale fondata sullo sfruttamento animale. Senza addentrarci in una disputa storica sulla legittimità di questa etimologia, di sicuro il rapporto tra capitalismo e capo di bestiame inteso come proprietà vale come proiezione futura di questa oppressione, che si realizzerà nei secoli successivi con dei livelli inimmaginabili di violenza e di profitto sui corpi oggettivati degli altri animali, quelli non considerati di pari grado all’animale umano. In questo senso, l’incontro di diecimila anni fa tra Bos Primigenius e Homo sapiens è molto simile a quello avvenuto tra i conquistatori spagnoli che scesero dalle tre caravelle di Cristoforo Colombo e le popolazioni che risiedevano nei territori che avremmo chiamato poi America. I primi si ritennero superiori ai secondi, perché avevano sviluppato una serie di tecnologie del dominio e giustificazioni teoriche di esso che non avevano paragone con la cultura indigena. L’incontro divenne un vero e proprio shock culturale che creò le note conseguenze storiche di sterminio, schiavitù, colonizzazione, razzismo, sviluppo di un’economia mercantile e predatoria. Lo stesso è avvenuto quando si affinarono progressivamente nell’addomesticamento dei bovini quelle tecniche del dominio che hanno accompagnato lo sviluppo della società odierna, della cosiddetta civiltà, fino al raggiungimento dell’attuale mondo industriale che vede oggi miliardi di altri animali fatti nascere e allevati specificamente per il consumo umano.

Come abbiamo visto prima, la zootecnia è una scienza moderna che studia l’uso degli altri animali per i fini pratici della specie umana. Tanto più si affineranno e diverranno più complesse queste tecnologie, tanto più diverrà diffusa l’immagine di un animale che in natura nasce per essere munto per darci il latte per la colazione mattutina e il formaggio da accompagnare al vino buono, scuoiato per darci una pelle adatta per delle scarpe alla moda, macellato per la bistecca fiorentina, quella alta, mi raccomando, e “al sangue”. Se il Bos Primgenius è il nome di un fantasma, un animale libero che bruca le steppe della tundra lontano dall’uomo, la mucca è il nome di un oggetto industriale, docile e simpatico, pacifico, ma pur sempre esistente soltanto in relazione a quello che può produrre per “noi”. Come scrive Marco Reggio: “Tutta la storia della zootecnia dimostra la lotta incessante fra soggiogati e allevatori. Si tratta di una lista potenzialmente interminabile di pratiche il cui vero denominatore comune è proprio la resistenza a cui rispondono: fruste, morsi, gioghi, operazioni chirurgiche, sterilizzazioni, selezione genetica, tecniche comportamentali, retoriche elaborate per spezzare la solidarietà interspecifica” [M. Reggio, Leggere la resistenza, p. 25 in Animali in Rivolta, Mimesis Edizioni]. Nel 1855 si tiene a Parigi la seconda edizione della “Esposizione universale dei prodotti dell’agricoltura, dell’industria e delle belle arti”. Tra le varie innovazioni tecnologiche applicate all’industria viene presentato al pubblico un esempio di automazione delle operazioni di mungitura. Siamo dunque nel pieno della diffusione della Zootecnia come scienza applicata dello sfruttamento degli animali a scopo di profitto. Se nel 1821 John Edward Gray aveva classificato le varie specie di bovini, nel 1849 veniva dunque istituita la prima cattedra universitaria di “tecniche dell’utilizzo animale”. Nel Novecento arriva l’industria standardizzata nella catena di montaggio, che sfocia nel modo di produzione detto fordista: sarà Henry Ford, proprietario della prima azienda automobilistica americana, a organizzare la produzione proprio sul modello della macellazione industriale di alcune specie animali come maiali, polli e ovviamente anche delle mucche. Come si vede, le tecniche del controllo e dello sfruttamento evolvono in quel sistema di “sterminio per moltiplicazione” che oggi tristemente bene conosciamo. Si è poi detto che “se le pareti dei macelli fossero di vetro allora saremmo tutti vegetariani”. Sta di fatto che oggi questo sistema è al centro del dibattito mondiale per le sue ripercussioni: prima ancora che per le devastazioni etiche se ne parla per la questione ambientale che deriva dagli allevamenti intensivi. Eppure l’industria della carne è in pieno sviluppo. Diamo alcuni numeri per quello che riguarda le mucche sfruttate per il latte nell’industria lattiero-casearia. Parliamo di circa 270 milioni di mucche allevate in tutto il mondo. In Italia ce ne sono circa cinque milioni. Stipate in condizioni di costrizione estrema, affette da malattie, con i vitelli che vengono sottratti per continuare il ciclo produttivo, inseminate artificialmente. Oggi si discute dell’impatto ambientale di questi allevamenti, perché gli effetti nefasti riguardano anche la specie umana, che si scopre improvvisamente parte di un tutto, altri animali e mondo, e non più, soltanto, una macchina da guerra spietata che domina con la tecnica tutto ciò che la circonda. Circa il 3% delle emissioni di gas serra provengono dall’industria lattiero-casearia. L’agricoltura animale sta divorando il suolo e aumentando a dismisura il consumo delle acque: per la produzione di un litro di latte di una mucca c’è bisogno di 144 litri di acqua. L’inquinamento degli allevamenti produce quantità enormi di ammoniaca e metano, le terre devono essere disboscate e l’effetto sul clima è disastroso. Eppure, se chiedete a Bill Gates, la soluzione è pronta: nutrire le mucche con delle alghe speciali affinché non producano metano durante la loro digestione. Parimenti, si studiano altri metodi per catturare i biogas direttamente dalle stalle. Questo per dire che l’industria, almeno nella sua propaganda, crede sempre di risolvere ogni problema sempre dentro quello stesso paradigma che non contempla l’eliminazione dello sfruttamento animale. All’interno di questo paradigma non c’è pietà per le amichevoli discendenti del Bos Primigenius, si cercherà sempre un modo, per quanto difficilmente realizzabile, di mandare avanti il baraccone dello sterminio prolungando la permanenza della specie umana su un pianeta sempre più infestato dalla improbabile razionalità capitalista. È opportuno tenere presente che, insieme alle soluzioni ambientaliste interne al sistema, pure nelle ipotesi più audaci come quelle della “carne coltivata”, i numeri della produzione e consumo di prodotti animali siano in crescita esponenziale, per cui appare davvero improponibile pensare a forme di mitigazione. L’unico modo per fare marcia indietro rispetto alla distruzione del pianeta sarebbe la messa in discussione del paradigma che nasce dal dominio esercitato dalla specie umana nei confronti delle altre specie. L’oppressione esercitata sugli altri animali è lo stampino che ha modellato tutte le altre, quelle all’interno della stessa specie umana. Dal razzismo alla norma eterosessuale fino alla già richiamata colonizzazione, lo stampo è il medesimo, il capitalismo si dispiega davvero come possesso di capi di bestiame, con la minorizzazione di soggettività non ritenute all’altezza di vivere come l’Uomo: un essere bianco, maschio, etero cis, occidentale e proprietario.

