quattropinte blog

Il razzismo e lo specismo che stanno dietro la storia del “si mangiano i cani”. Ricostruendo la storia di un mito particolarmente dannoso.

di Jessica Scott-Reid da https://sentientmedia.org/racism-speciesism-theyre-eating-dogs/

È stato un momento storico che ha oscurato il resto della serata. Come ormai tutti sappiamo, durante il recente dibattito presidenziale degli Stati Uniti del 2024, il candidato repubblicano Donald Trump ha affermato che gli immigrati a Springfield, Ohio, stavano mangiando animali domestici, in particolare cani e gatti. Il momento è diventato virale, diventando probabilmente la frase ad effetto più chiacchierata della serata. Ma anche mentre i titoli proliferavano e le comunità haitiane in Ohio ricevevano innumerevoli minacce, il compagno di corsa di Trump, J.D. Vance, ha raddoppiato la posta, apparendo nei talk show per ripetere l'affermazione già smentita. Ma perché questa chiara disinformazione ha preso così piede nel ciclo delle notizie e nei thread dei social media? La risposta sta in una profonda storia di razzismo e nella tradizione dell’utilizzo degli animali e dell’alimentazione come un mezzo per creare e mantenere divisioni e gerarchie sociali.

Specismo e alimentazione morale In molte culture occidentali, gli animali da compagnia come cani e gatti sono generalmente visti come membri della famiglia; mangiarli è considerato abominevole. Al contrario, il consumo di altri animali (mucche, maiali, polli) avviene in massa e passa in gran parte indiscusso. Questa divisione di alcuni animali come accettabili per il consumo e altri come inadatti, immorali o addirittura impuri, riflette sia le gerarchie razziste che speciste nella nostra società. Lo specismo è generalmente definito come discriminazione o pregiudizio contro gli individui in base alla loro specie, sostenendo la convinzione che gli umani siano superiori agli altri animali e che alcuni animali siano più degni di protezione dai danni rispetto ad altri. Questo pregiudizio è generalmente basato su criteri arbitrari, non diversamente dal razzismo.

Le radici del tropo del mangiare animali domestici La pratica di condannare le persone non bianche per aver mangiato cibi considerati dalla maggior parte della società occidentale come culturalmente inappropriati non è una novità. Risalente almeno al colonialismo, l'attuale disinformazione razzista sul mangiare animali domestici è radicata in narrazioni che posizionano le comunità emarginate razzialmente ed etnicamente come inferiori e immorali. Oggi, l'idea che gli immigrati, in particolare quelli provenienti da contesti non occidentali, consumino animali da compagnia non è semplicemente un malinteso culturale, è una narrazione utilizzata per disumanizzare ed emarginare quelle comunità. È profondamente radicata sia nelle narrazioni razziste che in quelle speciste e continua a rivelare pregiudizi di fondo che hanno a lungo plasmato gli atteggiamenti della società nei confronti sia delle persone che degli animali. Per comprendere meglio le origini e le implicazioni del tropo, possiamo ripercorrere la storia, a partire dalle storie indigene, passando per la piaga della schiavitù americana fino agli stereotipi degli immigrati asiatici e alle narrazioni speciste che la caratterizzano.

La colonizzazione e l’alimentazione indigena considerata incivile Gli europei incontrarono una varietà di culture indigene nelle Americhe durante i primi periodi di colonizzazione, percependo le pratiche indigene attraverso una lente di superiorità culturale ed etnocentrismo. Le pratiche alimentari indigene (che spesso includevano la coltivazione e la raccolta di alimenti vegetali e la caccia e la cattura di animali selvatici), ad esempio, erano spesso considerate inferiori. I colonizzatori, d'altro canto, consideravano le proprie pratiche alimentari come lo standard della civiltà. “Qui iniziò il discorso coloniale di 'cibi giusti' (cibi europei superiori) contro 'cibi sbagliati' (cibi indigeni inferiori)”, scrive la dott.ssa Linda Alvarez per Food Empowerment Project. Molti gruppi indigeni in tutto il Nord America erano noti per mangiare cibi come mais, fagioli, zucca e riso selvatico, oltre a cacciare animali selvatici come i bisonti e catturarne altri come i castori. Gli europei, tuttavia, preferivano il sapore delle mucche e consideravano i cibi vegetali “cibi da carestia”. Di conseguenza, le popolazioni di bisonti furono devastate, tra il 1820 e il 1880, passando da milioni a meno di 1.000. “Gli agricoltori vedevano [i bisonti] come poco più di una specie che ostacolava i loro piani di gestire enormi allevamenti di bestiame”, scrive Shawna Gray per Sentient. “Insieme al governo, gli allevatori hanno seguito una politica violenta di decimazione delle popolazioni di bisonti, sia per spingere i popoli indigeni nelle riserve sia per liberare terreni per l'allevamento del bestiame”. L'inquadramento delle pratiche alimentari indigene come primitive e incivili ha permesso ai colonizzatori di svalutare e controllare i popoli indigeni, così come le terre e gli animali, aprendo la strada ai propri guadagni economici e territoriali. Questa demonizzazione non era semplicemente una questione di differenza culturale, ma un mezzo strategico per indebolire le culture indigene e rafforzare gli ideali europei, inclusa l'introduzione di quello che sarebbe diventato il nostro moderno e industrializzato sistema alimentare di allevamento intensivo.

Schiavitù e alimentazione razzializzata La schiavitù degli africani negli Stati Uniti ha introdotto un altro strato di pregiudizio intrecciato con stereotipi specisti e razzisti, poiché i popoli schiavizzati hanno dovuto affrontare giudizi denigratori sulle loro abitudini alimentari. Come scrisse una volta Booker T. Washington del suo periodo da schiavo, la sua famiglia riceveva i pasti come “gli animali stupidi ricevono i loro. Era un pezzo di pane qui e un pezzo di carne lì.” Le persone ridotte in schiavitù dovevano spesso sostentarsi con questi scarti di carne che, secondo Atlas Obscura, “trasformavano in piatti saporiti e soddisfacenti, ricavati dal bestiame macellato dai loro schiavisti. Uno di questi pezzi di frattaglie erano le interiora, o intestini di maiale”. Ma “senza una pulizia accurata prima della cottura, le frattaglie producono un odore orribile”, scrive Shaylah Brown in Slavery, soul food and the power of Black women. “Poiché i proprietari di schiavi pensavano che gli schiavi fossero inferiori, agli schiavi venivano date le parti dell'animale che nessun altro voleva mangiare”. A volte questo non era sufficiente. Secondo i reperti archeologici, alcune popolazioni schiavizzate integravano le loro razioni di carne di maiale e manzo catturando e mangiando piccoli animali, come procioni, tartarughe, conigli e anatre, oltre a ostriche, pesce, more e uva. Questo modo di mangiare veniva spesso usato come prova della presunta inferiorità dei popoli schiavizzati, secondo una tesi del 2016 dell'Università del Wisconsin-Madison, e per ritrarre ulteriormente le loro tradizioni come poco raffinate rispetto agli standard europei. Decenni dopo che la schiavitù non era più legale negli Stati Uniti, la narrazione di caratterizzare chiunque non fosse bianco come una specie inferiore era ancora saldamente radicata nella coscienza pubblica. I discorsi razzializzati sul cibo servivano solo a convalidare e perpetuare ulteriormente queste dure realtà della schiavitù e la continua discriminazione razziale e lo specismo che vediamo affliggere gli Stati Uniti oggi.

Immigrazione asiatica e pregiudizi xenofobi “Ho sentito il tropo razzista degli immigrati che vengono in città e mangiano gli animali domestici fin da quando ero bambina”, scrive May-Lee Chai, professoressa di scrittura creativa alla San Francisco State University, di recente su X. “Questo è un razzismo molto vecchio”. Il luogo comune deriva in parte dal fatto che in alcune culture mangiare cani è ancora legale e praticato in certe regioni. Detto questo, mentre alcuni paesi, ad esempio la Corea del Sud, sono più comunemente associati al consumo di cani, le statistiche non lo evidenziano. I dati del sondaggio del 2020 hanno rilevato che l'83,9 percento dei sudcoreani non ha mai consumato carne di cane o non lo farà in futuro. Tuttavia, lo stigma associato al consumo di cani, dovuto al fatto che è considerato culturalmente inappropriato in Occidente, è stato attribuito, senza fondamento nei fatti, a una vasta gamma di comunità di immigrati asiatici. Gli immigrati asiatici hanno iniziato ad arrivare negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, incontrando una notevole ostilità, poiché le culture asiatiche erano stereotipate e temute come “esotiche”, “barbare” e “minacciose”. Il luogo comune degli immigrati asiatici che mangiano animali domestici affonda le sue radici in questi atteggiamenti coloniali occidentali, che considerano certe cucine come intrinsecamente selvagge, perpetuando l'idea che “ti stai impegnando in qualcosa che non è solo una questione di gusto, ma una violazione di ciò che significa essere umani”, ha recentemente detto all'Associated Press Paul Freedman, professore di storia alla Yale University. L'obiettivo nel diffondere tali stereotipi, hanno detto al Washington Post Anita Mannur, direttrice del programma Asia, Pacific and Diaspora Studies dell'American University, e altri esperti, “è quello di ritrarre i nuovi arrivati come inadatti alla società americana o di suscitare disgusto nei loro confronti”. E uno dei modi per “denigrare gli asiatico-americani”, ha detto Mannur, “era quello di presentarli come 'altri' attraverso queste immaginarie abitudini alimentari: che fossero presumibilmente mangiatori di gatti, cani o topi”.

La morale della favola Mentre gli echi del dibattito presidenziale statunitense del 2024 si affievoliscono lentamente (o no), l'affermazione virale secondo cui gli immigrati stanno consumando animali domestici espone più di un semplice momento di sensazionalismo televisivo; svela una narrazione persistente radicata in secoli di razzismo e specismo. Questo tropo è così intrecciato nel tessuto della storia americana che funge da duro promemoria di quanto facilmente la disinformazione possa prendere piede, soprattutto quando alimenta stereotipi e pregiudizi esistenti.

Addio alle armi

È il pomeriggio del 20 luglio 2001, sono davanti il televisore, con lo zaino in spalla e pronto a uscire di casa. Mia madre si è chiusa in camera e non mi rivolge la parola, troppo irritata per la mia decisione di raggiungere Genova e le contestazioni al G8. Ci sarà un treno ad aspettarmi alla stazione, che durante la notte farà il suo lento percorso per portare le decine di persone al grande corteo del giorno dopo. Mentre sto per uscire dalla porta di casa, dalla TV danno una notizia drammatica: pare che sia morta una persona durante gli scontri, pare che sia un anarchico basco.

