La fine della scuola
«Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla)» Ivan Illich, Descolarizzare la società, 1972
Nel periodo segnato dalla pandemia del Covid-19 e negli anni seguenti non si è mai parlato così tanto di scuola. Da quando è entrata sulla scena la «didattica a distanza» poi la confusione è esplosa a livelli esponenziali. Docenti e genitori che protestavano per la chiusura delle scuole, genitori e docenti che protestavano per la riapertura delle scuole senza la dovuta sicurezza, ministri che polemizzavano con presidenti di regione che chiudevano le scuole, scienziati che affermavano che la scuola fosse il luogo dove il virus si diffonde più degli altri luoghi, genitori che affermavano il contrario, e così via, in un crescendo di grida strozzate da talk-show televisivo. E poi finita l’emergenza dei banchi a rotelle e della misurazione della temperatura, a volte fatta dai bidelli con una mano posata sulla fronte dell’alunno, è tornato il ritornello fissato sul contrasto tra la scuola serva delle aziende contro le esigenze del precariato tra il corpo docente. Mentre tutti sono ancora contro tutti, però, su una cosa sono tutti d’accordo: la scuola è un luogo importante, importantissimo, forse è l’istituzione più importante di tutta la nostra società, della nostra democrazia. Il presidente di Confindustria dirà che la scuola deve formare i lavoratori del futuro. Il sindacato Cobas lotterà contro l’elefantiaca e kafkiana distribuzione delle cattedre e contro le prove Invalsi. E così di seguito tutti i partiti, di destra di centro e di sinistra, diranno che la scuola è un’istituzione centrale, sacra, intoccabile.
Chi critica questo coro unanime lo farà soltanto per smascherare un’ipocrisia palese, ovvero che nel mentre tutti i governi hanno proclamato la scuola come centrale per il funzionamento della democrazia, l’hanno contemporaneamente svuotata di finanziamenti, precarizzando il corpo docente e lasciando gli istituti in un degrado crescente, con i soffitti che cadevano in testa agli studenti. Questa critica non fa che rafforzare il coro del governo: sì, il precedente esecutivo poteva fare di più, ma adesso ci siamo noi e dobbiamo puntare tutto sulla scuola. Non se ne esce, in tutto questo dibattito pubblico, in questi mesi di feroci accuse tra scienziati e politici sulla didattica in presenza e a distanza, non si è alzata nemmeno una voce che mettesse in discussione il cuore, il progetto, l’utilità e la funzione di questo baraccone che chiamiamo scuola. Il motivo di questa assenza è semplice ma forse è illuminante rispetto a tanto di quella falsa opposizione che sinistra e movimenti fanno ad un sistema che vorrebbero combattere ma di cui in realtà condividono principi e fondamenti.
Come altre istituzioni totali sviluppatesi nel Novecento, come il carcere, l’ospedale o il manicomio, anche la scuola è stata profondamente riadattata nella fase più recente del dominio capitalista. Come le altre istituzioni che un tempo facevano da ausilio ideologico alla grande fabbrica fordista, anche la scuola è diventata più flessibile, i suoi insegnamenti più adatti a formare la mentalità imprenditoriale dei suoi studenti. Così come la polizia e il controllo si sono diffusi e ramificati nella società e così come il lavoro si è reso pervasivo, totalizzante, con gli smartphone che ci attaccano al meccanismo produttivo h24, così la scuola è diventata smart, i suoi insegnanti sono precari che devono formare clienti e futuri lavoratori iper-sfruttati. Cambiato lo scenario, cambiati gli strumenti, resta l’obiettivo di fondo: a scuola si deve insegnare a obbedire.
Oggi la ginnastica dell’obbedienza deve essere permanente, così come si suol dire che la formazione non deve finire mai, perché se perdi il lavoro a cinquant’anni ovviamente è per colpa tua che non ti sei adeguatamente aggiornato. Se però durante la fase fordista qualche eretico poteva immaginare la descolarizzazione, la fine della scuola, e si poteva pensare un’alternativa del sapere e dell’apprendere in comunità dislocate fuori dalle logiche del capitalismo, oggi sembra che questo scenario (parimenti con quello della fine del capitalismo) non sia nemmeno immaginabile. Gli unici movimenti che abbiamo visto in questi anni sono stati sempre sulla difensiva, con comitati di base di professori che lottavano contro la trasformazione della scuola da fabbrica fordista ad azienda con produzione just in time.
E dunque anche nel dibattito avvenuto durante il periodo post-pandemia si è parlato della stabilizzazione dei docenti precari, delle aule pollaio, dei concorsi, della sicurezza e di tanto altro, certo non di «abolizione della cattedra» o altri concetti di quello che viene demonizzato come residuato ideologico degli anni 70. Sarebbe invece il caso di riscoprire quanto hanno detto questi teorici della descolarizzazione, per tracciare almeno qualche idea differente. Ivan Illich nel suo Descolarizzare la società inseriva la scuola tra le istituzioni manipolatorie e non conviviali, un’istituzione fondata sulla confusione tra l’erogazione dell’istruzione e l’assegnazione del ruolo sociale. L’attacco di Illich al sistema istituzionale d’istruzione si può capire soltanto insieme alla sua critica dell'architettura moderna, della famiglia e del sistema di merci: in questo senso Illich nel 1971 ha forse preconizzato la completa integrazione della scuola con gli strumenti tecnologici del dominio, questa oscena formazione (a distanza o meno) che lo Stato ti eroga attraverso i software di una multinazionale come Google. Per questo motivo pensare la fine della scuola sarà di nuovo possibile solo se riemergerà la voglia di distruggere questo mondo, reinventando così l’arte di costruirne uno nuovo.