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libertè / diversitè / laissez faire

La cosa non era passata inosservata a Camillo Berneri, l’ultimo grande pensatore anarchico italiano. Berneri divideva le ideologie in due gruppi contrapposti, quelle basate sul collettivismo cioè Comunismo e Fascismo e quelle che si fondano sulla libertà individuale, Liberalismo e Anarchismo. Berneri finì ucciso nel 1936 a Barcellona, durante la Guerra Civile Spagnola, o, come sarebbe più esatto dire durante la Rivoluzione Anarchica Catalana che a Barcellona aveva creato un suo ordinamento. Anarchico appunto. Quello che forse non tutti sanno è che non fu ucciso dai franchisti. Finì vittima dei comunisti che stavano reprimendo la rivoluzione anarchica insieme ai trotzkisti e ai libertari. Solo una doveva essere la politica del fronte democratico, un fronte comunista allineato allo stalinismo russo. A costo di uccidere chi non la pensava come loro. La libertà di partito, di classe, la libertà dei comunisti.

Einaudi, Luigi, non Giulio, il padre non il figlio, aveva espresso il pensiero nella polemica con Benedetto Croce su Liberalismo e Liberismo. Non esiste Liberalismo senza Liberismo affermava a differenza del filosofo idealista che invece lo considerava un’idea astratta. La libertà astratta non esiste. Non puoi essere libero se non sei libero di agire economicamente. Un concetto totalmente traviato dal pensiero della sinistra comunista. Il punto focale della polemica era la diversa posizione su cosa potesse essere definito liberale, Croce riteneva che certi sistemi, organizzazioni sociali, collettiviste potessero esserlo. Einaudi rispondeva che la libertà è individuale o non è. Quando si parla di libertà di gruppi c’è sempre l’inculata dietro la schiena, attenti eh...

Nel suo “Mente Zen Mente di Principiante” Shunryu Suzuki-Roshi afferma che la mente dell’esperto ha, al suo interno, poche possibilità, quella di un principiante ne ha invece tantissime. Sarà vero, la cosa, tra l’altro, risuona anche con Heidegger e le sue potenzialità. Verissimo quindi, tante possibilità, peccato siano quasi tutte sbagliate. Per averne una dimostrazione empirica basta osservare gli occidentali che si approcciano allo Zen. In pochissimo tempo riducono tutto a un paio di concetti, un riassunto del riassunto, sintomo della poca disponibilità a approfondire. Raggiungono la mente esperta riducendosi le possibilità e scegliendo immediatamente quelle sbagliate.

Giovane

Pablo iniziò a essere Pablo quando aveva quindici anni. Non che prima non fosse lui, o forse sì. Prima si chiamava Paolo Garnero, Paolo Attilio Garnero, Paolo A. Garnero. Più piemontese di così non si può, anzi cuneese, più cuneese di così… Paolo era sempre stato tra i ragazzi timidi, quelli che guardano le ragazze da lontano mentre si fidanzano con uno o l’altro dei suoi compagni più presenti. Mai con loro, mai con quelli che le desiderano da lontano. Ovviamente esistono anche ragazze timide, ma queste non sono poi così interessanti... a pensarci capiva perché i ragazzi come lui non interessavano alle altre. I ragazzi più presenti passano un sacco di tempo a affermarsi, a mettersi in mostra, spesso a spese dei ragazzi timidi che vengono bullizzati. Paolo non era mai stato bullizzato, non capiva il perché, aveva istintivamente paura dei bulli, non era particolarmente alto o grosso, o sportivo, o ricco, cose che ai bulli interessano e incutono rispetto. Lui se ne stava per conto suo, silenzioso, in disparte, si faceva i fatti suoi con i pochi amici e conoscenti che aveva. Tutti sfigati al primo anno come lui.