“Durante la primavera del 2009, a New York, un piccolo vitello nero fugge dal mattatoio. Sfonda una recinzione che chiude il passaggio tra un camion e i recinti dove la stanno portando. Inseguita, corre a perdifiato attraversando altri macelli dove capre, agnelli, polli e tacchini attendono la fine. La fuga è piuttosto breve ma la storia appassiona i passanti e i media, con le solite oscillazioni fra solidarietà e folklore. Alcuni resoconti giornalistici utilizzano il registro del comico ma al tempo stesso la sua determinazione induce persone anche insospettabili a prendere posizione. Molly (il nome le verrà dato successivamente) viene intrappolata fra le case e sedata. Viene inviata al Brooklyn Animal Care and Control e poi trasferita definitivamente presso un’azienda agricola che se ne prenderà cura insieme ad altri animali scampati al macello” [M.Reggio, Cospirazione animale. Tra azione diretta e intersezionalità, Meltemi, 2022 pp. 142-143]. Il breve aneddoto raccontato da Marco Reggio nel suo bellissimo libro, episodio richiamato anche dallo stupendo testo “Animali in rivolta” di Sarat Colling, ci porta un attimo fuori dal destino segnato per le mucche, fuori dal mattatoio e fuori dalle cifre sul metano catturato nelle stalle. Quella che irrompe sulla scena è un’ospite inattesa, che si chiama nel caso specifico Molly ma rappresenta il discorso della resistenza animale. L’esistenza dell’agency degli altri animali (e delle mucche nel caso specifico) di ribellarsi coscientemente in direzione della propria libertà e sopravvivenza è un dato di fatto. Un fatto dimostrato da questo e da altri eventi, che vengono sempre (come scrive Reggio) minimizzati, ridotti a folklore, sterilizzati o esorcizzati. Le strade metropolitane della City per eccellenza tra le quali si aggira Molly sono la rappresentazione più plastica ed evidente di un territorio urbanizzato a misura d’uomo, un territorio antropizzato, reso ostile per tutte le altre specie, che possono apparire solo in maniera disturbante e temporanea. La resistenza animale ci richiama ad una completa rivisitazione di una serie di categorie politiche, che se restano ferme al loro ancoraggio antropocentrico rischiano di non saper leggere quello che può essere il futuro del pianeta terra e delle lotte intersezionali, delle amicizie e alleanze multispecie, della creazione di un nuovo concetto di famiglie. A partire dai primi bovini liberi di ruminare negli spazi immensi e non ancora devastati dall’arroganza umana, abbiamo fatto un rapidissimo excursus passando per l’addomesticamento della famiglia dei Bovinae, passando per l’industrializzazione dei macelli e dello sfruttamento intensivo, fino ad arrivare all’epifania della resistenza animale. Questo richiamo alla mucca che fugge dal mattatoio potrebbe rappresentare, come direbbe Walter Benjamin, quel salto di tigre nel passato che costituisce l’attualità della rivoluzione. Il cammino è lunghissimo e impervio, si tratta niente di meno che di sradicare il violento suprematismo dell’Homo Sapiens. Il tempo che resta, d’altra parte, è poco, ma proprio per questo c’è l’urgenza di riconoscersi nell’incontro con gli altri animali, restituendo una doppia libertà, alle mucche e a noi stessi.

