Brevi considerazioni sulla libertà delle mucche

Questa riflessione affronterà per rapidi cenni una parte della lunga storia del rapporto tra le mucche e la specie umana. Parlerò dunque prevalentemente della violenza perpetrata ai danni delle mucche. Latte, carne, cuoio, gelatina e tanto altro. I pezzi delle mucche spuntano da ogni parte nella nostra vita quotidiana, sia che apriamo il frigorifero sia che guardiamo cosa è riposto nell’armadio dei vestiti o delle scarpe. Oggi pensare a una mucca significa pensare innanzitutto ai suoi pezzi e ai suoi scarti utilizzati dall’industria. Basta fare una ricerca su Google digitando la parola “mucca” e subito comparirà sullo schermo l’indirizzo di qualche ristorante che ci offre pezzi di bovino fatti a bistecca, prelibatezze da gustare la sera a cena, quando finalmente possiamo concederci il piacere di rilassarci e uscire in un locale del centro. La mucca non esiste. Seppellita sotto quintali di spezie, aromi, forme di parmigiano, prodotti del territorio, cultura del mangiare, moda. Invisibile eppure onnipresente. Facciamo un’opera di archeologia e cerchiamo di risalire all’origine di questa storia, prima di quando sia stato possibile trovare questo animale in una scatoletta della Simmenthal. Innanzitutto, dunque, chi è la mucca? Il nome nasce da un verso, il muggito, fatto da un animale mammifero erbivoro, femmina del toro, chiamata anche vacca, appartenente alla famiglia dei bovini. Detto questo, in genere, se continuiamo la nostra ricerca dal computer o dal telefonino, subito verremo subissate da decine di informazioni riguardanti il latte. Ovviamente parleremo anche di questo, del latte sottratto ai vitelli e venduto dall’industria casearia, ma torniamo all’origine, ai bovini. Il termine “Bovidae” fu coniato da uno studioso britannico, John Edward Gray, nel 1821. L’ottocento è il secolo delle scienze e tra queste prospererà anche la zoologia, materia che non sarà, come vedremo, di certo alleata dell’oggetto dei suoi studi. Restando sulla classificazione di Gray, dalla famiglia Bovidae scendiamo nella sottofamiglia Bovinae, alla quale appartiene anche la mucca. I bovini presentano delle corna permanenti, anche se oggi capita raramente di vedere una mucca con le corna, perché negli allevamenti con uno spazio limitato le corna sono un affare pericoloso per chi è padrone del prezioso animale da reddito, per cui si pratica la decornazione con una sega. Ma anche su questo ritorneremo poi, quando le mucche saranno quasi tutte rinchiuse dall’industria umana in questi spazi angusti. Per ora parliamo di quando le antenate delle nostre amiche spaziavano libere nelle vaste praterie del mondo. Parliamo di diecimila anni fa, quando giravano in mandrie da 40 o 50 individui, ruminando per circa otto ore erba, steli, foglie e radici di alcune piante. Gli occhi grandi tendono verso l’esterno. L’udito è molto acuto, più di quello dei cavalli e circa trenta volte più di quello umano. Non sono velocissime, seppure oggi siamo abituate alla mucca allevata per la produzione di latte, quindi spesso affetta da malattie alle mammelle, ingrassata a dismisura prima della macellazione: non credo sia questo il caso dei bovini che pascolano nella tundra desertica di migliaia di anni fa. “Genetisti dell’Università di Mainz in Germania, del Museo Nazionale di Storia Naturale in Francia e dell’UCL nel Regno Unito hanno studiato le ossa e i resti di bovini domestici da un sito archeologico in Iran. Hanno scoperto che i bovini moderni sono i discendenti di un’unica mandria di buoi selvatici di oltre 10.500 anni fa” [https://guinguette-maraispoitevin.com/it/una-breve-storia-delle-mucche-parte-1/]. Nel periodo in cui la specie umana è prevalentemente nomade non c’è una spinta alla domesticazione, che appare invece, per quanto riguarda il Bos primigenius (bovini selvatici, “uro” o “yak”) quando si formano i primi insediamenti stanziali che organizzano lo sfruttamento animale su scala più larga e sistematica: “Archeologi e biologi sono d'accordo sul fatto che ci sono prove evidenti di due distinti eventi di addomesticamento dell'uro: B. toro nel vicino oriente circa 10.500 anni fa, e B. indica nella valle dell'Indo del subcontinente indiano circa 7.000 anni fa. Potrebbe esserci