Esco di casa con questa confusa notizia, che poi si rivelerà una di quelle che oggi chiamiamo fake news, ma nel nostro paese hanno una lunga tradizione, dall’arresto di Valpreda annunciato da Bruno Vespa al TG1. Un anarchico basco, una descrizione di un militante alieno, cattivo, distante anni luce da quello che i media vorrebbero fossero i manifestanti pacifici, quelli che non se la sono cercata. Poi emergeranno tutti i dettagli, sempre dopo gli altri tentativi goffi di depistaggio, del “tu lo hai ucciso, col tuo sasso” urlato ai compagni vicini al corpo di Carlo Giuliani. Carlo, un ragazzo come noi.

Salendo su quel treno verso Genova non conoscevo ancora il suo nome. Arrivato al grande corteo ricordo il sole alto e cocente, il lungomare ampio, gli elicotteri che vennero verso di noi sparando i lacrimogeni, quelli che contenevano il gas tossico CS, combinato col cianuro. Non sapevo nemmeno questo quando mi arrivò addosso quella scatoletta di ferro nella calca di persone ammassate: mi si chiusero gli occhi e mi si fermò il respiro, per pochi secondi che sembrarono un secolo, un’eternità. Poi la fuga dalle forze dell’ordine in una città spettrale, con la gente chiusa in casa. Poi il ritorno a casa e i discorsi sull’estintore, sulle foto di Carlo col passamontagna, le litigate sulla legittimità di una rivolta, la legittima difesa del Carabiniere che aveva ucciso Carlo Giuliani sparandogli un colpo di pistola dalla sua camionetta.

L’ho presa veramente alla lontana per parlare di questo libro, Addio alle armi di Hemingway, che narra la precipitosa fuga dei soldati italiani, la disfatta di Caporetto, durante la prima guerra mondiale. In uno dei brani più drammatici di questo libro, il protagonista si trova davanti al plotone di esecuzione improvvisato per quei soldati che stanno disertando (in realtà la fuga è così caotica che è difficile distinguere chi fugge assieme alle truppe e ai comandanti da chi sta scappando via in proprio). A guidare questo plotone di esecuzione sulle rive del fiume ci sono, appunto, i Carabinieri, con i loro cappelli grandi a tricorno, sono i predecessori di Mario Placanica, l’assassino di Carlo Giuliani. Difendono l’ordine di uno Stato giovane, che ha mandato a morire centinaia di migliaia di ragazzi da tutti i posti più remoti dello Stivale per difendere dei confini che verranno tracciati con il loro sangue alla fine di quella tremenda “inutile strage”.

Lo Stato era giovane, nato nel 1861, quando bisognava ancora “fare gli italiani” ossia appiattire su un discorso unitario regioni e lingue così distanti, messe in riga da un centro di potere, la monarchia sabauda, che in fin dei conti parlava francese. Decenni dopo un erede Savoia in esilio avrebbe urlato “italiani di merda” sparando a un gruppo di ragazzi in vacanza uccidendo un povero turista in una barca. La creazione di quello Stato ha avuto un filo conduttore, l’Arma, che ha messo in riga più volte disertori e disertrici, povere, operaie e chiunque abbia avuto la forza di ribellarsi, come Carlo Giuliani, che il 20 luglio del 2001 scese tra le strade della sua città per protestare contro i potenti del mondo, perché nel cuore aveva un sentimento, una voce che gli diceva che no, le cose non dovevano continuare ad andare così.

La traversata del deserto

Cercando di dare, con tutti i miei limiti (che sono tanti) un minimo contributo personale al movimento per la Palestina, mi sono riaffacciato in questi mesi alle assemblee di movimento, che avevo abbastanza tralasciato negli ultimi tempi, pur risalendo il mio altalenante attivismo politico (se così lo possiamo chiamare, come riflettevo in uno dei post di questo blog) alle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001. Tante erano e sono le mie perplessità nel collaborare con singoli ed organizzazioni della sinistra italiana, ma di fronte ad un genocidio (mi sono detto) forse non vale la pena andare troppo per il sottile. Per cui non rimpiango di aver dato il mio seppur miserrimo contributo alla causa.

Il mio disagio però è stato costante e crescente, soprattutto nel dover ascoltare alcune affermazioni riguardanti non la questione palestinese ma la contemporanea questione del conflitto in Ucraina. Si sa che è difficile tenere le due situazioni completamente separate, perché stiamo parlando di mobilitazioni su temi di politica internazionale e conseguenti ricadute nel locale, però le considerazioni che ho sentito mi hanno lasciato davvero perplesso, per usare un eufemismo.

Ho sentito in questi mesi affermazioni quali l'esistenza pre 2022 di un Donbass sovietico, l'importanza di una lotta per l'autodeterminazione del Donbass, il genocidio ai danni del Donbass, i nazi-sionisti ucraini, la NATO che ha provocato la guerra, la Russia accerchiata, l'escalation militare voluta dall'Occidente etc. etc. Tutte cose che bene o male leggiamo da anni sui siti dei vari gruppi comunisti, anti-imper, antagonisti etc. Certo sentirle dal vivo fa un altro effetto, perché nello stesso momento magari le forze armate russe stanno bombardando un ospedale in una regione dell'Ucraina, sganciando missili su Kiev o Leopoli (a poche decine di km di distanza dalla Polonia e a migliaia di km distanza dal Donbass).

In questi mesi ho cercato di ascoltare anche la campana di vari gruppi anarchici che sono per il disfattismo e la diserzione e ci sono pure degli argomenti che potrebbero avere un loro fondamento. Però quello che non riesco a togliermi dalla testa è che tutte le ricostruzioni benevole con la Russia che leggo partono da una lettura storica del conflitto regionale che mi sembra completamente disonesta. Riassumendo, non è affatto vero che, come dice Sua Santità Papa Francesco, l'Occidente abbia abbaiato alle porte della Russia, tanto da giustificare un intervento così devastante di Putin con la sua “operazione speciale”. Tanto meno ho visto mai una reale esistenza di un movimento antifascista nel Donbass, i cui leader indipendentisti (prima di essere definitivamente cooptati nel fronte russo) furono dei criminali nazisti.

Questo mi sembra un punto decisivo per discutere della questione, perché io non credo che si possa dare una sostanziale adesione alla narrazione di Putin di un intervento necessario per sconfiggere i nazisti che avevano ostacolato l'autodeterminazione della Repubblica del Donbass. Ci sono analisi molto più complesse della mia su questo punto (ovviamente troverete anche le tesi opposte ben documentate) ma non mi sembra affatto che l'Ucraina o l'Occidente o la NATO abbiano la responsabilità di questa carneficina ancora in atto. Il governo Zelensky era accusato di essere troppo accondiscendente verso la Russia e il conflitto in Donbass era sostanzialmente in una fase di stallo. Non credo che nemmeno chi ritiene veritiero lo scenario di un Donbass antifascista possa essere d'accordo che una lotta per l'indipendenza debba comportare questo massacro avviato da Putin nel 2022.

Ulteriore capitolo, la questione politica in Ucraina e il ruolo dei nazionalisti nel periodo da Maidan ad oggi. Si è ritenuto il ruolo del famigerato battaglione Azov non solo centrale ma sufficiente per bollare un'intera nazione come Stato canaglia da purgare, come sostiene appunto Putin. Le prime proteste anti russe nacquero da un sentimento genuino contro la corruzione e contro il controllo imperialista di Mosca, ma furono subito bollate come etero dirette dall'Occidente nelle sue fasulle rivoluzioni colorate. Anche qui, non è credibile una lettura storica del genere, perché sostanzialmente l'Ucraina si è data una sua indipendenza con un referendum democratico, votato a maggioranza anche in Donbass; si è data al disarmo nucleare completo, fatto eccezionale e credo unico nella storia; si è data infine un governo che non era nemmeno troppo ostile verso Mosca, e la destra estrema era stata anche messa ai margini della politica, diversamente da dittature come quella russa. In sostanza, l'Ucraina era di fatto già un paese a suo modo neutrale nello scacchiere internazionale, solo che Mosca lo riteneva nella sua sfera di influenza, ma non così la popolazione ucraina, che ha lottato per la sua indipendenza politica dalla Russia. Prima di ogni intervento occidentale e di ogni Occidente che abbia abbaiato alle porte del sacro impero neo zarista, c'è una volontà popolare che dovrebbe essere ben riconoscibile da chi voglia vedere le cose come stanno e non abbia il preconcetto che Russia = Ex URSS quindi Donbass sovietico quindi buono.

Arriviamo a un altro punto critico, ovvero il sostegno armato da parte dei paesi occidentali a Kiev e il ruolo degli USA. Qui la situazione si fa ovviamente più vischiosa perché a nessuno piace un aumento degli armamenti, non piacciono i morti, gli eserciti e gli stati nazione. Si dovrebbe pure dire, d'altra parte, che quando la Russia ha distrutto la Siria consegnandola ad Assad (con massacri di civili, uso di armi chimiche, migrazione di milioni e milioni di siriani) e gli USA non sono intervenuti, non è che sia andata molto meglio. Certo poi la NATO, che prima dell'azzardo di Putin sembrava alquanto divisa, si è per certi versi ricompattata. Bisognava lasciare da solo l'esercito ucraino? Bisognava fare come ha fatto il sindacato italiano USB ovvero cercare di bloccare l'invio dei primi mezzi militari difensivi a Kiev? Il mancato arrivo di una contraerea serve a difendere la pace oppure a lasciare che un condominio venga raso al suolo più facilmente? A queste domande, che non reputo retoriche, ma che riguardano tuttx noi che siamo nei movimenti in Occidente, alcuni gruppi hanno risposto con una sicurezza sprezzante, alimentando il mito del Donbass socialista, in alcuni casi anche del ruolo positivo dell'asse della resistenza Russia-Iran-Corea del Nord, oppure sulla base di un pacifismo integrale.

Diversa forse è la posizione del disfattismo rivoluzionario per il quale c'è in atto uno scontro tra imperialismi, bisogna aiutare solo chi diserta e che si fottano Putin e la NATO. Questa concezione, che reputo dal mio modestissimo punto di vista forse un poco più apprezzabile di quella dei nostalgici dell'URSS, per i quali l'Ucraina può scomparire dalla cartina geografica e tutta la popolazione deportata in Polonia o in Germania o fatta sparire nella notte, ha il suo limite nel considerare Ucraina = NATO. Certo io non saprei nemmeno dire cosa riuscirei a fare in un paese in guerra, magari sarei il primo a darmela a gambe, però nemmeno considero a priori un nazista chi sta resistendo ad una invasione che ricordiamo è avvenuta non solo in Donbass ma su larga scala, sfiorando i confini di altri stati europei. Ma la mia è una considerazione personale, poi i gruppi politici devono fare le loro piattaforme e molti hanno visto nella contrarietà all'invio di armi in Ucraina un modo semplice e immediato per arrivare alla pace. Ma sarà davvero così?