È stato il bancomat di Dio

Ha vinto l'Argentina e vai con la retorica della Pampa, dei giocatori scalzi nel barrio, la crisi economica e il riscatto popolare, le partite immaginarie giocate nel paesino sopra le Ande, Osvaldo Soriano e naturalmente Diego Armando Maradona D10S del calcio. Il tutto condito dalle urla in diretta Rai di Lele Adani. Ma partiamo dall'inizio.

Ho seguito il mondiale in primis per l'evento storico della partecipazione di ben tre calciatori della Salernitana. Boulaye Dia il centravanti del Senegal, Piatek attaccante della Polonia e Dylan Bronn terzino della Tunisia. Boulaye ha anche segnato un gol, rendendoci tutti orgogliosi, quasi quanto il gol che ha segnato all'Olimpico davanti agli occhi di quella merdaccia di Claudio Lotito.

In assenza dell'Italia, faccio il tifo per l'Inghilterra, perché la Perfida Albione è la mia patria alcolica elettiva. Come al solito gli inglesi sono usciti in maniera stupida, sbagliando un rigore a pochi minuti dalla fine, facendosi buggerare da una Francia cinica e dominata per quasi tutta la partita. Nonostante i due rigori a favore, l'arbitraggio è stato costantemente sbilanciato dalla parte dei francesi, con quelle piccole decisioni che come una goccia cinese spostano l'equilibrio verso una squadra, condannando l'altra a innervosirsi e a perdere lucidità. Non ho dubbi che ciò sia avvenuto in malafede, perché la finale di questo mondiale doveva essere Francia-Argentina ovvero Mbappé contro Messi, guarda caso i due calciatori simbolo del PSG, che è di proprietà del Qatar.

Il sanguinario e danaroso emiro Al-Thani per avere questo mondiale ha corrotto e inondato di dollari mezzo mondo, ha fatto costruire gli stadi dagli schiavi immigrati, che sono morti a migliaia sul lavoro. Mi pare che avere una finale coi suoi due maggiori stipendiati sia il minimo che potesse pretendere e ottenere dal baraccone osceno della FIFA. Ci sono andati per mezzo i brasiliani e questo non mi è dispiaciuto perché è stato bello vedere piangere quel fascista di merda di Neymar assieme al suo amico Bolsonaro. In più, non abbiamo più visto quei balletti ridicoli fatti dopo i gol dagli Atleti di Cristo della Selecao. In questo preferisco gli argentini, per quanto siano una banda di tamarri esaltati anche loro. L'Inghilterra aveva una buona squadra quest'anno, ha giocato bene, forse mancava una stella sul campo capace di fare la differenza, come si è visto con l'errore dal dischetto del pur bravo Keane. Ma la Perfida sarebbe stata mandata comunque al massacro in finale contro gli unti dal Signore, contro il figlio prediletto di D10S e dell'Emiro Al-Thani, nella nuova edizione della rivincita della guerra delle Falkland. Forse è stato meglio vederli uscire contro Mbappé.

