Distopie reali

In che stato versa il genere distopico nelle opere della letteratura, nel cinema e nella televisione? La distopia descrive una società immaginaria, spesso ambientata nel futuro, nella quale le tendenze sociali, politiche e tecnologiche che oggi osserviamo nel presente sono portate agli estremi più negativi e paradossali: questa focalizzazione consente in ultima istanza un racconto critico della realtà in cui viviamo. Da più parti, in vari commenti critici, si parla di una recente “fine della distopia” e si sottolinea come il genere distopico sia stato sovrastato dall’accelerazione della realtà politica e sociale: se una distopia scritta negli anni cinquanta del secolo scorso aveva bisogno di qualche decennio per assorbire i contenuti più estremi prima di vederli poi girare tranquillamente nelle notizie di cronaca, adesso sembra che i tempi di congiungimento tra reale e irreale si siano di gran lunga accorciati, in modo che la distopia più immaginifica sia visibile solo dopo pochi anni dal suo concepimento artistico e letterario. Se leggiamo il bellissimo libro di James Ballard “Kingdom Come”, tradotto in italia “Regno a venire” per Feltrinelli nel 2009, vediamo come l’immagine di un’Inghilterra distopica popolata da pervasivi centri commerciali aperti 24 ore su 24, luoghi che hanno fagocitato le istituzioni democratiche tradizionali fino a sostituirne il loro ruolo e il loro significato nella struttura sociale, sia sempre più sovrapponibile al contenuto quotidiano di qualsiasi tabloid. «Le chiese sono vuote e la monarchia è naufragata schiantandosi contro la sua stessa vanità. La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce. Non c’è quasi nessuno che abbia un briciolo di senso civico. È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre. Il grande sogno dell’Illuminismo, cioè che la ragione e l’egoismo razionale un giorno avrebbero trionfato, ha portato direttamente al consumismo dei nostri giorni» [James Graham Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, 2009, p.110].

Un altro esempio ci viene dalla trasposizione televisiva del 2017 del romanzo “The handmaid’s tale”, opera dell’autrice canadese Margaret Atwood nel 1985. Siamo in un futuro decisamente tenebroso, gli Stati Uniti d’America si sono trasformati in una dittatura fondamentalista religiosa e hanno cambiato nome in Gilead: nella nuova società si seguono i dettami più estremisti e fanatici presi alla lettera dal Vecchio Testamento, c’è un controllo militare fortissimo, gli oppositori politici vengono impiccati ed esposti per le strade, ma soprattutto c’è un carattere fortemente misogino e repressivo nei confronti delle donne. Pochissime persone, infatti, in seguito alle devastazioni ambientali, all’inquinamento e alle malattie precedenti il cambio di regime, sono rimaste fertili e la popolazione ormai si riduce sempre di più: per questo motivo le ultime donne che possono avere dei bambini vengono schiavizzate e affidate, come “ancelle”, alle famiglie potenti di Gilead. Anche la moglie del leader della nazione, il “Comandante”, ha la sua ancella schiava che deve partorire al suo posto e donarle un figlio. La figura della moglie del comandante è estremamente significativa, una donna impegnata politicamente con gli insorti ma con un passato turbolento nel quale esprimeva il suo protagonismo, poi sacrificato sull’altare della nuova realpolitik misogina: un riferimento piuttosto scoperto alla parabola di alcune intellettuali ex femministe militanti che hanno sposato oggi le teorie più reazionarie, spesso ispirate ad un ritorno al cristianesimo più retrogrado e fondamentalista.

Quanto è diversa la realtà immaginata nel 1985 dalla Atwood rispetto all’odierna America di Trump e quanto sono possibili già domani gli scenari allucinati di un paese che sacrifica i contenuti dell’illuminismo borghese pur di rispondere mobilitando le masse alla crisi del capitalismo? Se guardiamo al successo anche in casa nostra di teorie e gruppi politici che stanno slittando dall’anticapitalismo di sinistra ad una sua versione retrograda da “socialismo conservatore” possiamo esaminare da vicino la progressione della realtà verso la distopia de “Il racconto dell’ancella”. Un altro elemento forte del genere distopico è sempre stato quello di focalizzare le ibridazioni tra la specie umana e le tecnologie informatiche, immaginando un sempre maggiore asservimento degli uomini al dominio dei software e degli hardware innestati come cyborg nelle carni umane. Alcune raffigurazioni delle distopie più fortunate nel panorama televisivo e del web odierno ci raccontano un possibile e prossimo venturo riassorbimento della finzione con la realtà.