Certo che sarebbe bello se domani mattina finissero i massacri (magari questo conflitto ha i giorni contati) lasciando sulla scia l'enorme mole di cadaveri e devastazione provocata dalla criminale scelta del regime russo di invadere un intero paese confinante. Mi chiedo che cosa possiamo fare noi da qui. Alcuni gruppi sparuti in Italia si sono impegnati in azioni di solidarietà e sostegno alla resistenza ucraina, ricevendo critiche per aver indirettamente sostenuto un esercito nazionale. Poi, come dicevo, c'è chi si è mosso per una vittoria della Russia, che sarebbe una catastrofe per tutta l'Ucraina e il pianeta intero.

Recentemente ho letto una risoluzione della Quarta Internazionale che mi è sembrata intelligente, per cui ne riporto qui di seguito il paragrafo intitolato “Il popolo ucraino difende il proprio diritto all’autodeterminazione nazionale”: “Con l’invasione dell’Ucraina, l’esercito di Putin ha accelerato il rimodellamento del mondo. Con la sua aggressione il regime di Putin sta riproducendo le relazioni di dominio ereditate dall’impero zarista, con qualche ammiccamento allo stalinismo e una convergenza con le ideologie di estrema destra di tutto il mondo.

A lungo termine la guerra sta infliggendo queste atrocità. La Russia continua i bombardamenti nelle aree civili, ad attaccare le infrastrutture ucraine (ferrovie, strade, scuole, ospedali, fabbriche, magazzini, ecc…) in tutto il Paese. Nelle zone occupate, gli stupri, i massacri, la distruzione di Mariupol e i bombardamenti che colpiscono i civili – che la Russia presume di “proteggere”- vanno di pari passo con la russificazione forzata: l’imposizione repressiva di passaporti russi, la distruzione della cultura ucraina, la deportazione dei bambini, ecc. ..Milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire dalle loro case o a lasciare il loro paese, lacerando le loro le famiglie e le reti sociali, trasformandoli in profughi, trasformandoli in rifugiati nei diversi Paesi.

È la resistenza popolare armata e civile all’invasione del febbraio 2022 (non voluta da Putin e dalle potenze occidentali) che ha costretto Putin a modificare gli obiettivi della sua offensiva militare che avrebbe dovuto “denazificare” l’Ucraina e proteggere le popolazioni russofone del Donbass. Il fronte di terra si è stabilizzato (inizio 2024) dopo enormi perdite umane, senza che le forze russe siano riuscite a stabilizzare il loro controllo sull’insieme dei territori russi.

In Russia e Bielorussia, coloro che osano parlare di “guerra” al posto di quella che è ufficialmente è una “operazione militare speciale”, o che esprimono la minima opposizione ad essa, vengono criminalizzati. Nel settembre 2023 la mobilitazione parziale di circa 300.000 truppe ha provocato la fuga di centinaia di migliaia di giovani – spesso privi dello status di rifugiato – mentre le loro famiglie vengono minacciate in Russia. Migliaia di civili nelle zone di confine russe sono ora vittime della guerra di Putin, sotto gli attacchi dei droni e dei proiettili ucraini.

Per ora, l’aggressione russa ha permesso il consolidamento e l’allargamento della NATO ai paesi dell’Europa orientale vicini alla Russia. Proprio per questo la sconfitta di questa invasione e della logica imperiale russa è un fattore decisivo per il successo di una campagna popolare in tutta Europa per lo smantellamento di tutti i blocchi militari: NATO, CSTO, AUKUS”.

Anche io penso che, contrariamente a quanto sostengono i campisti nostrani, una vittoria della Russia non segnerà affatto una sconfitta del blocco NATO ma semplicemente una esasperazione della contrapposizione militare e in futuro altre disgrazie per le altre popolazioni che verranno aggredite dall'imperialismo russo. Come sottolinea il documento, la resistenza ucraina è partita dalla gente, non da Washington, che avrà le sue mire imperialiste ma ha anche aiutato di fatto a non collassare tutto il fronte. Come dicevo prima, gli USA hanno voltato le spalle alla rivoluzione siriana, dando solo una mano ai curdi contro l'ISIS, e si è visto come è finita.

In conclusione, in questo mio post non ho voluto fare ragionamenti esasperati o unilaterali né tanto meno sparare proclami di guerra, che non mi appartengono, conoscendo anche i miei limiti di analisi. Quando mi arrivò la chiamata a fare il servizio militare (esisteva ancora la leva obbligatoria) feci la mia obiezione di coscienza e ricordo di essermi anche iscritto in quel periodo ad un'associazione che si chiamava AON, Associazione Obiettori Nonviolenti. Ho fatto il servizio civile ma se non fosse esistita questa alternativa (frutto delle lotte dei pacifisti italiani, da Ernesto Balducci, Don Milani, Aldo Capitini a tantissimx altrx) difficilmente mi sarei fatto i mesi di leva. Però, purtroppo, dobbiamo vivere in una realtà che è questa, una realtà che vede ancora il fascismo aggressivo militarmente e molte persone sono costrette a farci i conti e non dovremmo lasciarle da sole.

Se e quando la guerra in Ucraina sarà finita, oppure da oggi, dovremmo allora compiere una nostra traversata nel deserto, un cammino stretto tra militarismi, imperialismi contrapposti, un fascismo mondiale aggressivo, il sostegno necessario alla lotta palestinese e altre sfide improbe e direi quasi improbabili per le nostre forze. Alla fine dovremmo avere chiare le idee almeno su come contrastare i nostri nemici senza la scorciatoia illusoria del sostegno alle dittature anti occidentali, che sono la brutta copia delle democrazie imperialiste. Non sono ottimista in questo momento e non voglio terminare con nessun appello, semplicemente mi piacerebbe poter costruire delle alleanze con le persone politicamente più vicine senza dovermi trovare ad ascoltare chi inneggia a dittatori, massacri, stupri e violenze di ogni tipo, sognando il revival di una realtà sovietica che forse non è mai esistita per come la descrivono loro. In questo momento storico la fascinazione per le teorie rossobrune, complottiste, fascisteggianti etc. è molto forte, ne ho parlato qui nel blog rispetto al successo postumo di Costanzo Preve.

La lotta dell’estrema destra italiana contro vegani e immigrati

Come il cibo viene politicizzato in una cultura nota per la sua cucina. Di Gray Fuller. Fonte: https://sentientmedia.org/italian-far-right-vegans-immigrants/

In mezzo alla cucina ricca di carne, formaggio e burro del Nord Italia, un ristorante vegano a Torino è pieno di clienti. Daniela Zaccuri, proprietaria e chef di Mezzaluna, attinge alle culture culinarie di tutta Italia e del mondo per creare una cucina tradizionale italiana veganizzata. Qui troverete una fusione di cibo che va dai broccoli al curry alla torta di mele italiana. Ma negli ultimi decenni di politica e propaganda, l'estrema destra italiana ha tentato di criminalizzare la cucina vegana. In Italia, una nazione ancora macchiata dalla politica del fascismo, si sta combattendo una guerra culturale sul cibo. Dalla sua ascesa al potere nel 2022, una coalizione di partiti di estrema destra guidata dal Primo Ministro italiano Giorgia Meloni e dal Vice Primo Ministro Matteo Salvini ha trasformato il cibo in un oggetto di scena politico. Salvini, che guida il partito di destra Lega, pubblica foto e contenuti video in difesa dei suoi cibi italiani preferiti. Di recente, il politico ha dichiarato che “ora più che mai, mangiare italiano è un atto politico”. Mentre il nazionalismo cresce in Europa e in Italia, una nazione in cui l'importanza del cibo è seconda a nessuno, l'estrema destra sta consolidando ciò che conta come italiano.

Sentimento anti-vegano in Italia

L'anno scorso, l'Italia ha vietato la produzione e la vendita di carne coltivata in vitro, una mossa che probabilmente si scontrerà con le normative sul libero scambio dell'Unione Europea. In difesa del divieto, Salvini ha collegato la carne coltivata in vitro a un mercato del lavoro in declino, alla crescente burocrazia e all'immigrazione incontrollata. Ha messo insieme queste questioni e ha affermato che l'influenza e la regolamentazione dell'Unione Europea sono da biasimare per i problemi dell'Italia. Il cibo è semplicemente il sostituto per dimostrare il suo punto di vista politico. Il ministro ha persino definito la carne coltivata in vitro una delle “questioni concrete” contro cui si oppone la sua coalizione conservatrice.

Oltre a vietare quella che molti considerano un'alternativa sostenibile alla carne, sono state istituite multe di migliaia di dollari per prodotti alimentari a base vegetale con nomi come “bistecca di cavolfiore” e “prosciutto vegetariano”. Nonostante la vulnerabilità dell'Italia al cambiamento climatico, tra cui l'innalzamento dei livelli del mare che minaccia Venezia, i politici conservatori vedono il veganismo come una minaccia per la loro cultura piuttosto che una soluzione per il clima. Queste restrizioni, insieme ad altre in Francia, Florida, Alabama e Texas, riescono a criminalizzare la scelta del consumatore. Zaccuri è rimasta sconcertata dalla legge. “Penso che sia uno scherzo”, sogghigna. La chef vegana sostiene che mangiare a base vegetale può effettivamente essere italiano, offrendo la sua interpretazione della cucina tradizionale che ama. In cucina, marina le alghe per imitare le acciughe presenti nella “bagna càuda” (una salsa piccante piemontese) e prepara una maionese con latte di soia per la sua “insalata russa” (un'insalata fredda di verdure simile all'insalata di patate americana).