Del campione francese ammiro la sua potenza esplosiva in campo: è davvero impressionante e unico al mondo. Inoltre solidarizzo con lui per gli attacchi che riceve per avere una relazione (presunta o meno non lo so e non mi interessa) con una persona trans. Il mondo del calcio è ancora fortemente transfobico e ogni giorno si sono letti titoli di giornale e commenti disgustosi. Su Messi trovo eccessiva la retorica che lo circonda. Mi irrita quel suo tiro rasoterra angolato e spero sempre che non la Mano de Dios ma una mano di un portiere meglio piazzato ci arrivi. Ma purtroppo lo stronzo è proprio preciso.

Insomma possiamo archiviare anche questi mondiali. Dio e il popolo hanno vinto. Hanno vinto gli ultimi, hanno vinto i primi, i più poveri e i più ricchi. Gli emiri e i bambini che giocano scalzi nel barrio di Rosario la città del calcio. Per me invece il bilancio è positivo per il gol di Boulaye Dia. Per l'Inghilterra ci sarà modo di perdere ancora. Il football anche questa volta It's not coming home. Eppure per me, opinione assolutamente personale e sindacabile, il calcio non è lo sport degli emiri e dei dittatori o dei poveri in cerca di riscatto. Il calcio è uno sport inglese e si basa su due concetti fondamentali, entrambi distintamente albionici. Il primo è support your local team, segui la squadra della tua città, per quanto facciano schifo entrambe, la squadra e la città. Il secondo è che prima, durante e dopo la partita si deve bere una buona birra. Tutto il resto, paturnie religiose o geopolitiche, le lascio ai fanatici di Maradona, Chavez e Fidel Castro.

Attivismo

Mi chiedo sempre se possa definirmi o meno un attivista. Ho sempre vissuto in maniera contraddittoria questo fatto, l'esposizione pubblica della propria persona, del proprio corpo, al giudizio altrui come alle possibili conseguenze delle azioni politiche. Ho sempre odiato dare i volantini, per esempio. In vent'anni e più e con una miriade di iniziative politiche seguite, credo di averne dati davvero pochi. Pure quando mi costringevo a partecipare al volantinaggio non vedevo l'ora di finire i miei e passare alla parte divertente della serata, magari al pub, vivendola come la fine di un incubo. Dare i volantini è snervante, la gente è sempre contraria o indifferente a tutto quello che ci scrivi: la fine di una guerra, l'aumento del salario, ti guardano sempre come un rompicoglioni o un cretino. Loro non hanno tempo da perdere con queste stronzate. Beato te che tieni la capa fresca. Almeno questa è la mia percezione/attesa.

Questo fatto è una questione caratteriale, perché diciamo che nei primi anni di vita se c'erano estranei a casa mi nascondevo terrorizzato sotto il letto. Per dire. Che avrò avuto un amico immaginario fino a sei anni e altre cose che fanno ridere ora ma che da bambino erano atroci. Non mi sarei mai visto, una ventina d'anni dopo, a fare un intervento in un centro sociale alla presenza di centinaia di persone. Un intervento pure ironico, sciolto e molto applaudito. Così come non mi sarei mai visto con in mano un megafono davanti al blocco di un porto, con i camion destinati in Iraq fermi in colonna. Oppure a seminare le guardie fuori una tendopoli militarizzata o a urlare libertà sotto un carcere. Tutte cose che ho fatto forse con maggiore facilità rispetto a dare un volantino.

