La mucca pazza
Nel 1986 il laboratorio veterinario di Weybridge in Inghilterra individua una nuova strana malattia comparsa in un allevamento di mucche nella regione dell’Hampshire. La malattia neurologica viene chiamata Encefalopatia spongiforme bovina: un male degenerativo e irreversibile che causa la morte delle mucche tramite un agente patogeno, definito inizialmente come “agente infettivo non convenzionale”. In breve avremo dunque la diffusione della malattia della mucca pazza e quindi successivamente la definizione volgare di “Mucca pazza” che rimarrà nella storia per significare in modo emblematico il rovesciamento simbolico di quanto accaduto.
La mucca, inizialmente vittima di una terribile malattia indotta dalla zootecnia e quindi dalla mano umana, diventa essa stessa agente patogeno, identificato con il nome di un soggetto pericoloso se entrato in contatto con gli umani attraverso il consumo di carne. Una volta reificato come mero oggetto di consumo, il soggetto scomparso nella produzione meccanizzata del “referente assente” ovvero il cibo per le nostre tavole, ricompare come agente patogeno, portatore di virus, pericolo incombente.
Eppure qui le mucche sono vittime di un duplice crimine: da un lato abbiamo inizialmente la loro riduzione in catene (vere e proprie in alcuni casi) per lo sfruttamento negli allevamenti, dall’altro lato successivamente abbiamo l’uso di mangimi per la loro riproduzione che causeranno queste problematiche neurologiche. I mangimi usati in questi allevamenti erano infatti di origine animale, farine di carne trattate con solventi cancerogeni: per evitare i danni provocati da questi solventi, si attuarono delle modifiche nel processo di produzione che causarono la nascita di una proteina detta “prione” che causò i danni neurologici alle mucche che conosciamo con il nome di “Mucca pazza”.
L’uso di queste farine animali negli allevamenti, con un circuito che porta al cannibalismo imposto alle mucche per il loro sostentamento nelle stalle, risale agli anni ‘70 in Inghilterra, ma è il governo di Margaret Thatcher a decidere l’abbassamento della temperatura nella produzione delle farine che causa la nascita del prione. L’avvelenamento avviene quando le mucche ingeriscono tessuti di altri animali morti e infetti per via di questo processo chimico indotto dalla zootecnia. A loro volta, in un processo ulteriore di smembramento e produzione necrologica, gli umani che mangiano pezzi di mucca infettati da altri pezzi di animali morti, possono essere contagiati da questo pericoloso morbo.
Negli anni ‘90 abbiamo effettivamente alcune morti poi riconosciute derivanti da questa catena di infezioni. “Dopo l'apparizione dell'encefalopatia spongiforme bovina (BSE), malattia detta “della mucca pazza”, il governo del Regno Unito ha adottato varie misure per lottare contro questa malattia, al fine di ridurre i rischi per la salute umana. Contemporaneamente, esso ha istituito lo Spongiform Encephalopathy Advisory Committee (SEAC), organo scientifico autonomo, con funzione di consulente del governo. In un comunicato datato 20 marzo 1996, lo SEAC affermava che l'esposizione alla BSE costituiva “la spiegazione al presente più verosimile” dell'apparizione di una nuova variante della malattia di Creuztfeldt-Jakob, encefalopatia che colpisce gli esseri umani. Facendo seguito alle raccomandazioni per la protezione della sanità pubblica dello SEAC nonché a un parere del Comitato scientifico veterinario dell'Unione europea, il 27 marzo 1996 la Commissione ha adottato, come misura di emergenza, una decisione che vietava la spedizione di qualsiasi bovino e di qualsiasi tipo di carni bovine o di prodotti ottenuti a partire da queste ultime dal territorio del Regno Unito verso gli altri Stati membri nonché verso i paesi terzi [https://curia.europa.eu/it/actu/communiques/cp98/cp9831it.htm].
Le vittime umane a inizio anni 2000 riguarderanno principalmente il Regno Unito, luogo in cui si erano infettate le prime mucche, e soltanto marginalmente gli altri paesi europei. Nonostante questa diffusione piuttosto scarsa del morbo, soprattutto nel periodo tra fine anni ‘90 e primi anni del nuovo millennio si diffonde una paura molto acuta dei pericoli della “Mucca pazza” con conseguenti ripercussioni sull’industria agroalimentare dei vari paesi, Italia compresa. A vent’anni di distanza dalla prima vittima italiana, la stampa ragionò sugli aspetti che portarono a un affinamento delle pratiche di sfruttamento delle mucche: “Per esempio la crisi rese necessaria la tracciabilità degli alimenti, che permette di conoscere il percorso che un cibo compie dalla materia prima fino alla nostra tavola. Ancora, si diede l’avvio effettivo all’anagrafe bovina, che è una condizione necessaria per tenere allevamenti e macellazioni nell’ambito della legalità. E ancora, la sicurezza dei mangimi: scoprendo il cannibalismo degli animali da zootecnia – il veicolo dell’infettività erano infatti gli scarti di macellazione degli animali stessi – si imparò che il cibo per gli animali che diventano cibo deve essere sano e controllato come il nostro” [https://www.huffingtonpost.it/blog/2021/01/14/news/vent_anni_di_mucca_pazza_non_e_stato_un_disastro_inutile-5043475/]. Ovviamente, non si mette minimamente in discussione tutto il processo che ha portato a questo risultato: eppure chi scrive questo articolo inquadra le migliorie della zootecnia nell’ambito della situazione pandemica del Covid-19, che pure dovrebbe far riflettere sulla relazione tra allevamenti animali e possibili epidemie.