Mentre sia il veganismo che l'immigrazione in Italia stanno crescendo, l'estrema destra sembra accontentarsi di mantenere la sua posizione culturale. Nel 2016, proprio mentre il sindaco di Torino emanava un piano cittadino per promuovere un'alimentazione a base vegetale, un politico conservatore ha redatto una proposta di legge che avrebbe imposto la prigione ai genitori che avevano cresciuto i propri figli con una dieta vegana. La proposta di legge, che non è diventata legge, è stata proposta dopo che un tribunale italiano ha ordinato a una madre vegana di dare ai propri figli carne in un accordo di divorzio. Nel mezzo del dibattito, l'allora leader dell'opposizione Giorgia Meloni ha scattato una foto con un macellaio e ha affermato la sua solidarietà sia con gli allevatori di bestiame che con il suo partito politico neofascista, Fratelli d'Italia. “Lancia un sacco di carne rossa ai suoi sostenitori”, ironizza Diana Garvin, PhD. Garvin è professoressa di alimentazione e politica presso l'Università dell'Oregon e afferma che il Primo Ministro italiano anti-aborto, anti-gay e anti-immigrazione usa la carne per rappresentare questioni culturali più ampie e ottenere il voto degli allevatori del paese. (In America, la stessa guerra culturale sulla carne è in corso, combattuta sui campi di battaglia della mascolinità, del denaro e dell'influenza politica.) Salvini contrappone la carne italiana di produzione propria a quella che lui dipinge come la burocrazia dell'Unione Europea. Associa spesso farine di insetti e carne coltivata in laboratorio all'UE, e il suo slogan elettorale più recente è stato “Più Italia, meno Europa!”

Razzismo culinario in Italia

Nel 2019, quando l'arcivescovo di Bologna organizzò una festa per la città e servì tortellini di pollo, anziché di maiale, in modo che i residenti musulmani potessero cenare, la destra italiana si indignò. Nell'ideale di cucina italiana della destra, i tortellini sono ripieni di maiale, e la recente immigrazione non ha cambiato i piatti nazionali del paese. Parlando di immigrazione, il primo ministro Meloni ha affermato che “c'è un problema di compatibilità tra la cultura islamica e i valori e i diritti della nostra civiltà”.

Questa retorica “noi contro loro” modella il modo in cui è consentito mangiare cibo e come alcuni cibi possono persino essere resi illegali. Sulla scia dell'aumento dell'immigrazione, un'ondata di divieti sui cibi stranieri ha travolto tutta l'Italia. A partire dal 2009, la città di Lucca ha proibito l'apertura di nuovi ristoranti cosiddetti “etnici”. Da allora, città come Firenze, Verona e Trieste hanno tutte posto fine alla cucina straniera nel tentativo di proteggere quelle che considerano le proprie tradizioni culinarie. Quando la città di Venezia ha vietato di servire kebab in città, il suo sindaco ha affermato che la prelibatezza mediorientale era “non compatibile con la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale di Venezia”. Garvin immagina una scala mobile che va dall'orgoglio alla xenofobia. Secondo il professore di cibo e politica, la scala si è inclinata verso l'esclusione in Italia. C'è una sensazione, alimentata dai leader di destra, che qualcosa di fondamentale per l'identità italiana venga corrotto da estranei.

“Il cibo è un sostituto delle persone”, afferma Garvin. La conservazione della tradizione può essere un sostituto del razzismo. “Cos'è la tradizione?” ribatte Zaccuri. Per creare la sua interpretazione del cibo italiano, la chef attinge da tradizioni alimentari come il tofu cinese e il seitan giapponese, che precedono le tradizioni italiane. Prepara curry dall'India, salse dalla Thailandia. Il suo ristorante è un riflesso della fusione culturale, una realtà moderna così facilmente trascurata dai politici e dai puristi del cibo che vorrebbero tornare indietro nel tempo. In effetti, il cibo italiano è sempre stato una fusione. La pasta è stata probabilmente importata dall'Asia o dal Medio Oriente e la pizza è stata resa popolare dagli americani. Nelle loro condizioni attuali, secondo Garvin, questi piatti popolari sono in circolazione solo dalla metà del 1900. Prima di allora, i pomodori per le salse, il mais per la polenta e le patate per gli gnocchi provenivano tutti dal Nuovo Mondo. Influenzato dalle tradizioni culinarie e dagli ingredienti di tutto il mondo, il cibo italiano si sta ancora evolvendo nel presente. Il grano per la pasta della nonna arriva da lontano come il Canada, e Salvini ha ragione a chiarire che le nocciole della Nutella made in Italy provengono dalla Turchia; anche se il suo rifiuto della crema spalmabile al cioccolato e nocciole è probabilmente dovuto a pregiudizi.

Gastronazionalismo in Italia

Gianfranco Marrone, PhD, professore italiano all'Università di Palermo, studia il simbolismo e il discorso attorno al cibo italiano. Lui, come lo chef Zacurri, è scettico nei confronti della politica alimentare di estrema destra. Secondo lui, c'è qualcosa nel gastronazionalismo, che significa usare il cibo per preservare l'identità politica di un paese, che “non ha senso”. Un ministro in carica ha urlato a una folla che gli piace il maiale e che i vegani dovrebbero “superarlo”, e la più grande lobby agricola italiana ha dichiarato che “la carne in provetta cancella l'identità popolare di un'intera nazione”. Da un lato, i politici conservatori si sono preoccupati di una minoranza di italiani che, secondo loro, stanno corrompendo la cultura della nazione. D'altra parte, però, non ci vuole molto per vedere attraverso ciò che Marrone chiama la loro “identità completamente falsa della cucina italiana”.

Quando gli viene chiesto se la carne sia così centrale per l'identità italiana come sostengono alcuni politici, Zaccuri dice, “dipende dalla regione”, e l'Italia ha molte regioni, ognuna con la propria cucina. Mentre la cucina del Nord Italia è stata storicamente plasmata da piatti di carne pesanti e saporiti, il Sud segue la dieta mediterranea più vegetariana, sebbene con tanto pesce. Nel complesso, dice Marrone, “la carne in Italia ha una forte tradizione gastronomica, ma non come in altri paesi europei o in America”.

L'industria della carne e il consumo di carne in Italia

Gli italiani mangiano, in media, circa un terzo di libbra di carne in meno rispetto agli americani, che ne consumano quasi una libbra al giorno. Mangiano anche meno carne rispetto ai francesi e agli spagnoli. L'industria della carne italiana macella circa 600 milioni di animali e produce circa 4 milioni di tonnellate di carne all'anno, ma è surclassata dalla produzione americana. L'industria della carne italiana è cresciuta notevolmente dagli anni ottanta, mentre l'industria della carne statunitense, che macella circa 10 miliardi di animali e produce 48 milioni di tonnellate di carne all'anno, ha aumentato costantemente la produzione.

Mentre una ragione della recente ossessione dell'Italia per i vegani e gli immigrati che non mangiano certe carni potrebbe essere trovata all'interno delle preoccupazioni del settore, la realtà è che il fascismo, in particolare il fascismo alimentare, non ha bisogno di una giustificazione ragionevole. Il gastronazionalismo riguarda molto più il nazionalismo che la cucina; i fatti non contano rispetto a ciò che dicono i politici e a ciò che le persone sentono. Il cibo rappresenta molto di più di ciò che c'è nel piatto, e il nostro senso del gusto è così soggettivo. La cultura di un paese è plasmata dalle persone ma plasmata dalla politica, e l'estrema destra in Italia, come un presuntuoso critico gastronomico, crede di avere l'autorità di dettarla. La popolarità di un ristorante vegano fusion nel Nord Italia potrebbe spiegare perché gli estremisti di estrema destra della nazione stanno facendo del loro meglio per porre fine all'evoluzione.

“I siriani festeggiano quando i generali russi, coinvolti in crimini di guerra in Siria, vengono uccisi in Ucraina”. Intervista con Leila Al-Shami di Maria Shinkarenko.

fonte: https://commons.com.ua/en/intervyu-pro-siriyu-z-lejloyu-al-shami/

MS: Per la stragrande maggioranza degli ucraini, la Siria prima del 2011 era probabilmente solo un altro paese arabo, ma dopo l’inizio della guerra è diventata il simbolo del corso che non vorremmo vedere ripetuto in Ucraina. Cosa distingueva il regime di Assad da regimi simili in Nord Africa?

LA: Nel corso della sua storia, la risposta del regime di Assad a qualsiasi tipo di dissenso è sempre stata la repressione violenta. Negli anni ’70 ci fu un movimento contro il regime di Hafez Al Assad (il padre dell’attuale presidente). Quello che originariamente era iniziato come un movimento diversificato, ha finito per concentrarsi nella città di Hama e guidato dai Fratelli Musulmani. La risposta del regime fu quella di inviare l’aviazione e distruggere completamente la città. Tra i 20.000 e i 40.000 civili furono uccisi e altre migliaia scomparvero nelle prigioni del regime. Quando nel 2011 scoppiò la rivoluzione contro il regime, molti siriani erano ottimisti e pensavano che Bashar Al Assad avrebbe introdotto le riforme. Era al potere da un decennio e molti credevano che fosse fondamentalmente diverso da suo padre; che era un modernizzatore più rivolto all'esterno. Quando salì al potere parlò molto della necessità di riforme, concentrandosi però principalmente su quelle economiche piuttosto che su quelle politiche. Alla fine, ha risposto alle richieste del popolo nell’unico modo che questo regime conosce: terrorizzandolo fino alla sottomissione. Avendo lavorato nel campo dei diritti umani in Siria – con i prigionieri politici, durante il primo decennio al potere di Bashar, mi aspettavo che la risposta alla rivoluzione iniziata nel 2011 sarebbe stata la repressione. Anche se non mi aspettavo la portata dell’orrore che si è verificato, non ero nemmeno ottimista sul fatto che Assad si sarebbe dimesso rapidamente, come abbiamo visto fare ai dittatori in Tunisia ed Egitto. In Egitto, il regime militare era al potere e il suo volto era Mubarak. Quindi è stato facile per loro sacrificare Mubarak e mantenere i militari al potere. In Tunisia è stato simile e potevano sacrificare Ben Ali: c'era una transizione verso la democrazia, ma la vecchia classe dirigente aspettava di tornare. In Siria è un po’ diverso. In Siria il capo del regime è il regime. Il potere è fortemente concentrato nelle mani della famiglia Assad. Inoltre, il regime ha giocato la carta settaria – quella della minoranza alawita – riuscendo così a mantenere il sostegno di molte minoranze contro l’opposizione prevalentemente sunnita contro la quale era pronto a mettere in atto una violenza genocida. Inoltre, il regime ha avuto il sostegno della Russia e dell’Iran che sono intervenuti per proteggerlo.

MS: Il sostegno russo ha avuto un ruolo significativo nell’aiutare Assad nel momento più difficile per lui?