Sono comunque percorsi tortuosi e mai troppo lineari, perché oggi in certi momenti mi nasconderei volentieri di nuovo sotto il letto, mentre in altri momenti quel fuoco che mi brucia dentro continuerà a portarmi in situazioni sicuramente impensabili oggi. Anche per questo ho sempre diffidato dalle etichette, non volendomi mai definire comunista o anarchico, perché le vie tortuose della mente, delle azioni che fai perché te lo impone la passione, la voglia di starsene al sicuro a casa sotto il letto, l'indifferenza della gente, la repressione dello Stato, ci sono un mare di cose tra il dire e il fare, tra quello che pensi e quello che diventi. Mi preme sempre criticare le derive che stanno prendendo i gruppi comunisti e anarchici, soprattutto in Italia, questo sì, perché sono cazzimmoso e mi danno fastidio le posizioni politiche che non condivido: in particolar modo ho sviluppato un'ostilità e un odio profondo nei confronti dei marxisti autoritari.

Diversamente dalle etichette di cui sopra, mi accollo invece con grande orgoglio quella di vegano, perché riguarda una scelta di vita e una pratica cui sono chiamato a rispondere ogni giorno. Una scelta che non è dovuta a motivi salutistici, per cui se mi offrono una pizza margherita non risponderei mai “no grazie, sono intollerante al lattosio” per evitare la rottura di coglioni e i giudizi della gente, ma piuttosto che “sono contrario allo sfruttamento delle mucche”. Per cui no grazie, sono vegano. Resta il dubbio ora se in quanto vegano possa definirmi anche un attivista. La risposta anche qui è nì.

Anche qui ho partecipato a qualche presidio e tenuto qualche striscione. La violenza e lo scherno che c'è nei confronti delle attiviste (uso il femminile per rispetto alle tantissime che portano avanti il movimento) per la liberazione animale è moltiplicato al cubo rispetto ai militanti politici (qui al maschile per dispetto). “Ma chist so' propr sciem!” ho sentito esclamare durante un'iniziativa contro la pesca a cui ho partecipato. Mi sono girati parecchio i coglioni, come se avessi fatto un volantinaggio di tre ore. Solo che ci penso mi viene voglia di una birra. Una birra e mi ritiro, che poi diventeranno quattro pinte.

La rivincita di Costanzo Preve

Ieri sera, non so come e per quale motivo, mi sono imbattuto nel video di una vecchia intervista che Diego Fusaro fece al suo mentore filosofico, Costanzo Preve. La curiosità e una buona dose di morboso masochismo mi hanno spinto a rivedere diversi video che riassumono il pensiero del filosofo torinese, scomparso ormai da alcuni anni. Alla fine posso dire che l'ascolto è stato estremamente interessante perché mi ha fatto comprendere una cosa davvero notevole e inaspettata: Costanzo Preve oggi, a una decina di anni dalla sua morte, non è più il teorico ex marxista rinnegato e reietto da tutta la comunità dell'estrema sinistra. Tutt'altro: credo che le sue teorie stiano facendo incredibilmente presa su una buona parte di quel mondo che lo aveva etichettato sbrigativamente come fascista (peraltro con qualche comprensibile ragione).

Ispirato dalle domande di Fusaro, il suo allievo prediletto che oggi è diventato famoso e parte di quel circo mediatico che avrebbe fatto inorridire Preve, il filosofo torinese riassume per i posteri nei video di YouTube il suo pensiero. Preve si riteneva, alla conclusione della sua parabola teorica e di vita, ancora dentro la tradizione storica marxista, seppure insistesse sulla preminenza di Hegel e Fichte rispetto a tutti i grandi filosofi della storia. Lo stesso Marx, continuando su quella medesima tradizione, resta per Preve un filosofo idealista, non essendo riuscito a rovesciare nel materialismo il discorso hegeliano, che resterebbe invece valido nei suoi assunti di dialettica, totalità, verità etc.

Su questa base teorica decisiva, Preve costruisce il filo del suo pensiero filosofico e politico. Innanzitutto c'è l'ontologia dell'essere sociale mutuata da Lucacks, poi la distinzione tra capitalismo e borghesia, quindi la critica radicale al post-modernismo e la costruzione di un anticapitalismo che si fonda sul dogma hegeliano dello Stato come realizzazione dello Spirito (Preve sibila in maniera inquietante in un video che “Lo Stato non finirà mai”) e sul comunitarismo come rifiuto dell'assimilazione delle culture e delle radici locali, a suo modo di vedere un'omologazione operata dal mercato globale e quindi da osteggiare. Le conseguenze del sistema filosofico ipotizzato da Preve porteranno Fusaro a insistere su tematiche quali la difesa della famiglia tradizionale, l'anti-americanismo, il superamento della dicotomia destra-sinistra e la geopolitica.