Un giorno a scuola venne sfidato da un ragazzo più grande, inconsapevolmente aveva fatto cadere lo zaino di quello. Questo tipo, un ripetente, bocciato qualche volta, ben piazzato fisicamente, anche vanitoso, si vestiva sempre di nero, aveva i capelli tenuti diritti con il gel, una pettinatura che dalle sue parti Pablo non aveva mai visto. Portava sempre degli scarponi militari, alti, inverno e estate. Qualcuno lo chiamava pank, il pank. A volte, per farsi bello con qualche amico o qualche ragazza, malmenava uno sfigato, preferibilmente una matricola. Gli piaceva vincere facile. Dunque, mentre usciva dalla scuola, Paolo urtò lo zaino del pank che cadde sulle scale. Provò anche a afferrarlo al volo senza riuscirci, non voleva certo fare danni a qualcuno. Quando vide lo zaino a terra pieno di scritte strane a pennarello iniziò a chiedersi di chi potesse essere. Alzato lo sguardo capì immediatamente. Il pank stava parlando con due ragazze, che gli si buttasse a terra lo zaino era un’onta che andava lavata pubblicamente. Ovviamente non poteva affrontarlo davanti la scuola, si fece vicino a Paolo e gli mormorò – Nei giardini davanti la stazione. - Paolo tornava a casa in treno, ogni giorno attraversava i giardini della stazione, ampi e oscuri a quell’ora invernale tardo pomeridiana. Mentre camminava veloce per arrivarci pensava a come poteva evitare quel guaio. Scappare di corsa? Avrebbe fatto la figura del bambino impaurito. Chiedere aiuto? A chi? I pochi che sapevano quello che stava per succedere erano per lo più amici del bullo che volevano godersi lo spettacolo. Sperare che prima di venire raggiunto arrivasse una pattuglia di carabinieri? Sperare che quello si dimenticasse, lasciasse perdere? Ma dai… Chiedere scusa pubblicamente? Ma insomma, perché avrebbe dovuto scusarsi? Arrivato ai giardini si fermò, posò il suo zaino su una panchina e si voltò. Il bullo era subito dietro di lui, alcuni ragazzi si misero in cerchio come per delimitare un ring. L’impressione di Paolo era che lo facessero anche per evitargli di fuggire. Il pank si avvicinò lentamente, i pugni alti, come un pugile. – Adesso ti sistemo io, vedrai… vedrai. - Arrivato a circa un metro Paolo lo colpì con un sinistro, con tutta la sua forza, in faccia. Quello si piegò all’indietro, incredulo. Appena si raddrizzò un altro pugno, sempre di sinistro lo rimandò indietro di un metro. Paolo sentì mormorii di commento dal pubblico, stava vincendo? Quando l’altro si buttò in avanti sanguinava dal labbro, colto di sorpresa si spostò lateralmente, d’istinto, sentì qualcosa graffiargli lo zigomo sotto l’occhio sinistro. Colpì con tutta la violenza di cui potesse essere capace, di cui non sapeva di essere capace. Si sentiva un altro, si sentiva forte, un matto forse, anzi sicuramente, tutta la paura e le regole di buona convivenza che la famiglia gli aveva inculcato, tutto il timore, la paura che aveva sempre provato dinnanzi a qualcuno più grande, più grosso, più… Tutto svanì. Un sinistro corto, centro sul naso, il braccio destro si allungo tutto colpendo l’altro allo zigomo sinistro. Perse l’equilibrio, Paolo gli fu addosso, lo prese per il collo, lo scaraventò nell’erba rada sotto i pini maestosi. Ancora un destro vicino all’orecchio. Poi un calcio nello stomaco, due. Poi un calcio in faccia, quello cadde all’indietro. Stava per dargliene ancora, era bello colpirlo senza remore, si sentì afferrare da dietro. – Basta, così lo ammazzi… - Si voltò pronto a colpire ma colse lo sguardo del ragazzo che gli teneva le spalle, non era ostile aveva una luce strana, era… era rispetto. Gli sembrò la prima volta nella sua vita che veniva guardato così. Il pank si era seduto sull’erba sanguinava dal naso, dalle labbra, aveva un occhio tumefatto, lividi sul viso. Due suoi amici gli porgevano fazzoletti di carta. – Devi andare in ospedale, farti vedere… – colse le voci come da lontano. – No, basta. Non vado da nessuna parte... – la voce rotta, sconfitto. Guardò quello che era stato un bullo minaccioso, sanguinante, seduto a terra con i vestiti impolverati e fuori posto. Non faceva più paura adesso. Osservò attentamente, gli scendevano le lacrime. Stava piangendo come un ragazzino di sedici anni, non era più un personaggio, un bullo famoso nella scuola.