LA: Sia la Russia che l’Iran sono intervenuti per sostenere il regime nei momenti in cui era prossimo al collasso e sembrava che la rivoluzione potesse avere successo. L’Iran ha dato alla Siria un massiccio sostegno finanziario ed economico e ha inviato molte milizie a combattere in Siria, il che ha dato al conflitto una dimensione settaria, poiché le milizie sciite appoggiate dall’Iran stavano combattendo la maggioranza sunnita siriana. E l’Iran è intervenuto direttamente nel 2013, consentendo al regime di compiere progressi significativi contro l’opposizione. La Russia ha fornito aerei e bombe e fornisce sostegno politico al regime nei forum internazionali. E la Russia è intervenuta militarmente direttamente nel 2015 e ha bombardato molte parti del Paese. Se la Russia e l’Iran non fossero intervenuti, Assad sarebbe stato costretto a ritirarsi già da tempo. Sono il sostegno straniero e le bombe straniere a mantenere il regime al potere, contro la volontà della stragrande maggioranza della popolazione siriana.

MS: Quando stavo leggendo il tuo libro Burning Country: Syrians in Revolution and War, non potevo credere che una simile tragedia potesse accadere su tale scala. Vedendo gli orrori che si svolgono in Ucraina, le atrocità affrontate dai siriani diventano più tangibili per noi, quindi provo davvero empatia per il popolo siriano.

LA: Sì, è devastante. È ancora più difficile perché questo orrore è iniziato da una posizione di grande speranza e fiducia nella rivoluzione. La rivoluzione ha avuto tanti successi. Abbiamo visto, in tutto il Paese, persone auto-organizzarsi per gestire i propri affari quotidiani, istituendo consigli locali indipendenti ed eleggendo i propri membri: la loro prima esperienza di democrazia da decenni. La gente gestiva scuole, strutture idriche e igienico-sanitarie, ospedali. Fondarono giornali e stazioni radio indipendenti. Molti centri femminili furono istituiti per incoraggiare le donne a svolgere un ruolo attivo nella rivoluzione e nella vita comunitaria. Niente di tutto ciò era possibile sotto il totalitarismo di Assad, dove tutta la società civile era ridotta. Questa è sempre stata la minaccia più grande per il regime – perché dimostrava che un’alternativa democratica era possibile – ed è per questo che è stata repressa così selvaggiamente.

MS: Potresti raccontarci qualcosa della politica internazionale del regime siriano prima del 2011? Quali erano i rapporti con l’URSS durante la Guerra Fredda? In che modo ciò ha influito sul regime?

LA: La Siria aveva stretti rapporti con l’URSS durante la Guerra Fredda, anche se il regime siriano reprimeva brutalmente i comunisti. L’URSS sponsorizzò Hafez Al Assad, costruendo relazioni per espandere la propria sfera di influenza in opposizione alle potenze occidentali. Ha fornito armi, addestramento e intelligence all’esercito siriano. Molti siriani si recarono in URSS per studiare durante questo periodo. L’URSS usò questo tipo di scambio culturale come tattica per indottrinare i cittadini dei paesi alleati con la sua ideologia. Di recente ho parlato con attivisti dell’Africa occidentale e loro hanno condiviso storie simili sull’Unione Sovietica che aiuta gli africani a studiare lì. Alcuni di questa generazione di africani ora sostengono gli interventi di Putin in Africa, vedendoli come un baluardo contro l’imperialismo occidentale/francese, quindi questa tattica ha funzionato. Quando l’Unione Sovietica crollò, Hafez Al Assad fu molto veloce a rivolgersi agli Stati del Golfo e iniziò ad attuare riforme neoliberali per aprire il paese agli investitori del Golfo. Ma i rapporti con la Russia furono mantenuti e quando Putin salì al potere, volle rilanciare i rapporti con il Medio Oriente, considerandolo utile nella lotta geopolitica della Russia contro l’Occidente. Non credo che la Russia veda alcuna affinità ideologica con il regime siriano e non lo percepisca come un partner importante. Penso che il sostegno della Russia ad Assad sia stato utilizzato come un modo per contrastare l’influenza occidentale e, nel caso della Siria, la Russia è ora più influente delle potenze occidentali.

MS: Mi chiedevo anche se la Russia sfruttasse le opportunità educative per il Sud del mondo per diffondere le proprie idee. Uno dei miei medici qui a Vienna è siriano e accetta soprattutto pazienti ucraini perché parla russo. Abbiamo avuto una discussione politica e lui mi ha detto che veniva dalla Siria, quindi ci siamo scambiati la nostra solidarietà. Ma la prima cosa interessante è che è andato a studiare in Russia, dove ha imparato il russo. E poi il suo Paese sperimenta l’intervento e i bombardamenti russi. Pertanto mi chiedo: come vedono oggi la Russia i siriani?

LA: La risposta a questa domanda dipende da quali siriani chiedi. Perché i siriani affiliati al regime vedranno la Russia come un alleato, anche se anche all’interno di quel campo c’è preoccupazione per l’influenza esterna, che provenga dalla Russia o dall’Iran. Ma per il resto di noi, la maggioranza, la Russia è una potenza imperialista. È intervenuto per sostenere una dittatura fascista intenta a compiere un genocidio contro il popolo siriano. I bombardamenti aerei russi hanno distrutto gran parte del paese e hanno preso di mira specificamente le infrastrutture civili, come gli ospedali, nelle aree controllate dall’opposizione. La Russia è stata ricompensata per il suo sostegno con lucrosi contratti per petrolio e gas. Alla società russa Stroytransgaz, di proprietà di un oligarca legato al Cremlino, verrà concesso il 70% di tutti i ricavi dalla produzione di fosfato per i prossimi cinquant’anni. La Siria ha una delle più grandi riserve mondiali di fosfati. Sono state istituite basi militari russe e le festività nazionali russe sono ora “celebrate” in Siria. Il sostegno che la Russia dà al regime non è solo militare, ma anche politico. Ad esempio, sulla scena internazionale, la Russia svolge in Siria lo stesso ruolo che gli Stati Uniti svolgono per Israele. Qualsiasi mozione portata davanti al Consiglio di Sicurezza o davanti agli organi delle Nazioni Unite è sempre sottoposta al veto della Russia. La Russia offre quella protezione politica per fermare qualsiasi mezzo di responsabilità internazionale o per portare avanti un accordo di pace che non sia nei termini del regime. La Russia è stata molto attiva nel cercare di garantire “accordi di pace”, ma non si tratta di veri e propri accordi di pace. Stanno cercando di forzare la capitolazione dei siriani ai termini del regime.

MS: Hai detto che ci sono diversi siriani e persone con opinioni diverse. E la Siria oggi è in gran parte associata allo jihadismo e alla lotta settaria di tutti contro tutti. Ma la rivoluzione siriana è iniziata come una protesta democratica di massa che di fatto ha unito cittadini di diverse origini etniche e confessioni. Quindi, quanto dell’attuale frammentazione e settarismo della lotta è dovuto alle politiche del “divide et impera” del regime, agli jihadisti e all’incapacità dell’opposizione democratica di trascendere realmente i pregiudizi e le meschine ambizioni di una più ampia solidarietà?

LA: Giusto per essere chiari sulla struttura del regime: la famiglia Assad proviene dalla setta Alawi, che è una minoranza in Siria. La maggioranza della popolazione è musulmana sunnita, ma ci sono anche sciiti, cristiani, drusi e altri. Quando iniziò la rivolta, si trattava di un movimento molto diversificato. Comprendeva uomini e donne di ogni estrazione sociale, di tutti i diversi gruppi religiosi ed etnici. Ci sono stati molti tentativi per non cadere nel settarismo. Durante le proteste le persone chiedevano l’unità di tutti i siriani, brandendo cartelli e striscioni che lanciavano appelli alle comunità minoritarie, ecc.

Naturalmente, un forte movimento democratico e non settario rappresentava la più grande minaccia per il regime di Assad perché avrebbe potuto ottenere sostegno a livello internazionale. Quindi il regime di Assad ha dovuto settarizzare e islamizzare il conflitto. E lo ha fatto molto deliberatamente: un’ingegneria settaria, per così dire. Ad esempio, nel 2011-2012, quando il regime radunava e deteneva tutti questi manifestanti pacifici a favore della democrazia, ha rilasciato molti estremisti islamici dal carcere. E molti di quelli rilasciati finirono per guidare alcune delle brigate più intransigenti che esistessero. Ad esempio, Hassan Aboud, uno dei fondatori di Ahrar al-Sham, è stato rilasciato, e Zahran Alloush, l'ex leader di Jaysh al-Islam, così come persone che sono diventate grandi figure di Jabhat al-Nusra, che era l'Al -Affiliato di Qaeda e anche dell'ISIS. Il motivo per cui il regime lo ha fatto è stato quello di inviare un messaggio sia al pubblico esterno che a quello interno. Dall'esterno voleva dire: guarda, questa fa parte della guerra al terrorismo, stiamo combattendo gli estremisti islamici, potrei non piacerti, ma questi ragazzi con la barba sono dieci volte peggio. Internamente, stava inviando un messaggio ai gruppi minoritari, alla comunità alawita, ai gruppi cristiani: ripeto, potrei non piacervi, ma l’alternativa è peggiore, e se questi estremisti islamici saliranno al potere, le minoranze non saranno sicuro. Quindi è stata una tattica che ha funzionato sia a livello interno che a livello internazionale. Il regime ha anche creato conflitti settari inviando bande armate di gruppi alawiti noti come Shabiha nelle comunità sunnite per compiere massacri. L’idea era quella di provocare una risposta e di convincere le comunità sunnite ad entrare nelle comunità alawite e sciite e a commettere massacri. E a volte funzionava, c'era una ritorsione. Ma esattamente come dici tu, è una politica del “divide et impera”. E purtroppo oggi ci sono molti gruppi minoritari che non necessariamente sosterrebbero il regime, ma si sentono più sicuri a stare dalla parte del regime piuttosto che dall’opposizione. E col passare del tempo, soprattutto a causa dell’intervento dell’Iran, il conflitto è diventato sempre più settario.

MS: In che modo la militarizzazione ha influenzato la rivoluzione? C'erano alternative?

LA: Innanzitutto, penso che sia importante riconoscere che la militarizzazione era inevitabile. Il regime ha utilizzato la violenza di massa contro coloro che si opponevano e le persone hanno dovuto difendere se stesse e le proprie comunità. È diventata una lotta per la sopravvivenza. I metodi pacifici di lotta sono inadeguati quando un regime è pronto a utilizzare tattiche di sterminio contro una popolazione civile. Ma la militarizzazione porta con sé tutta una serie di problemi. Mette da parte gli attivisti civili, coloro che lavorano nelle loro comunità, che sono la spina dorsale della rivoluzione. Dà potere ai signori della guerra e ai gruppi autoritari e consente alle potenze straniere (che forniscono armi) di influenzare il movimento – sempre in un modo che serva i loro interessi, non quelli dei rivoluzionari. C’era sempre un’alternativa – quella di fornire sostegno all’opposizione democratica – coloro che stavano costruendo alternative al regime nelle loro comunità, anche sotto i bombardamenti selvaggi. Se queste persone avessero ricevuto la solidarietà che meritavano, l’aspetto militare non sarebbe diventato così dominante e la resistenza civile avrebbe avuto più forza.

