Addio alle armi

È il pomeriggio del 20 luglio 2001, sono davanti il televisore, con lo zaino in spalla e pronto a uscire di casa. Mia madre si è chiusa in camera e non mi rivolge la parola, troppo irritata per la mia decisione di raggiungere Genova e le contestazioni al G8. Ci sarà un treno ad aspettarmi alla stazione, che durante la notte farà il suo lento percorso per portare le decine di persone al grande corteo del giorno dopo. Mentre sto per uscire dalla porta di casa, dalla TV danno una notizia drammatica: pare che sia morta una persona durante gli scontri, pare che sia un anarchico basco.

Esco di casa con questa confusa notizia, che poi si rivelerà una di quelle che oggi chiamiamo fake news, ma nel nostro paese hanno una lunga tradizione, dall’arresto di Valpreda annunciato da Bruno Vespa al TG1. Un anarchico basco, una descrizione di un militante alieno, cattivo, distante anni luce da quello che i media vorrebbero fossero i manifestanti pacifici, quelli che non se la sono cercata. Poi emergeranno tutti i dettagli, sempre dopo gli altri tentativi goffi di depistaggio, del “tu lo hai ucciso, col tuo sasso” urlato ai compagni vicini al corpo di Carlo Giuliani. Carlo, un ragazzo come noi.

Salendo su quel treno verso Genova non conoscevo ancora il suo nome. Arrivato al grande corteo ricordo il sole alto e cocente, il lungomare ampio, gli elicotteri che vennero verso di noi sparando i lacrimogeni, quelli che contenevano il gas tossico CS, combinato col cianuro. Non sapevo nemmeno questo quando mi arrivò addosso quella scatoletta di ferro nella calca di persone ammassate: mi si chiusero gli occhi e mi si fermò il respiro, per pochi secondi che sembrarono un secolo, un’eternità. Poi la fuga dalle forze dell’ordine in una città spettrale, con la gente chiusa in casa. Poi il ritorno a casa e i discorsi sull’estintore, sulle foto di Carlo col passamontagna, le litigate sulla legittimità di una rivolta, la legittima difesa del Carabiniere che aveva ucciso Carlo Giuliani sparandogli un colpo di pistola dalla sua camionetta.

L’ho presa veramente alla lontana per parlare di questo libro, Addio alle armi di Hemingway, che narra la precipitosa fuga dei soldati italiani, la disfatta di Caporetto, durante la prima guerra mondiale. In uno dei brani più drammatici di questo libro, il protagonista si trova davanti al plotone di esecuzione improvvisato per quei soldati che stanno disertando (in realtà la fuga è così caotica che è difficile distinguere chi fugge assieme alle truppe e ai comandanti da chi sta scappando via in proprio). A guidare questo plotone di esecuzione sulle rive del fiume ci sono, appunto, i Carabinieri, con i loro cappelli grandi a tricorno, sono i predecessori di Mario Placanica, l’assassino di Carlo Giuliani. Difendono l’ordine di uno Stato giovane, che ha mandato a morire centinaia di migliaia di ragazzi da tutti i posti più remoti dello Stivale per difendere dei confini che verranno tracciati con il loro sangue alla fine di quella tremenda “inutile strage”.

Lo Stato era giovane, nato nel 1861, quando bisognava ancora “fare gli italiani” ossia appiattire su un discorso unitario regioni e lingue così distanti, messe in riga da un centro di potere, la monarchia sabauda, che in fin dei conti parlava francese. Decenni dopo un erede Savoia in esilio avrebbe urlato “italiani di merda” sparando a un gruppo di ragazzi in vacanza uccidendo un povero turista in una barca. La creazione di quello Stato ha avuto un filo conduttore, l’Arma, che ha messo in riga più volte disertori e disertrici, povere, operaie e chiunque abbia avuto la forza di ribellarsi, come Carlo Giuliani, che il 20 luglio del 2001 scese tra le strade della sua città per protestare contro i potenti del mondo, perché nel cuore aveva un sentimento, una voce che gli diceva che no, le cose non dovevano continuare ad andare così.