Il graffio sotto l’occhio sinistro formò una crosta rossa, vista allo specchio il giorno successivo la guancia era un po’ gonfia. Era la cicatrice di una battaglia vinta, qualcosa di cui andare orgogliosi. Ai suoi aveva raccontato di essersi graffiato con il ramo di un albero mentre attraversava i giardini, erano fatti suoi quelli. Arrivato alla stazione notò come gli altri ragazzi stessero parlando di lui, quando lo videro da lontano tacquero tutti. Lo guardavano con una luce nuova, mai successo. Non era una brutta situazione, proprio no. A scuola fu ancora più incredibile, gli sembrava che i ragazzi gli si aprissero davanti per lasciargli libero il passaggio, sembrava tutti sapessero cosa era successo la sera prima. Addirittura alcune ragazze lo guardavano da lontano, poteva essere ammirazione? Cosa mai successa, o forse non se ne era mai accorto, no, mai successo prima. All’intervallo si sentì chiamare mentre raccontava per la quarta o quinta volta lo scontro con il bullo. Un ragazzo di seconda, un compagno del pank. Di nuovo nulla di ostile, di nuovo quello sguardo rispettoso, un ambasciatore, era usanza non lasciare strascichi quando gli scontri si chiudevano così nettamente. – Marino chiede se la cosa si è chiusa. - – Marino? - – Il tipo che ieri hai menato, Massimiliano Marino, il punk. - – Il punk. - – Punk. Si dice così. Allora? - – Per me è tutto finito. Mi lasci stare e io lascerò stare lui. - – D’accordo allora. - Quello gli tese la mano, una stretta forte, rispetto. Un patto tra uomini, una cosa seria. – Tu sei Paolo, vero? - – Paolo Garnero. - – Ti ha soprannominato Pablo, una forma di… di rispetto. - – Pablo, mi piace. - Quello annuì. Si salutarono con un cenno, certe cose non hanno bisogno di molte parole. Da allora fu Pablo, tutti iniziarono a chiamarlo così.

Partimmo dalla provincia più profonda, dopo anni di adolescenza sognante visioni di futuri terribili e radiosi. La lotta non ci spaventava, il mondo ci chiamava. Tante le privazioni patite il contrappasso era totale. Tutto o niente, tutto o morte. Mai previsione è stata più vera. Volevamo lo scorrere del sangue… Solo, scorse il nostro.