MS: Qual è il ruolo della sinistra nella rivoluzione siriana? So che ci sono molte voci di spicco come Yassin al-Haj Saleh, Riyad al-Turk, Omar Aziz. Cosa puoi dire della sinistra?

LA: Non c’era una sinistra ampia, indipendente e organizzata in Siria per due ragioni. In primo luogo, il regime di Assad ha represso tutti gli esponenti della sinistra indipendente, che sono finiti in prigione o sono fuggiti dal Paese. Il regime ha poi cooptato un’ampia sezione della sinistra tradizionale, il Partito Comunista Siriano, che in seguito si è unito al governo nel Fronte Nazionale Progressista. Si tratta di una coalizione di diversi partiti, ma nel complesso è solo un'immagine senza alcuna reale partecipazione: tutto è controllato dal partito Ba'ath e dal presidente. In secondo luogo, la struttura dell’economia siriana è stata un fattore determinante nell’assenza di sindacati e nella formazione di una cultura e di una politica della classe operaia, poiché la maggior parte dei luoghi di lavoro sono piccole imprese a conduzione familiare. Quindi non c’era davvero una base di sinistra forte, indipendente e organizzata da cui partire, a parte il partito di Riad Al-Turk che si separò dal Partito Comunista Siriano e alcuni altri partiti curdi più piccoli che furono perseguitati. Quando scoppiò la rivoluzione, molti giovani di sinistra che facevano parte del Partito Comunista Siriano si dimisero e si unirono alla rivoluzione. Erano molto espliciti nel dire che i loro presunti compagni di sinistra (sia in Siria che a livello internazionale) avevano tradito i siriani e la lotta popolare. Ci sono una serie di piccoli gruppi indipendenti e poi individui influenti come lo scrittore e intellettuale Yassin Al Haj Saleh e Omar Aziz, che era l'ideologo dietro l'idea dei Consigli locali istituiti per autogovernare il territorio detenuto dall'opposizione. Omar Aziz finì per essere arrestato e morì in prigione, mentre Yassin Al Haj Saleh fuggì dal paese e ora vive in esilio.

MS: Pensi che questa situazione della sinistra non organizzata in Siria possa essere la ragione della mancanza di solidarietà e sostegno alla rivoluzione siriana da parte della sinistra americana ed europea?

LA: Potrebbe essere un fattore. Ma anche la semplice ignoranza è un fattore. Ad esempio, alcuni anni fa sindacalisti e esponenti della “sinistra” di tutto il mondo hanno intrapreso una missione di solidarietà in Siria a sostegno del regime. Sembrano essere completamente inconsapevoli del fatto che la sinistra indipendente viene repressa e che i sindacati indipendenti non esistono! La sinistra occidentale nel suo insieme non è riuscita a sostenere i siriani nella loro lotta per la libertà. In parte ciò è dovuto al problema del “campismo” che è diventato dominante nel pensiero di sinistra. Questi cosiddetti “antimperialisti” credono che le uniche potenze imperialiste siano gli Stati Uniti e l’Occidente, ma non riescono a vedere che esistono effettivamente altri imperialismi, come la Russia e l’Iran. Hanno quindi sostenuto il regime, vedendolo, erroneamente, come un baluardo contro l’imperialismo occidentale. Non sono riusciti ad ascoltare le voci siriane sul posto e hanno diffuso ogni sorta di disinformazione su ciò che stava accadendo, negando persino che i massacri chimici fossero stati compiuti dal regime e assolvendolo da ogni responsabilità.

MS: Sembra molto familiare nel contesto ucraino. Anche i sostenitori della rivoluzione siriana di solito esprimono solidarietà ai palestinesi e tu hai anche firmato una lettera a sostegno di Gaza. Qual è il rapporto tra i sostenitori di una Siria democratica e i palestinesi, soprattutto considerando che parte della sinistra palestinese è impegnata nel campismo?

LA: Dal 7 ottobre abbiamo assistito a tanti tentativi da parte dei siriani di raggiungere i palestinesi e mostrare solidarietà. Non solo dichiarazioni, ma durante le regolari manifestazioni del venerdì contro il regime, le persone portano bandiere palestinesi e hanno decorato i muri con murales a sostegno della Palestina. Nella città di Idlib hanno ribattezzato una piazza centrale Gaza Square e l'hanno decorata con la bandiera palestinese. I siriani sentono molta affinità con il popolo palestinese. Siamo collegati, storicamente, poiché persone provenienti da Palestina, Siria, Giordania e Libano erano tutte unite a Bilad al Sham, la nostra cultura è molto simile. Inoltre, l’occupazione della Palestina è una questione centrale per arabi e musulmani, a causa della portata dell’ingiustizia in quel paese e perché i nostri regimi hanno utilizzato la causa palestinese come un modo per rafforzare il sostegno tra le loro stesse popolazioni. Anche i palestinesi sono solidali con i siriani dallo scoppio della rivoluzione – l’ho visto io stesso, soprattutto tra la gente di Gaza quando ero lì. Tuttavia, ci sono anche molti palestinesi che sono caduti nella politica campista. Molte voci di spicco sulla Palestina, soprattutto tra i popoli occidentali, hanno calunniato e screditato la rivoluzione siriana, sostenendo essenzialmente il regime. Nelle proteste per la Palestina che si stanno svolgendo nei campus statunitensi vediamo persone che tengono la bandiera della milizia libanese Hezbollah, sostenuta dall’Iran, che la vede come parte della resistenza a Israele. Hezbollah ha partecipato attivamente al genocidio contro i siriani – ha attuato assedi di fame contro le comunità dell’opposizione simili a ciò che Israele sta facendo ora a Gaza. Questi non sono alleati per la liberazione. La nostra solidarietà deve basarsi su principi comuni e non su quali Stati partecipano a un conflitto. Deve basarsi sulle lotte delle persone per la libertà e la giustizia sociale, altrimenti non ha senso. Come diceva la dichiarazione dei rivoluzionari siriani a sostegno della Palestina a cui hai fatto riferimento in precedenza: “La solidarietà reciproca e intersezionale è essenziale, le nostre lotte sono una, la nostra libertà dipende ciascuna dalla libertà dell’altro”.

MS: Potresti dirci qualcosa di più sul campo della sinistra araba?

LA: Tradizionalmente ci sono tre principali correnti politiche nel mondo arabo; Islamismo, arabismo/nazionalismo e sinistra. Molti che crescendo non si sentivano rappresentati dall’islamismo o dall’arabismo dei regimi nazionalisti (come i gruppi minoritari in Siria) sono diventati di sinistra. C’è una divisione simile in ciò che si vede nella sinistra globale. La tradizionale sinistra araba è caduta in una politica campista simile, in cui l’imperialismo statunitense e Israele sono il nemico supremo. Molti di questi hanno sostenuto la dittatura di Assad, considerandola parte dell’“asse della resistenza”. Naturalmente c’erano sempre delle eccezioni, coloro che erano di sinistra antiautoritari, come quelli del Partito Comunista di Riad Al-Turk di cui abbiamo parlato prima e che lottavano per la democrazia e le libertà civili. Tuttavia c’è anche una nuova generazione che è cresciuta dalle rivoluzioni e ha un’analisi molto più sofisticata che corrisponde alla realtà del mondo in cui viviamo – una generazione di imperialismi in competizione e che si oppone a tutti gli oppressori e sostiene tutte le lotte per dignità. Ho molta speranza in questa nuova generazione, anche se abbiamo vissuto una violenta controrivoluzione e attualmente siamo sconfitti, disorganizzati e traumatizzati.

MS: Che effetti ha avuto la guerra russo-ucraina sulla Siria?

LA: C’è stata così tanta solidarietà e sostegno da parte dei siriani verso gli ucraini, e viceversa, è stato bello da vedere. Penso che ci identifichiamo molto con le lotte degli altri per una serie di ragioni. Entrambi abbiamo un nemico comune nello Stato russo, entrambi abbiamo attraversato rivolte popolari prima di entrare in una situazione di conflitto ed entrambi abbiamo dovuto affrontare alcune delle politiche campiste di cui abbiamo parlato – in cui le nostre lotte sono state screditate. e i nostri nemici hanno sostenuto. Questo, e il nostro trauma collettivo, ci hanno uniti. Molti siriani si sono recati in Ucraina in missioni di solidarietà e, all’inizio del conflitto, si sono rivolti per dare consigli pratici, ad esempio su come proteggersi dagli attacchi del “doppio tocco”, che è la tattica preferita utilizzata dalla Russia per uccidere il maggior numero di persone più civili possibile (dopo un bombardamento, la Russia bombarda nuovamente la zona una volta che i soccorritori sono entrati). E ho avuto modo di conoscere molti ucraini grazie alla loro solidarietà con la Siria. I siriani festeggiano quando vedono i generali russi, precedentemente coinvolti in crimini di guerra in Siria, essere uccisi in Ucraina: per noi è un piccolo assaggio di giustizia. Ci auguriamo che un giorno l’Ucraina sia libera dall’imperialismo russo, così come speriamo che lo sia anche la Siria. Ma a livello più ampio, la guerra russo-ucraina non ha colpito così tanto la Siria. La Russia ha dovuto ritirare alcune truppe dalla Siria per trasferirle in Ucraina, ma non ha fatto molta differenza visti i tempi, quando la maggior parte delle grandi battaglie erano già finite.

MS: Cerchiamo di dimostrare nel discorso globale perché è importante sconfiggere la Russia, in particolare perché l’Ucraina non è il primo paese ad essere attaccato. Prima c'erano la Siria, la Georgia, la Cecenia. Quindi si potrebbe circoscrivere un modello di invasione. In questo modo potremmo costruire solidarietà attorno alla tesi antimperialista secondo cui difendere e aiutare l’Ucraina implica difendere e aiutare la Siria e viceversa. Credi che questa cosa stia succedendo?

LA: Dobbiamo assolutamente portare avanti questo approccio: c’è una tale assenza di comprensione della Russia come potenza imperialista, non solo oggi ma storicamente. C'è una totale mancanza di conoscenza tra gli occidentali del ruolo storico della Russia; basta guardare la mappa delle dimensioni della Russia per sapere che questo è uno stato creato dalla conquista coloniale. A meno che non mettiamo in discussione la visione del mondo delle persone – secondo cui il mondo occidentale è al centro di tutto – non saremo in grado di rispondere ad alcune delle sfide che attualmente affrontiamo a livello globale. Dall’esterno sembra che la rivoluzione siriana sia una causa persa, ma nell’agosto dello scorso anno si è verificata una nuova ondata di proteste nel sud della Siria.