Nella puntata speciale uscita il natale 2014 intitolata “White Christmas” della serie tv “Black Mirror” si racconta di un uso sempre più fisicamente invasivo di internet: con un apposito dispositivo chiamato “Z-Eye” il web diventa tutt’uno con il piano reale e relazionale delle persone, proiettando così anche alcuni aspetti tipici della vita dei social network. Matt, il protagonista della puntata, viene bloccato dalla moglie dopo che questa ha scoperto le attività clandestine del marito: dopo il blocco effettuato tramite lo Z-Eye, la moglie di Matt vedrà solo una sagoma bianca che è impossibilitata ad interagire. Questa trasposizione da fiction degli effetti dei blocchi sui social network se da un lato richiama ad una situazione già presente nella realtà per l’estensione dell’ecosistema dei social nelle vite di ciascuno già oggi decisamente pervasiva e reale, dall’altro lato ipotizza gli effetti dell’inserimento del software nel corpo umano: anche qui è molto facile prevedere come lo sviluppo tecnologico sia già in marcia forzata verso il raggiungimento di questo ulteriore obiettivo, basti pensare agli occhiali-smartphone di Samsung, ai progetti avveniristici di Google così ben finanziati dai ricavi esentasse del suo dominio globale per farsi un’idea della corsa al prossimo riassorbimento nella realtà di questo immaginario.

Forse, per allontanarci dall’avvenire della coincidenza, dovremmo rivolgerci a uno dei padri nobili della fantascienza distopica del Novecento, ovvero lo scrittore americano Philip K. Dick, le cui opere letterarie sono state praticamente saccheggiate dal cinema a partire da “Blade Runner”, trasposizione cinematografica del testo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Nella sua immensa produzione Dick ha creato una narrazione critica attraverso i suoi romanzi di fantascienza sia del benessere del sogno americano del secondo dopoguerra che degli anni della controcultura e dell’uso di droghe nel periodo della contestazione che ruota intorno al 1968. Nello straordinario romanzo “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, (1965) compare una singolare ed ambigua raffigurazione della stessa divinità: Dick, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, segnati da sofferenze e crisi mistiche, si è spesso interrogato sul rapporto col divino, mettendolo in correlazione ad una visione critica del potere e della società americana. La trama del romanzo affronta la rivalità emersa tra due spacciatori di droga e commercianti piuttosto singolari, Leo Bulero e Palmer Eldritch: il primo vende ai coloni terrestri emigrati su Marte dei giocattoli in miniatura nei quali collocare la bambola Perky Pat. Unita all’assunzione di una droga chiamata Can-D, i coloni possono immaginare molto realisticamente (fin troppo) di essere di nuovo sulla Terra a vivere una vita felice e di essere proprio come le belle bambole simili alla coppia Barbie-Ken dell’american dream del boom post bellico occidentale. Il concorrente di Bulero è appunto Palmer Eldritch, un mostro con occhi artificiali ed una mano sostituita con una protesi metallica e denti d’acciaio inox. Eldritch è uno spregiudicato spacciatore e di seguito ad un viaggio nello spazio mette sul mercato una nuova droga, il Chew-Z, che darà ai coloni esperienze di vita molto più vivide e realistiche di quelle create dal Can-D. Il Chew Z spacciato da Palmer Eldritch comincerà a far saltare la sottile linea divisoria tra realtà e finzione fornita dalle droghe precedenti, per cui gli assuntori si troveranno catapultati in mondi differenti nei quali a comandare è questo Dio cattivo, lo stesso mostro-cyborg Palmer Eldritch:

«‘Che roba è?’ chiese Eldritch. ‘Una Bibbia di re Giacomo. Ho pensato che poteva servire a proteggermi’. ‘Non qui’ disse Eldritch. ‘Questo è il mio dominio’. Fece un gesto in direzione della Bibbia e quella sparì. ‘Però potresti averne uno tuo, di dominio, e riempirlo di bibbie. E questo può farlo chiunque. Non appena la nostra attività sarà avviata. Avremo dei plastici, naturalmente, ma succederà più tardi, quando partiranno le attività sulla Terra. E comunque è una mera formalità, un rituale per facilitare la transizione. Il Can-D e il Chew-Z verranno messi in commercio sulla stessa base, in aperta concorrenza; non pretenderemo che il Chew-Z faccia niente che il vostro prodotto non faccia già. Non vogliamo far scappare la gente; la religione è diventata un argomento delicato. Sarà solo dopo averlo provato qualche volta che si renderanno conto dei suoi diversi aspetti; il tempo che non passa e l’altro, forse quello più vitale. Che non si tratta di una fantasia, che entrano veramente in un nuovo universo»[P.K.Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2003, pag.114].

Il mostro-divino Palmer Eldritch ci parla della paura che emerge nel rapporto tra gli uomini e le sostanze stupefacenti e tra gli uomini ed il commercio. Se la droga è il bene scambiabile da cui trarre profitto per eccellenza nel “mercato libero” perché crea dipendenza e quindi riproduce i propri consumatori, allora nel cambiamento di percezione che innerva la società queste caratteristiche di devozione alle sostanze psicotrope potranno manifestarsi anche nel volto sfigurato di Dio, un volto reso mostruoso dal commercio più che dalla droga stessa: una distopia alquanto realistica se proiettiamo le mostruosità del capitalismo in un futuro remoto, un futuro nel quale il genio di Philip K. Dick osserva il volto malvagio di Dio.