L’avventura iniziò lentamente, giorno per giorno, ora per ora, minuto per… Avevamo quello, volevamo altro, quello che non c’era per quello che non eravamo… ancora. Anni di sogni costruiti su mondi lontani, l’Inghilterra, l’America su tutto. Ma bastava la Germania a accendere il desiderio. Il mondo in cui vivevamo troppo piccolo, la cultura in cui eravamo cresciuti ora ci stava annegando. La rivolta era inevitabile. Avevamo trovato a fatica dispacci di un mondo esterno che sembrava condividere con noi qualcosa, iniziammo a raccogliere frammenti, a sognare momenti, a costruire un futuro su quelle istanze. Avevamo iniziato a testimoniare il nostro essere. Al punto che venimmo anche riconosciuti come tali. Nessun riconoscimento se non cieco rancore e ostilità dal narcisismo familiare, non eravamo più i bravi bambini da presentare in società, i più bravi a scuola, i meglio vestiti, sempre in prima fila in chiesa. Stavamo diventando una minaccia. L’allontanamento fu graduale, ogni possibile momento potessimo permetterci un treno, un acquisto di musica o parole eravamo in viaggio. Conoscemmo spicchi di mondo in attesa di potercisi trasferire. Il passaggio fu totale. Totale. Non tornammo più, almeno mentalmente. I luoghi fisici e soprattutto mentali della nostra infanzia e oltre divennero in un batter d’occhio terra straniera. Non che cercassimo nel mondo una nuova casa, no. Non ci interessava una casa, non ne avevamo bisogno. Avevamo i nostri sogni, l’energia che credevamo infinita, l’aspirazione a quel tutto che ci guidava. Trovammo compagni e compagne, trovammo nemici, anche qui. Furono anni gloriosi, nel bene e nel male. La spinta propulsiva continuava a tenere in movimento vite vorticose, giovinezza primavera di bellezza. Iniziarono le prime defezioni. Sembra incredibile a ripensarci, non si può lasciare qualcosa di non strutturato, di mobile, di scorrevole, eppure quello era il modo. Non che si condannasse chi lasciava, a volte anche ma per senso di tradimento personale. Era chi andava che si presentava un’ultima volta come avesse il cappello in mano, cercando di giustificarsi, di far capire le cause di forza maggiore. Quale causa può giustificare la fine di una vita? Qualcuno iniziò a sussurrare potessero aver ragione loro. Poco tempo in un tempo eterno, tutto travolse. Sanguinammo, forse più di quanto potevamo permetterci, come guerrieri che non si arrendono venimmo schiacciati, anche fisicamente. Le nostre lacrime restarono nascoste, le nostre vite non vennero rivelate. Semplicemente scomparimmo.

Il ministero dello Sviluppo Economico ha cambiato nome. Poco male dato che Sviluppo Economico poteva dire tutto e niente. Ora si chiama Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Proprio così, “made in Italy” scritto in inglese. Ben poco sovranista. Addirittura una contraddizione in termini, l’organizzazione per favorire i prodotti italiani ha un nome in inglese… Poi pensi a come renderebbe il nome in italiano. Qualcosa come “Ministero delle Imprese e dell’Autarchia” ancora meglio: MINISTERO DELL’AVTARCHIA. Capisci allora perché hanno usato l’inglese.

E che dire di quei rosiconi di quella sinistra italiana, sempre pronti a scannarsi tra loro perché sono loro più a sinistra mentre gli altri sono solo delle destre travestite? A giudicare dal numero di liste, partiti, movimenti, a sinistra, in Italia, ci sono più dirigenti che votanti. Sempre pronti a scaricare le responsabilità delle loro trovate tristi su qualcun altro. L’ultima figura di m***a riguarda la prima premier donna della storia della repubblica. Nessuno di quei partiti che si riempiono la bocca di femminismo, pari opportunità, promozione dell’uguaglianza, aveva mai pensato di candidare una donna come potenziale premier. Candidare dico, che vincere è ancora un’altra cosa. OK, c’era la Bonino, ma le sue erano candidature finte, già sapeva che con il suo zero virgola doveva apparentarsi con qualcuno di potente solo per essere eletta. Senza nulla togliere alla caratura di Bonino, un bel po’ superiore a tutti gli altri. Ora che la prima premier donna è entrata a Palazzo Chigi il panico si diffonde a sinistra. Che dire? Ci pensano gli intellettuali al servizio del pensiero progressista, quelli che grazie alla politica riescono a strappare lucrosi contratti ai media mainstream o all’editoria, un Saviano a caso per esempio. Quello che ho sentito in questi giorni fa rizzare i capelli in testa a un calvo. Meloni sarebbe la donna espressa dalla politica patriarcale. Meloni è una donna che fa politica per gli uomini, e basta. Tra breve ci suggeriranno che Meloni non è una vera donna, perché a destra le donne non esistono… perché a destra le donne sono discriminate. Salvo guidare le coalizioni. È brutto perdere le elezioni, certo. Peggio vedersi doppiati anche in quelli che si ritenevano i propri principi che solo loro rappresentavano. Perdere con dignità è addirittura un’utopia. Come fare un’analisi oggettiva su chi rappresenta oggi questa sinistra che siede in parlamento e scrive sui giornali. Certo ci sono le macchiette che si presentano in parlamento con gli stivali da lavoro ma macchiette, appunto, sono. Tutti gli altri continuano a suonarsi e cantarsi le lodi della loro presunta superiorità morale, cazzo quelli sono dei fascisti!!! Non si accorgono che gli elettori non li votano più. Per fortuna non li votano più.