MS: Come valuti la situazione attuale e le speranze che Assad possa finalmente essere rovesciato?

LA: Nelle parti del Paese che non sono sotto il controllo del regime di Assad, come la provincia di Idlib e parti della Siria settentrionale, le proteste settimanali contro il regime continuano dal 2011 ad oggi. Ciò dimostra che le persone non hanno ancora rinunciato ai valori e alle richieste della rivoluzione. Da agosto è in corso una rivolta nella provincia meridionale di Sweida. Ciò è interessante perché Sweida è una popolazione a maggioranza drusa e la sua gente ha adottato una posizione di neutralità quando è iniziata la rivoluzione. Non si unirono alla rivoluzione, ma non si schierarono nemmeno con il regime. Tuttavia, le condizioni di vita sono peggiorate notevolmente negli ultimi anni poiché l’economia è crollata e questo ha portato la gente a scendere in piazza per protestare. E ora chiedono chiaramente la caduta del regime e si identificano con altre aree della Siria che lottano per la libertà – sentiamo canti di solidarietà con Idlib e viceversa – e ci sono stati molti assalti agli uffici del partito Baath al potere e a posizioni di regime. Trattandosi di un gruppo minoritario, il regime non ha risposto con le violenze di massa e gli arresti che abbiamo visto altrove nelle aree a maggioranza sunnita – per le ragioni di cui abbiamo parlato prima – perché il regime vuole presentarsi come un “difensore delle minoranze” – quindi le proteste sono continuate fino ad oggi. Anche nel nord della Siria negli ultimi mesi è in corso una rivolta contro Hayat Tahrir Al Sham, che formalmente era Jabhat Al Nusra. Si tratta di una milizia islamica autoritaria che detiene molto potere e governa parti del nord-ovest del Paese. È molto chiaro che i siriani rifiutano ogni forma di autoritarismo, sia che si tratti del regime o di qualsiasi altro gruppo. La lotta è ancora per la libertà e la democrazia.

MS: Per tanti anni hai scritto della rivoluzione siriana, che sembrava sempre più senza speranza. Mi si è spezzato il cuore quando ho letto il tuo libro perché sembra che non ci sia nulla che si possa fare, e inoltre i siriani non hanno tanto sostegno sulla scena internazionale quanto la Palestina, per esempio, o l'Ucraina. Come fai a sopravvivere personalmente a tutti questi anni senza disperare?

LA: Penso che gli ucraini abbiamo bisogno di approfondimenti di questo tipo. Gli ultimi anni sono stati davvero traumatici per i siriani. Il nostro Paese è stato distrutto e i nostri cari sono stati detenuti, uccisi o sfollati. Coloro che sono in esilio affrontano ostilità, violenza e persino la minaccia di un ritorno forzato in Siria. E ora il mondo si sta normalizzando con il tiranno che ha creato la nostra miseria. A volte è difficile avere la forza di continuare a lottare, ma cosa possiamo fare? La situazione continua e dobbiamo farlo anche noi. I siriani sul posto non hanno abbandonato la loro lotta. Quindi noi che siamo fuori dobbiamo continuare a sostenerli, per sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che sta accadendo in Siria. Abbiamo il lusso della distanza e dello spazio per respirare. E, cosa più importante, siamo in grado di organizzarci, di costruire connessioni con persone in lotta altrove – come stiamo cercando di fare con questa conversazione. Negli ultimi quindici anni ho stretto contatti con persone provenienti da tutto il mondo. Molti di loro si sentono esclusi dal discorso dominante della sinistra per molte delle ragioni di cui abbiamo parlato. Questo mi dà molta energia, per connettermi con gli altri, per lavorare in comunità con persone che la pensano allo stesso modo, per cercare di costruire una nuova visione per l’internazionalismo, tra quelli delle periferie, una visione che si concentri sulle persone, non sugli stati e sia contro tutti gli autoritari e tutti gli imperialismi. Speriamo che in futuro potremo costruire un nuovo movimento insieme.

L'anno in cui smisi di seguire il pallone

A gennaio 2024 inviai una email ad alcuni giornali sportivi locali:

“Gentile redazione, vorrei esprimere con questa lettera aperta tutta la mia contrarietà e indignazione per l’acquisto del calciatore Jerome Boateng da parte della Salernitana. L’ex Nazionale tedesco, come è noto, è stato condannato per lesioni aggravate nei confronti della sua ex compagna Sherin Senler. Recentemente su tutti i campi di calcio si è svolta una giornata contro la violenza sulle donne: tutti i calciatori hanno mostrato un segno rosso sul viso e molte tifoserie, tra cui quella di Salerno, li hanno seguiti nel gesto simbolico. Ma le istituzioni, calcistiche e non, sono spesso ipocrite riguardo queste e altre tematiche, basti vedere che il calciatore della Reggiana condannato per stupro, Portanova, gioca in serie B: i tifosi hanno detto che aspettano la sentenza della Cassazione per giudicarlo, mentre un radiocronista sportivo della Rai dopo un suo gol ha esclamato «Un gol meraviglioso da parte di Portanova che mette a tacere le polemiche». Non penso che dobbiamo aspettare i tribunali di Stato per condannare e combattere contro la violenza di genere: le femministe in tutto il mondo urlano “sorella io ti credo” e io voglio ascoltare la loro voce piuttosto che quella di un giudice. La violenza maschile e l’oppressione di genere, le violenze contro donne, persone trans, asessuali etc. sono parte di un sistema radicato che si regge anche sui silenzi, le omertà, le pacche sulle spalle e la tacita comprensione o condivisione. In una trasmissione radio di Salerno la settimana scorsa un ascoltatore ha ricordato la violenza di Boateng e un noto giornalista ha risposto “chi se ne frega”. Ecco, io penso invece che deve fregarcene qualcosa, non dobbiamo poi essere ipocriti, metterci il segno rosso sulla guancia una volta l’anno e poi fare finta di niente. Da tifoso della Salernitana vorrei che i calciatori onorassero la maglia dentro e fuori il campo”

La lettera non venne pubblicata su nessun sito, anche se una redazione mi rispose dicendomi sostanzialmente che aveva letto con interesse la mia legittima opinione e che avrebbe informato i suoi lettori sugli sviluppi della vicenda. Pochi giorni dopo dallo sciagurato acquisto di Boateng, ce ne fu un altro ancora peggiore, quello dell'israeliano Shon Weissman, che aveva inneggiato su Twitter allo sterminio dei palestinesi a Gaza. Anche qui ho cercato di dire la mia, riscontrando prevalentemente lo stesso disinteresse e omertà che avevo visto rispetto a Boateng. Weissman era stato contestato duramente in Spagna, dove giocava, messo praticamente ai margini per un atto vigliacco, quello di chiedere al suo esercito di compiere un genocidio: nei mesi successivi al 7 ottobre 2023 le sue richieste sono state esaudite, perché Israele ha compiuto decine di migliaia di omicidi nella Striscia di Gaza.

Questi due eventi mi hanno allontanato dal mondo del calcio, che ho seguito con passione per decenni. In definitiva penso una cosa: il nostro mondo è costruito dagli effetti di tanti piccoli “ma chi se ne frega” come quello detto dal giornalista di cui sopra. Un genocidio e la violenza di genere non possono essere messi in secondo piano dietro un pallone. Per me è una questione di priorità, poi ognuno nella vita compie le scelte che si sente di fare.

Il sorriso segreto dell'essere

Ho approcciato il testo di Mauro Bergonzi (“Il sorriso segreto dell'essere. Oltre l'illusione dell'Io e della ricerca spirituale”) con curiosità ed interesse, convinto che potesse darmi delle indicazioni su un cammino di spiritualità originale. Non mi sarei mai aspettato però di leggere progressivamente, allo scorrere dei suoi capitoli, una così forte messa in discussione degli aspetti fondanti della lettura individuale della realtà che ci circonda.

Nelle pagine del libro si parte infatti da un esame del concetto di non dualità nei vari cammini spirituali, si arriva infine a concepire questa unitarietà della realtà come una destrutturazione del concetto stesso di coscienza individuale. Questo slittamento è ben raccontato da Bergonzi con precisi e puntuali riferimenti alla tradizione spirituale più antica così come alle scoperte scientifiche più innovative e recenti. Un punto decisivo del testo riguarda l’inutilità della ricerca di una perfezione del cammino spirituale: non c’è bisogno di seguire un guru per arrivare all’illuminazione, perché la realtà dell’Unità che ci circonda non è alla fine della ricerca, ma è appunto intorno a noi sin dal principio.

Tutte le manifestazioni più intense di amore che segnano le nostre vite sono, dunque, proprio un momento nel quale sentiamo più vividamente la nostra appartenenza a un Tutto. L’amore è questa nostalgia dell’Unità a cui apparteniamo. Tutto lo sviluppo coscienziale dell’individuo, concepito come singolarizzazione separata, rischia di diventare un equivoco se non tiene conto del fatto che la nostra coscienza non risiede nel cervello, come ipotizzava la filosofia cartesiana e come è percepito comunemente tutt’oggi, ma sia qualcosa di più grande della nostra esperienza personale, qualcosa che non possiamo contenere né qualcosa da cui possiamo fuggire.

In definitiva, il libro di Bergonzi mi ha suscitato una forte emozione perché non mi aspettavo di riflettere su una tale linea interpretativa del reale. Resta alla fine in me l’idea che questa lettura apra degli scenari davvero misteriosi, direi anche “inquietanti”, in senso letterale, su cui meditare in futuro.

Lo spazio necessario

Ho fisso in mente il momento in cui si diffuse Facebook tra le mie conoscenze. Meglio ancora, ricordo quando nel 2008 si diffuse nella mia città proprio come si diffonde una pandemia, un virus incontrollabile. Mi viene in mente la scena del film sui dieci comandamenti (I dieci comandamenti, film statunitense del 1956 con Charlton Heston, regia di Cecil B. DeMille), quando la terribile piaga biblica colpisce le case degli egiziani bussando silenziosamente e infettando a morte i primogeniti. Ero a casa di un mio amico, mi affacciai al balcone e immaginai in quante abitazioni e in quanti dispositivi fosse entrata la piaga di Zuckerberg. Dopo un poco di tempo e un po’ di tira e molla, ne sono uscito: sono tra i pochi che non hanno Facebook, che nei successivi tredici anni avrebbe raggiunto l’inimmaginabile cifra di due miliardi e mezzo di utenti. I motivi di questa mia diserzione sono poi stati evidenziati nel corso degli anni da parte di decine e decine di studiosi, che hanno portato alla luce quello che istintivamente mi sentivo addosso aggiornando il profilo, postando e accettando amicizie: i social network sono dannosi, fanno male.