stato un terzo uro addomesticato in Africa (chiamato provvisoriamente B. africano ), circa 8.500 anni fa. Gli yak furono addomesticati nell'Asia centrale circa 7.000-10.000 anni fa” [https://it.hagebau-wuerth.at/storia-dell-addomesticamento-di-mucche-e-yak]. Questo incontro tra bovini e umani porta dunque a un primo cambiamento significativo nella storia di entrambi. Per l’uomo questo addomesticamento viene fatto in contemporanea con quello di altre specie, per cui si instaura la prima forma di economia legata allo sfruttamento animale, che consiste sia nell’utilizzo diretto degli altri animali per il cibo, il vestiario e il lavoro nei campi, sia per l’accumulazione dei capi come beni economici, da cui appunto si trarrà poi il termine “caput”, capo di bestiame, il capo animale conservato come bene economico. Bovini che cominciano a essere sfruttate in maniera invasiva, sulla pelle, sulla carne e sulla fatica dei loro corpi: corpi che cambieranno significativamente, come cambierà la percezione stessa di un animale che ha in principio molto in comune con la specie umana (intelligenza, sensibilità, relazionalità etc.) ma che verrà visto progressivamente come un oggetto e una risorsa da sfruttare, sempre meno come una possibile compagna di vita sul pianeta. Paradossale in questo senso è il fatto che il latte delle mucche, il primo elemento dello sfruttamento che nei millenni segnerà l’economia degli allevamenti animali, non è al principio compatibile con l’alimentazione umana. Di fatto, il latte, alimento strappato con la violenza alle mucche, contenente elementi che servono alla crescita del vitello nelle sue prime settimane di vita, verrà prima trasformato in formaggi e solo dopo molto tempo gli umani riusciranno ad assumerlo. Tutt’oggi, il latte vaccino viene presentato dall’industria come alimento essenziale per lo sviluppo umano, naturale, ricco di calcio etc. Lontano dalla percezione mainstream avviene la sottrazione dei piccoli vitelli e la reclusione delle mucche. Questa forzatura, costruita nel tempo e presentata oggi come una proiezione della vita agreste preindustriale, è invece l’esatto opposto di qualcosa che richiama una preesistente natura: una costruzione artificiale stratificata nel corso dei secoli attraverso un adattamento delle due specie in questione, quella sfruttata negli allevamenti (prima estensivi e poi intensivi) e quella che agisce un’oppressione sempre più tecnologizzata. Torniamo all’altro elemento citato dello sfruttamento dei bovini, quello della creazione di un bene da conservare nell’economia familiare, da vendere o da scambiare nel mercato. Si fa spesso riferimento al termine “caput” come fondamento terminologico del capitalismo, sebbene l’economia capitalistica sia un fenomeno successivo alla prima economia rurale fondata sullo sfruttamento animale. Senza addentrarci in una disputa storica sulla legittimità di questa etimologia, di sicuro il rapporto tra capitalismo e capo di bestiame inteso come proprietà vale come proiezione futura di questa oppressione, che si realizzerà nei secoli successivi con dei livelli inimmaginabili di violenza e di profitto sui corpi oggettivati degli altri animali, quelli non considerati di pari grado all’animale umano. In questo senso, l’incontro di diecimila anni fa tra Bos Primigenius e Homo sapiens è molto simile a quello avvenuto tra i conquistatori spagnoli che scesero dalle tre caravelle di Cristoforo Colombo e le popolazioni che risiedevano nei territori che avremmo chiamato poi America. I primi si ritennero superiori ai secondi, perché avevano sviluppato una serie di tecnologie del dominio e giustificazioni teoriche di esso che non avevano paragone con la cultura indigena. L’incontro divenne un vero e proprio shock culturale che creò le note conseguenze storiche di sterminio, schiavitù, colonizzazione, razzismo, sviluppo di un’economia mercantile e predatoria. Lo stesso è avvenuto quando si affinarono progressivamente nell’addomesticamento dei bovini quelle tecniche del dominio che hanno accompagnato lo sviluppo della società odierna, della cosiddetta civiltà, fino al raggiungimento dell’attuale mondo industriale che vede oggi miliardi di altri animali fatti nascere e allevati specificamente per il consumo umano.