Soprattutto è la Geopolitica, richiamata dallo stesso Preve come il fondamento del nuovo anticapitalismo, ad essere sinistramente attuale, basti vedere quanta parte di estrema sinistra abbia declinato su di essa tutto il suo storico anti-imperialismo, considerando (secondo loro in linea con Lenin) l'imperialismo americano come l'unico egemone e quindi l'unico da combattere. Questo dogma geopolitico assegna a uno Stato qualsiasi, seppure esso sia una dittatura poliziesca sanguinaria, una funzione progressiva nel contesto del contrasto al dominio degli USA e dei suoi alleati europei. Il gioco è fatto quando ricordiamo il motto hegeliano di Preve sullo Stato che non finirà mai e quindi sulla conseguente scomunica di ogni movimento anti-autoritario, di ogni ribellione al potere degli Ayatollah o degli Oligarchi, ovviamente tutto bollato come rivoluzioni arancioni pagate dagli USA.

Anche il comunitarismo è sempre più sdoganato, ogni emancipazione dalla prepotenza di Stato e Patriarcato viene intesa come un cedimento al pensiero unico globalizzato del capitalismo. Qui agisce tutta la filosofia idealistica della Verità e la sua realizzazione antropologica e politica, in relazione anche ai balbettamenti del marxismo su questa tematica, sempre in bilico tra un economicismo totalizzante e ottuso e la sua diffidenza della decostruzione dell'umanesimo operata dai vari Nietzsche, Foucault e Deleuze-Guattari.

In conclusione, possiamo dire come le scomuniche operate dai marxisti al pensiero di Preve appaiano oggi sempre più deboli e lontane, quando alle ultime elezioni politiche nazionali abbiamo visto lo spirito delle idee del professore torinese su almeno tre o quattro liste elettorali, da Italia Sovrana e Popolare a Italexit più qualche pezzo di Unione Popolare e di altri piccoli gruppi no vax, filo russi e di estrema destra: sommate in voti siamo vicini al 5%, un risultato davvero impressionante se paragonato alla solitudine nella quale si dibatteva in vita Costanzo Preve, circondato da pochi affezionati seguaci e da un risentimento feroce contro quella sinistra che lo aveva insultato ed emarginato. Oggi forse sarebbe contento di assistere a quella che mi sembra sempre di più una clamorosa rivincita postuma.

La poetica di Joe R. Lansdale

“La luna era molto luminosa, e rendeva l'acqua lucente come il vestito buono di un povero” La notte del Drive-in 3. La gita per turisti, p. 44

C'è una foto diventata ormai famosa, data la sua diffusione virale sui social network di tutto il mondo, che ritrae un “friday night” tipicamente inglese: per le vie di Manchester due poliziotti tentano di sedare un uomo ubriaco e molesto, un altro giace accasciato al suo fianco con una birra appoggiata a terra mentre altri personaggi compongono la scena vestiti in abiti da sera. Il tutto viene incorniciato da una luce artificiale notturna che illumina il giallo catarifrangente dei giubbotti della polizia, le automobili sulla strada, i negozi sullo sfondo e i mattoni rossi di Well Street.

Questa foto, seppure di ambientazione britannica, ricorda molto la poetica di Joe R. Lansdale, lo scrittore texano più conosciuto e bravo al mondo. Se leggiamo l'incipit di uno dei suoi romanzi, Una coppia perfetta, possiamo infatti trovare una scena descritta nitidamente con gli stessi colori: «Quando arrivai in macchina al night club, Leonard era seduto sul marciapiede con uno straccio zuppo di sangue premuto sulla testa. Due auto della polizia erano parcheggiate pochi metri più in là. Uno dei poliziotti, Jane Bowden, una donna tarchiata con i capelli biondi legati a coda di cavallo, era in piedi accanto a Leonard. Era un'amica di Brett, la mia ragazza. Nel parcheggio c'era un tizio disteso sulla schiena».