Albert sedette con la solita sicurezza, giovane sacerdote dedito all’approfondimento degli studi teologici divideva il suo tempo con il priorato nella piccola parrocchia di campagna. Qui era abituato a incontrare personaggi che a malapena sapevano cos’era e dov’era la Sorbona che frequentava da qualche tempo. Non aveva pari nel confronto. All’intelligenza viva e alla curiosità propria di chi ama l’oggetto dei propri studi affiancava una gentilezza caratteriale che lo rendeva il beniamino dei parrocchiani. Aveva sempre tempo per tutti, trovava le parole giuste per consolare o incoraggiare, e non rinviava mai un confronto teologico, a qualsiasi costo. Come quella volta che arrivò in ritardo alla celebrazione con il vescovo perché stava discutendo della Bestia del mare dell’Apocalisse, con sette teste e dieci corna, con il medico del paese. Un ottimo medico, pensava, ma una testa di legno nei ragionamenti logici. Poi questi civili, tutti attratti dall’Apocalisse, nessuno dall’Ecclesiaste, il Qoelet, il suo libro preferito della Bibbia… Don Albert non temeva le domande, si chiese chi poteva essere quell’uomo sulla cinquantina tornato dalla città per il funerale della madre. Sedevano insieme nella cucinadella casa della donna, con l’anziano marito e, appunto il figlio. Un caffè e quello che doveva, a prima intenzione, essere un colloquio di incoraggiamento si trasformò in una disputa. L’uomo, si chiamava Adrian, a domanda del sacerdote sui suoi trascorsi nella parrocchia, rispose che quel posto, quella chiesa, era stato sì molto importante nella sua formazione. L’aveva frequentata dai quattro anni, quando con la famiglia si erano trasferiti lì, fino ai diciannove, quando aveva lasciato il paese finite le scuole. – Molto importante, bene! Fa piacere sentirlo. – si rallegrò Albert. – Importante sì. In quella chiesa, intesa non solo come spazio fisico, ma anche spirituale, simbolico… c’è stata un’evoluzione. - Albert era contento di aver incontrato un tale personaggio, pur con un aspetto non del tutto normale, la lunga barba brizzolata, la testa rasata, i tatuaggi… Ma un buon eloquio. – Dicevo, sì, in quella chiesa sono diventato ateo. - – Bene… – qualcosa non tornava – Come, scusi? - Adrian sorrise, un sorriso caloroso, amichevole. – Sì, ateo. È stata anche l’ultima chiesa che ho frequentato. - Un poco spiazzato Albert provò a informarsi sulle motivazioni di quella conversione al contrario, più che per cortesia proprio per curiosità. Adrian rispose, pacato nella forma, con un inasprirsi di ragioni, sempre più estreme, concluse affermando che Gesù Cristo poteva a buona ragione essere considerato come il peggior criminale della storia. Albert sentiva montare una certa inquietudine, si sforzò di mantenere la calma, distese le braccia come per stirarle, poi chiese la ragione di tale affermazione. – … una dimostrazione, se no sono solo parole al vento, no? - Adrian annuì con il capo. – Non è difficile, guarda alla storia. I grandi criminali, Hitler, ha fatto sei milioni di ebrei morti, mettiamo pure sette o otto in tutto… Stalin dodici milioni di russi sterminati, Mao sedici diciotto milioni di cinesi uccisi per il comunismo. Ma mettiamoci pure dentro Gengis Khan, Tamerlano, Nerone o chi non mi viene in mente… Tutti dilettanti al confronto delle cifre fatte registrare dal Cristo. - Albert sembrava non capire, tutto lì? – Ma, caro amico, dovresti sapere che Cristo non ha mai fatto male a una mosca. I crimini che elenchi, per quanto sicuramente reali, sono stati commessi da uomini, non da dio. - – Bravo, certo. Ma spiegami questo: chi ha fatto l’uomo? Qualcuno che sarebbe onnipotente, onnisciente, eterno. No? Se io costruisco una macchina che fa dei danni ne rispondo, idem se ho un figlio in età da non assumersi responsabilità, sono responsabile io… E dio onnipotente non ha responsabilità? La sua onnipotenza è deresponsabilizzata? - – Responsabilità… – Albert pensava in fretta, cercava tra le sue ampie conoscenze un appiglio per una risposta. L’altro continuò. – Essendo onni, potente, sciente e chissà che altro, è difficile sostenere che si sia sbagliato, no? Quindi lui crea questo uomo, già sa cosa succederà, è eterno, poi è dio… E lo crea proprio così! Non fa niente per cambiarlo, si potrebbe dire che l’ha voluto così. Che, quindi, ha voluto lui che le cose andassero così come sono andate, le violenze, i morti, i roghi, la negazione della libertà, le guerre di religione… Ecco. Io la vedo così. - Albert guardava nel vuoto. Don Albert sentiva che avrebbe dovuto dire qualcosa, sostenere la sua posizione, almeno per non dare alla religione la parte del torto che l’uomo le attribuiva, almeno non davanti al padre di Adrian e gli altri presenti, tutti parrocchiani. Non ci riuscì. Dopo lunghissimi secondi di tensione si sentì sudare, la schiena bagnata, la fronte imperlata. Dovette riconoscere onestamente la realtà. – Non so… Non ho argomenti a queste affermazioni. Mi metti in difficoltà, sì. Non so che dire. - Adrian sorrise, amichevole, suo padre si stupì del fatto che il figlio avesse fatto tacere il prete colto, quello che aveva sempre una risposta. – Magari ci pensi su, la prossima volta che ci si incontrerà mi dirai. -