Come abbiamo visto prima, la zootecnia è una scienza moderna che studia l’uso degli altri animali per i fini pratici della specie umana. Tanto più si affineranno e diverranno più complesse queste tecnologie, tanto più diverrà diffusa l’immagine di un animale che in natura nasce per essere munto per darci il latte per la colazione mattutina e il formaggio da accompagnare al vino buono, scuoiato per darci una pelle adatta per delle scarpe alla moda, macellato per la bistecca fiorentina, quella alta, mi raccomando, e “al sangue”. Se il Bos Primgenius è il nome di un fantasma, un animale libero che bruca le steppe della tundra lontano dall’uomo, la mucca è il nome di un oggetto industriale, docile e simpatico, pacifico, ma pur sempre esistente soltanto in relazione a quello che può produrre per “noi”. Come scrive Marco Reggio: “Tutta la storia della zootecnia dimostra la lotta incessante fra soggiogati e allevatori. Si tratta di una lista potenzialmente interminabile di pratiche il cui vero denominatore comune è proprio la resistenza a cui rispondono: fruste, morsi, gioghi, operazioni chirurgiche, sterilizzazioni, selezione genetica, tecniche comportamentali, retoriche elaborate per spezzare la solidarietà interspecifica” [M. Reggio, Leggere la resistenza, p. 25 in Animali in Rivolta, Mimesis Edizioni]. Nel 1855 si tiene a Parigi la seconda edizione della “Esposizione universale dei prodotti dell’agricoltura, dell’industria e delle belle arti”. Tra le varie innovazioni tecnologiche applicate all’industria viene presentato al pubblico un esempio di automazione delle operazioni di mungitura. Siamo dunque nel pieno della diffusione della Zootecnia come scienza applicata dello sfruttamento degli animali a scopo di profitto. Se nel 1821 John Edward Gray aveva classificato le varie specie di bovini, nel 1849 veniva dunque istituita la prima cattedra universitaria di “tecniche dell’utilizzo animale”. Nel Novecento arriva l’industria standardizzata nella catena di montaggio, che sfocia nel modo di produzione detto fordista: sarà Henry Ford, proprietario della prima azienda automobilistica americana, a organizzare la produzione proprio sul modello della macellazione industriale di alcune specie animali come maiali, polli e ovviamente anche delle mucche. Come si vede, le tecniche del controllo e dello sfruttamento evolvono in quel sistema di “sterminio per moltiplicazione” che oggi tristemente bene conosciamo. Si è poi detto che “se le pareti dei macelli fossero di vetro allora saremmo tutti vegetariani”. Sta di fatto che oggi questo sistema è al centro del dibattito mondiale per le sue ripercussioni: prima ancora che per le devastazioni etiche se ne parla per la questione ambientale che deriva dagli allevamenti intensivi. Eppure l’industria della carne è in pieno sviluppo. Diamo alcuni numeri per quello che riguarda le mucche sfruttate per il latte nell’industria lattiero-casearia. Parliamo di circa 270 milioni di mucche allevate in tutto il mondo. In Italia ce ne sono circa cinque milioni. Stipate in condizioni di costrizione estrema, affette da malattie, con i vitelli che vengono sottratti per continuare il ciclo produttivo, inseminate artificialmente. Oggi si discute dell’impatto ambientale di questi allevamenti, perché gli effetti nefasti riguardano anche la specie umana, che si scopre improvvisamente parte di un tutto, altri animali e mondo, e non più, soltanto, una macchina da guerra spietata che domina con la tecnica tutto ciò che la circonda. Circa il 3% delle emissioni di gas serra provengono dall’industria lattiero-casearia. L’agricoltura animale sta divorando il suolo e aumentando a dismisura il consumo delle acque: per la produzione di un litro di latte di una mucca c’è bisogno di 144 litri di acqua. L’inquinamento degli allevamenti produce quantità enormi di ammoniaca e metano, le terre devono essere disboscate e l’effetto sul clima è disastroso. Eppure, se chiedete a Bill Gates, la soluzione è pronta: nutrire le mucche con delle alghe speciali affinché non producano metano durante la loro digestione. Parimenti, si studiano altri metodi per catturare i biogas direttamente dalle stalle. Questo per dire che l’industria, almeno nella sua propaganda, crede sempre di risolvere ogni problema sempre dentro quello stesso paradigma che non contempla l’eliminazione dello sfruttamento animale. All’interno di questo paradigma non c’è pietà per le amichevoli discendenti del Bos Primigenius, si cercherà sempre un modo, per quanto difficilmente realizzabile, di mandare avanti il baraccone dello sterminio prolungando la permanenza della specie umana su un pianeta sempre più infestato dalla improbabile razionalità capitalista. È opportuno tenere presente che, insieme alle soluzioni ambientaliste interne al sistema, pure nelle ipotesi più audaci come quelle della “carne coltivata”, i numeri della produzione e consumo di prodotti animali siano in crescita esponenziale, per cui appare davvero improponibile pensare a forme di mitigazione. L’unico modo per fare marcia indietro rispetto alla distruzione del pianeta sarebbe la messa in discussione del paradigma che nasce dal dominio esercitato dalla specie umana nei confronti delle altre specie. L’oppressione esercitata sugli altri animali è lo stampino che ha modellato tutte le altre, quelle all’interno della stessa specie umana. Dal razzismo alla norma eterosessuale fino alla già richiamata colonizzazione, lo stampo è il medesimo, il capitalismo si dispiega davvero come possesso di capi di bestiame, con la minorizzazione di soggettività non ritenute all’altezza di vivere come l’Uomo: un essere bianco, maschio, etero cis, occidentale e proprietario.