Le pennellate di Lansdale introducono il lettore con sole quattro righe di pagina nel meraviglioso mondo di Hap e Leonard, i suoi due personaggi più famosi, protagonisti di una saga che è difficile, come tutte le opere del genio texano, incasellare in un preciso genere letterario. Pulp, noir, western moderno, hard boiled, come lo vogliamo chiamare, lo stile di Lansdale travalica qualsiasi etichettatura classica. Tante sono le abilità di questo scrittore che riescono a trasformare ogni suo libro in un’avventura per chi legge. Innanzitutto il ritmo narrativo incalzante è costruito da una trama che si rivela sempre essenziale, non ci sono mai pagine in eccesso e ragionamenti posticci, l’evoluzione della storia si regge semplicemente sui dialoghi dei personaggi e sulla ricostruzione dell’ambientazione.

Questa scorrevolezza è il primo punto a favore dei testi di Lansdale, che si rivelano di una facilità di lettura costruita con un’abilità letteraria fuori dal comune, perché gli elementi che reggono la narrazione sono pieni di una fantasia senza freni da parte dell’autore e di una precisione ineguagliabile. La caratterizzazione dei personaggi è leggendaria. Hap e Leonard, per esempio. Il primo è bianco, progressista e pacifista, mentre il secondo è nero e repubblicano, ex militare in Vietnam, omosessuale: un incrocio perfettamente non convenzionale che si incastra nello scenario di un'America piena di razzismo, povertà, criminalità organizzata (la “Dixie Mafia”) e i due nostri eroi solitari pronti a combattere i mostri più improbabili.

Una scena che si ripete con costanza nei finali di Hap e Leonard è quella dei due protagonisti, investigatori privati squattrinati e improvvisati, che si ritrovano a fronteggiare una banda di pericolosi criminali tra i quali spunta nella lotta finale un gigante, un cattivo dalla mole improbabile, quasi resistente alle pallottole. Un’esagerazione che riporta il lettore su un crinale sottile tra fantasy e realismo. La voce narrante espressa in prima persona dal racconto di Hap serve poi a fornire potenza espressiva ulteriore al racconto. Un altro momento unico nella letteratura dello scrittore texano riguarda inoltre la capacità di costruzione dei dialoghi, nei quali i personaggi hanno una loro voce perfettamente riconoscibile e un loro linguaggio assolutamente ben centrato, con una coerenza e una credibilità perfetta. Lo vediamo soprattutto quando i personaggi sono adolescenti o bambini: data la difficoltà di costruzione della voce, la credibilità messa giù dall’autore risulta sempre sorprendente.

Questi gli ingredienti principali della narrativa di Lansdale, cui non possiamo che aggiungere l’iconica causticità delle battute fulminanti, con linguaggio di strada e sboccatissimo: un esempio su tutti, quando Hap incontra Brett, la sua futura compagna, lo scrittore texano per sottolineare l’avvenenza della donna fa dire ad Hap che “anche il Papa si sarebbe chiuso nei cessi del Vaticano per farsi una sega”.

Il contesto di queste battute fulminanti è quello di un mondo ostile, rutilante e pieno di personaggi improbabili, ma allo stesso tempo realistici come la cattiveria umana, che è infinita e terribilmente tangibile, una volta che ci si è messi in marcia sulle strade senza nessun riparo confortevole. Spesso perché si è nati poveri oppure perché si è neri in un Texas razzista nel quale svetta ancora la bandiera confederata e appaiono i fantasmi a cavallo del KKK; oppure perché un tornado ha spazzato via la piccola casa nel sud texano, oppure ancora perché si è finiti dentro una torbida storia di ricatti da parte di criminali senza scrupoli.

In questo lago nero di oscurità, nei romanzi di Lansdale rifulge la luce del coraggio degli ultimi e della solidarietà tra oppressi. Hap e Leonard sono spesso chiamati a fronteggiare nemici verso i quali la stessa polizia (a sua volta storicamente corrotta o inetta, tranne rare eccezioni) nutre un grande timore: i due protagonisti però riusciranno sempre a sconfiggere i mostri e nella loro lotta ci sarà lo spazio per una risata, uno sberleffo in faccia alla vita e alla cattiva sorte. Questo coraggio nasce dalla consapevolezza e dalla disperazione che, come dice un personaggio di uno dei libri più belli di Lansdale, Foresta: “poi, all'improvviso, la verità mi è saltata agli occhi, semplice come un bicchier d'acqua. La vita è quello che è, ed è tutto tranne che giusta”.