A volte penso a come si è strutturato il mio pensiero attraverso gli interessi che lo hanno impegnato. Età diverse, attività diverse, interessi variabili. Che immancabilmente vengono accantonati per scelta cosciente o, più facilmente, passano tra le attività dimenticate quando altri interessi prendono il tempo che andrebbe dedicato loro. Ogni tanto mi piace pensare di tornare a qualcuno di questi vecchi interessi. Soprattutto a quelli che hanno plasmato il mio essere quello che sono anche in tempi lontani. Di solito sono ambiti su cui ho qualche posizione forte, nel senso che ho riflettuto, valutato e scelto cosa pensare in proposito. A volte scopro, ripensandoci, che invece scimmiottavo posizioni altrui senza aver capito o padroneggiato nessun aspetto della materia. Tra i vecchi interessi che hanno avuto uno spazio enorme nella mia vita, soprattutto nel passaggio da un’adolescenza prolungatissima a una vita mai troppo adulta, la filosofia e la politica. Dalla filosofia discende la politica. Davvero? No, non lo so. Forse si fa anche il percorso inverso. Più razionalmente sono due aspetti intrecciati strettamente. Parlo qui di politica dei massimi sistemi, non di attività spicciola, di amministrazione della cosa pubblica, pur con l’importanza che oggi le riconosco e un tempo tendevo a disprezzare. Dunque. Ero un anarchico. Sono un anarchico? Sì, direi di sì, anche se molto diverso da allora. Ma, prima ancora, l’essere anarchico è una posizione filosofica o politica? Risponderei entrambe, con ovvie differenze e altre meno ovvie. Essere anarchico, oggi, anni ‘20 del XXI secolo, si pone in una posizione strana rispetto a ogni altro pensiero. Non si può più parlare di rivoluzione anarchica per instaurare l’anarchia come la intendevano gli ottocenteschi o i primo novecenteschi, alla Malatesta per intenderci. Posizione storicamente determinata che, in qualche modo, ricomprende l’esperienza della Rivoluzione Spagnola del 1936, pur con le riflessioni avanzate di un Camillo Berneri che proprio lì troverà la morte per mano dei comunisti. Un primo discrimine obbligatorio, sia filosofico che politico, è la netta, totale, differenziazione tra anarchismo e comunismo. L’anarchismo sta al comunismo esattamente come sta al fascismo punto. Definire l’anarchismo “di sinistra” è una cazzata. Pensare di poter fare il famoso pezzo di strada in compagnia di quella sinistra per poi discuterne dopo, valutare la pars destruens come comune sono tutte idee pericolose. Tanto varrebbe fare attività in comune con gli integralisti islamici o con Forza Nuova. A questo punto definiamo positivamente un pezzo della nostra posizione, anarchismo è individualismo. Cioè nemico di ogni socialismo, collettivismo, comunitarismo, corporativismo o comunismo. Se qualcuno pensa di essere anarchico mediando, o, addirittura, fondandosi su certi concetti non ha nulla a che vedere con noi. Stessa cosa per coloro che definiscono l’anarchismo come ideologia socialista senza alternative. Saranno anarchismi diversi, anche inconciliabili, va da sé che nella nostra visione mille anarchici pensano a mille anarchie diverse. Appunto, individuali. L’individualismo si basa sulla libertà, totale, individuale. Questo porta all’abbandono dell’altro grande feticcio di quella sinistra totalitaria: l’uguaglianza. Non occorre essere geni logici per capire che dove c’è uguaglianza non c’è libertà, dove c’è libertà non può esistere uguaglianza. Si può anche provare a definire, a grandi linee la libertà totale. Totale a livello filosofico, mediata da un contratto sociale politicamente. Contratto sociale minimo, costruito non calato dall’alto, non una legge garantita da uno stato ma piuttosto un accordo supervisionato dai partecipanti. Contratto sociale che non prevede la partecipazione di tutti, e lascia liberi gli individui di stabilirne altri anche diversi se lo ritenessero opportuno. Una concorrenza di contratti lascia libertà di scelta o di crearne altri ancora diversi. ... 1/X