Lo spettro della “Mucca pazza” aleggia ancora sul sistema di sfruttamento industriale degli animali, tanto è vero che la stessa Coldiretti, sia pur in termini apologetici e trionfalistici del proprio operato, ci tiene ad esorcizzare questa paura presente nei consumatori: “La scoperta del primo caso in un allevamento italiano ha dato il via all’emergenza nella Penisola dove – ricorda la Coldiretti – sono state adottate drastiche misure di prevenzione che hanno portato da oltre un decennio alla scomparsa della Bse dalle stalle nazionali grazie all’efficacia delle misure adottate per far fronte all’emergenza come il monitoraggio di tutti gli animali macellati di età a rischio, il divieto dell’uso delle farine animali nell’alimentazione del bestiame e l’eliminazione degli organi a rischio Bse dalla catena alimentare. Ma soprattutto – precisa la Coldiretti – è cresciuta l’attenzione alla qualità, alla sicurezza alimentare e alla trasparenza dell’informazione. Un cambiamento – sottolinea la Coldiretti – sostenuto anche dalla domanda degli italiani che nel corso degli ultimi 20 anni hanno moltiplicato gli acquisti di prodotti tipici, di prodotti biologici e soprattutto di prodotti locali a chilometri zero direttamente dagli agricoltori. L’Italia è l’unico Paese del mondo che può contare su una rete organizzata di vendita diretta degli agricoltori con Campagna Amica che mette a disposizione delle famiglie circa 1.200 mercati contadini a livello nazionale sia all’aperto che al chiuso con una varietà di prodotti che – spiega la Coldiretti – vanno dalla frutta alla verdura di stagione, dal pesce alla carne, dall’olio al vino, dal pane alla pizza, dai formaggi fino ai fiori per una spesa annua che prima dell’emergenza ha raggiunto i 2,5 miliardi di euro. Dall’emergenza mucca pazza è emersa dunque – evidenzia la Coldiretti – una agricoltura rigenerata attenta alla qualità delle produzioni, alla salute, all’ambiente e alla tutela della biodiversità come dimostra il fatto che i mentre consumi domestici di alimenti biologici raggiungono la cifra record di 3,3 miliardi mentre la cosiddetta #DopEconomy, sviluppa16,9 miliardi di euro di valore alla produzione” [https://www.coldiretti.it/salute-e-sicurezza-alimentare/mucca-pazza-a-20-anni-dal-primo-caso-litalia-e-la-piu-green-nella-ue]].
Si continua dunque come se niente fosse accaduto, proponendo nuove soluzioni tecnologiche ai danni causati dalle tecnologie dello sfruttamento imposte dall’agroindustria. Quello che cambia è soltanto un diverso passaggio nell’evoluzione di queste pratiche, che possono rivelarsi prima come innovazioni (vedi l’uso dei mangimi animali negli allevamenti) poi causare eventualmente danni (l’uso dei solventi chimici nella produzione delle farine) a cui si pone rimedio (l’abbassamento della temperatura che ha generato il prione) e quindi la creazione di una pandemia a cui porre rimedio e così via, fino all’utopia della creazione di mucche geneticamente modificate in modo perfetto per il consumo delle loro carni sul mercato. Il 19 marzo del 2024 la rivista Wired ci parla della prima mucca transgenica capace di produrre insuline nel latte: “Nel nuovo studio, svolto in Brasile, i ricercatori hanno inserito un segmento di dna umano che codifica per la proinsulina, ossia il precursore dell'insulina, in dieci nuclei cellulari di embrioni bovini. Dopo l'impianto nell'utero di mucche normali, solo un embrione è riuscito a svilupparsi e a dar vita a una vitella transgenica. Grazie all'ingegneria genetica, spiegano gli autori, il dna umano è stato predisposto per l'espressione (il processo mediante il quale le sequenze genetiche vengono lette e tradotte in prodotti proteici) delle proteine insuliniche solo nel tessuto mammario, evitando quindi la circolazione nel sangue e in altri organi […] Il prossimo passo sarà quello di clonare nuovamente una mucca per poter riuscire a ottenere una gravidanza e una lattazione spontanea. Il tema, inoltre, spera di creare tori transgenici da far accoppiare con le femmine e ottenere così vitelli transgenici per dar vita a un piccolo allevamento che, secondo le stime dei ricercatori, potrebbe rapidamente superare i metodi attuali (lieviti e batteri transgenici) per la produzione di insulina. “Potrei immaginare un futuro in cui una mandria di 100 capi, l'equivalente di un piccolo caseificio dell’Illinois o del Wisconsin, potrebbe produrre tutta l’insulina necessaria per il Paese”, ha concluso l'autore. “E una mandria più grande? Potrebbe produrre la fornitura mondiale in un anno”. [https://www.wired.it/article/insulina-umana-produzione-mucca-transgenica-latte/]