“Durante la primavera del 2009, a New York, un piccolo vitello nero fugge dal mattatoio. Sfonda una recinzione che chiude il passaggio tra un camion e i recinti dove la stanno portando. Inseguita, corre a perdifiato attraversando altri macelli dove capre, agnelli, polli e tacchini attendono la fine. La fuga è piuttosto breve ma la storia appassiona i passanti e i media, con le solite oscillazioni fra solidarietà e folklore. Alcuni resoconti giornalistici utilizzano il registro del comico ma al tempo stesso la sua determinazione induce persone anche insospettabili a prendere posizione. Molly (il nome le verrà dato successivamente) viene intrappolata fra le case e sedata. Viene inviata al Brooklyn Animal Care and Control e poi trasferita definitivamente presso un’azienda agricola che se ne prenderà cura insieme ad altri animali scampati al macello” [M.Reggio, Cospirazione animale. Tra azione diretta e intersezionalità, Meltemi, 2022 pp. 142-143]. Il breve aneddoto raccontato da Marco Reggio nel suo bellissimo libro, episodio richiamato anche dallo stupendo testo “Animali in rivolta” di Sarat Colling, ci porta un attimo fuori dal destino segnato per le mucche, fuori dal mattatoio e fuori dalle cifre sul metano catturato nelle stalle. Quella che irrompe sulla scena è un’ospite inattesa, che si chiama nel caso specifico Molly ma rappresenta il discorso della resistenza animale. L’esistenza dell’agency degli altri animali (e delle mucche nel caso specifico) di ribellarsi coscientemente in direzione della propria libertà e sopravvivenza è un dato di fatto. Un fatto dimostrato da questo e da altri eventi, che vengono sempre (come scrive Reggio) minimizzati, ridotti a folklore, sterilizzati o esorcizzati. Le strade metropolitane della City per eccellenza tra le quali si aggira Molly sono la rappresentazione più plastica ed evidente di un territorio urbanizzato a misura d’uomo, un territorio antropizzato, reso ostile per tutte le altre specie, che possono apparire solo in maniera disturbante e temporanea. La resistenza animale ci richiama ad una completa rivisitazione di una serie di categorie politiche, che se restano ferme al loro ancoraggio antropocentrico rischiano di non saper leggere quello che può essere il futuro del pianeta terra e delle lotte intersezionali, delle amicizie e alleanze multispecie, della creazione di un nuovo concetto di famiglie. A partire dai primi bovini liberi di ruminare negli spazi immensi e non ancora devastati dall’arroganza umana, abbiamo fatto un rapidissimo excursus passando per l’addomesticamento della famiglia dei Bovinae, passando per l’industrializzazione dei macelli e dello sfruttamento intensivo, fino ad arrivare all’epifania della resistenza animale. Questo richiamo alla mucca che fugge dal mattatoio potrebbe rappresentare, come direbbe Walter Benjamin, quel salto di tigre nel passato che costituisce l’attualità della rivoluzione. Il cammino è lunghissimo e impervio, si tratta niente di meno che di sradicare il violento suprematismo dell’Homo Sapiens. Il tempo che resta, d’altra parte, è poco, ma proprio per questo c’è l’urgenza di riconoscersi nell’incontro con gli altri animali, restituendo una doppia libertà, alle mucche e a noi stessi.