Pensi alla morte e ti vengono in mente cimiteri sconfinati, lapidi, sculture monumentali, campanili, distese di ghiaia bianca, candele accese, turiboli d’incenso, canti gregoriani e processioni dolenti. In effetti il cimitero monumentale ricostruisce fedelmente la concezione della morte che informava un mondo passato, ma nemmeno troppo. Nella dimora finale, seppur, per qualcuno, temporanea, si riproduceva la grandezza dell’uomo, o, più raramente, donna, in vita. Statue eroiche, iscrizioni su marmo, titoli nobiliari, riconoscimenti, alti gradi militari. In fondo sono morti, si pensa. Quindi sono innocui. Pure a qualche anarchico, da morto, si riconosce una discreta grandezza. La damnatio memoriae, in fondo, non è che la meschineria di chi non riesce a staccarsi dalla propria ideologia o religione senza pietà. Basti pensare ai fiumi d’inchiostro spesi ancora oggi per maledire ogni aspetto, ogni uomo, dell’esperienza fascista. Il duce non ha fatto niente di buono, proprio no. Figuriamoci, al potere vent’anni solo a far cazzate, significherebbe che il popolo che governava era fatto di caproni e pecore… forse era proprio così? O caproni sono quelli che si adattano al comune sentire senza provare a pensare? O sono solo cattivi senza pietas. Ma ritorna sempre l’idea, è morto, povero, in fondo non era poi così… e qui, a scelta, ci puoi mettere cattivo, bastardo, stronzo, fascista o comunista (a seconda di chi parla)… Come se la morte santificasse tutti o quasi. Ma davvero è così? Ok, a seconda delle convinzioni di ognuno ci si regola, ma questa storia non è un’altra stupida convenzione più cristiana che non si può? Fuoco sul carro funebre si diceva una volta, proprio per non dimenticare quello che dei bastardi morti avevano commesso da vivi. Allora non dimentichiamo che nessuno è un santo, tanto meno i santi veri, in realtà autentici bastardi. Ricordiamo sempre che la memoria è bene conservarla, che chi dimentica la storia è condannato a ripeterla… Insomma una merda eri da vivo, una merda resti da morto. Punto. Almeno finché dura la memoria, appunto. Poi, conservare odio per qualcuno vissuto secoli fa, sembra, almeno un poco, stupido.