Alla fine del suo lungo libro sul capitalismo della sorveglianza, Zuboff conclude la sua forte denuncia contro le multinazionali del web (Google in primis e poi i vari social network e gli attori del mercato mondiale dei dispositivi tecnologici) postulando la necessità di un “santuario”: uno spazio mentale isolato e liberato, a disposizione della coscienza di ognuno, oltre e fuori dal dominio degli algoritmi di internet. Questi algoritmi, secondo la studiosa americana, stanno mettendo in pratica la distopia skinneriana di un mondo senza più libero arbitrio, con gli individui schiavi delle necessità del profitto delle multinazionali, profitti ottenuti mediante l’innesco di meccanismi mentali per cui rinforzi e rilasci di dopamina ci portano dove vogliono i social e le big tech dietro di loro. Per quanto il lavoro di Zuboff sia criticabile su molti aspetti, messi ben in risalto da E. Morozov (https://lapiega.noblogs.org/post/2020/05/20/i-nuovi-abiti-del-capitalismo/), e corra il rischio di essere troppo riduzionista, patologizzante e slegato dai rapporti sociali, nondimeno ci presenta dei fattori che, nel contesto di totalizzazione del rapporto di capitale odierno, risultano operativi e potentemente dispiegati.

C’è tutta una letteratura ormai a riguardo, per cui sintetizzo il discorso utilizzando una citazione dall’ottimo lavoro di Cisti, istanza del social network federato Mastodon: un social network commerciale porta ogni individualità su di un unico piano, dove poi il contenuto più rumoroso si impone sulla collettività. Questo porta il bisogno di soddisfare chiunque sia nella nostra rete che produce quel senso di insoddisfazione e depressione nell’esprimere se stessi. Infatti siamo consci del fatto che l’uso di queste piattaforme produce comportamenti dannosi e ampiamente studiati, tra cui: – Fear of missing out: provare una profonda paura e fastidio all’idea che succeda qualcosa online mentre non siamo collegati. Letteralmente sentirsi “fuori dal loop”.– Notification trough: un senso di straziante e dolorosa anticipazione nel momento tra cui si posta qualcosa di personale o creativo online e i primi like, commenti e condivisioni.– Newsgoggles: consumo incontrollato di notizie di tragedie senza un vero impatto emotivo o psicologico. – Unbored never alone: costantemente connessi, mai annoiati. Come fa notare Mark Fisher in Realismo capitalista, una delle spinte che hanno portato alla genesi del punk è stato proprio quel sentimento di noia, come molti testi ci gridano a squarciagola, quella voglia di esprimere se stessi oltre la coltre di grigiore che ci circonda. I social invece attraverso lo stimolo continuo ci fanno proprio affogare in quel clima di mediocrità che ci porta ad appiattire sempre i nostri dibattiti. – Info-dependency: dipendenza psicologica dal continuo impatto di nuove informazioni. Spesso si presenta insieme a una fuga dalle dinamiche naturali che non sono altrettanto stimolanti (quotidianità, scuola, etc). Questo si lega genericamente a una visione consumista dell’informazione, che va di pari passo alla digestione di contenuti di qualità sempre più infima. – Ampulsivity in everyday life: gli impulsi umani sono spesso limitati o negati dalle opportunità, tempo e spazio. Online gli impulsi non hanno questi limiti e possono essere immediatamente tradotti in azioni. Questo può portare a comportamenti fortemente modellati dalle pulsioni amplificate digitalmente.– Le dinamiche di interazione sulla piattaforma producono delle aspettative nel “mondo reale” che non possono essere soddisfatte. Quando questo accade seguono inevitabilmente ansia, impazienza, rabbia e frustrazione. – Swarm mindset e “inversione”: i bot sembrano umani e gli esseri umani si appiattiscono a dei bot. Del resto se per le corporazioni è necessario tenerci incatenati alle loro piattaforme, esse devono anche fare in modo che i nostri dati, le nostre abitudini e ogni nostra espressione sia quanto di più comprensibile ai loro algoritmi, che ovviamente ha come risultato di renderci prevedibili come bot. Al tempo stesso le intelligenze artificiali affinano sempre di più le loro capacità di previsione, rendendosi quindi sempre più simili ad umani molto ripetitivi. (da https://mastodon.cisti.org/about/more )

Appare chiaro che le varie piattaforme vogliono tenerci dentro le loro scatole skinneriane (https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber ) per fare facili e immensi profitti, per accumulare i quali creano un circuito funzionante e inesorabile di dipendenza: più contenuti produciamo più le piattaforme accumulano dati, dati che serviranno per vendere pubblicità personalizzate agli inserzionisti, e così via, nell’ormai arcinoto meccanismo economico che ha fatto la fortuna delle aziende della Silicon Valley. Jaron Lanier è stato uno degli artefici della creazione di queste tecnologie ed è uno dei pionieri della realtà virtuale. Dopo anni di lavoro nelle maggiori aziende high tech, pur restando interno a questo mondo, sta raccontando cosa c’è dietro, come funziona questo grande esperimento su larga scala di cui noi saremmo le cavie :

“in breve, dice Lanier, il sistema di feedback nei social sta creando un loop di punizione e validazione sociale che fa leva sulle nostre vulnerabilità per manipolarci a piacimento. Si tratta di meccanismi ‘sostanzialmente additivi’, perché inducono a rincorrere il piacere della ricompensa, mentre la punizione e il rinforzo negativo rinnovano continuamente la paura di non essere abbastanza.” (https://www.che-fare.com/social-liberta-jaron-lanier/)

Una cosa molto indicativa ed emblematica, quasi ironica, di questo grande “esperimento”, sta nel fatto che i leader delle corporation, gente come Jack Dorsey o lo stesso Steve Jobs all’epoca, si tengono bene a distanza dal frutto della loro fortuna, magari vietando l’uso di internet ai propri figli, facendo meditazione e disinteressandosi dei social network, vivendo una vita rilassata e offline mentre noi ci accapigliamo nei flame su Twitter e Facebook. La cosa su cui, in conclusione di questi brevi appunti, mi preme comunque ragionare, riguarda la ricaduta politica e collettiva di tutto ciò. La stragrande maggioranza dei gruppi politici e delle singole individualità che fanno politica oggi utilizzano infatti i social network: vi sono entrati anni fa con la consapevolezza che fosse necessario per parlare a una grande massa di persone.

Ogni tanto, quando Facebook chiude una pagina di qualche gruppo politico, si torna a parlare della contraddizione tra le pratiche dei movimenti alternativi e il loro uso (che si vuole solo strumentale) dei social network commerciali. Poi, passato lo “scandalo” momentaneo, tutto torna come prima e i compagni riprendono a insultarsi sotto i post e a fare a gara di like per le proprie pagine. Prima abbiamo visto sinteticamente e rapidamente quali sono gli effetti negativi che i social media producono sull’individuo, parimenti si dovrebbe cominciare a parlare delle conseguenze nefaste che essi hanno avuto in questi anni sulla politica “a sinistra” nei vari movimenti. È innegabile che ci sia stato un ulteriore adeguamento alla politica spettacolare, alla ricerca di un consenso quantitativo, ottenuto peraltro con le stesse tecniche del marketing. Abbiamo visto crescere a dismisura il rafforzamento di pratiche verticistiche e in ultima analisi violente nei gruppi: chi decide cosa pubblicare su Facebook, chi ha le password, chi amministra i gruppi, chi fa un evento…

Si potrebbero fare mille esempi di esperienze politiche arenatesi nell’uso distorto dei propri strumenti di comunicazione, che da semplici strumenti si sono trasformati nel principale, se non unico, momento di attivismo politico. Gilles Deleuze scriveva che

“le forze repressive hanno sempre bisogno di Io su cui contare, di individui determinati su cui esercitarsi. Quando diventiamo un po’ sfuggevoli, quando ci sottraiamo all’assegnazione di un io, quando non ci sono più uomini su cui Dio possa esercitare il suo rigore o da cui possa farsi rimpiazzare, allora la polizia perde la testa”(G. Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Ombre corte, 1999, p. 51.).

Oggi invece stiamo facendo di tutto per agevolare il lavoro delle forze repressive, inteso in senso lato come il controllo del potere sulle nostre vite. Fa un po’ sorridere oggi pensare alla pratica di mettersi un falso nome su Facebook, visto l’enorme potere e la capacità di asservimento che la piattaforma di Zuckerberg ha ormai sulle nostre vite. Molte persone del resto si sono anche adeguate quando il social ha chiesto la carta di identità agli iscritti, ma non è neanche questo il punto. Il problema sta nel cominciare a capire che forse, lo dico come ipotesi, uno strumento commerciale così violento, escludente, pervasivo, sia diventato uno dei principali avversari da combattere e non, come invece si pensa diffusamente, uno strumento da attraversare criticamente, utilizzare strumentalmente, piegare alle proprie necessità :

“The social industry platforms are far more worried about the prospect of digital suicide, of disconnection, than they are about any purported ‘subversive’ use of their means.”(R. Seymour, The twittering machine, Indigo Press, 2019, p.102. The twittering machine, Indigo Press, 2019, p.102.)

Detto questo, restano aperti tutti gli altri problemi, dalla comunicazione di messaggi efficacemente distribuiti fuori da queste piattaforme all’isolamento che provoca l’uscita volontaria dai social. Rimanendo ad esempio alla questione del rilascio di dopamina nel cervello, dovremmo allora studiare anche gli effetti negativi su chi si è cancellato da tutti i vari social network: la loro singolarità isolata in relazione al cervello sociale . Posto che il piano della realtà prevalente è quello formato da una infosfera digitalizzata (con un’interazione di utenti mediata, come abbiamo visto, da piattaforme private) allora quella paura detta FOMO (Fear Of Missing Out) provata dall’utente dei social network quando spegne lo smartphone è centuplicata per chi esce definitivamente dalle piattaforme. Gli effetti negativi a catena possono essere molteplici.

Poniamo che ci sia un’indagine della polizia che abbia come obiettivo una data popolazione e che su cento persone sotto osservazione solo cinque non siano presenti su Facebook, su chi cadrebbero i primi sospetti della polizia? In poche parole, di fronte a tale stravolgimento sociale, linguistico, fisico e dunque antropologico è davvero difficile sia declinarlo dall’interno che starne completamente fuori. Forse è vero, come scrive anche Francesca Coin nell’articolo sopra citato riguardo Lanier, che il segreto del grande successo dei social non sta tanto nel rilascio di dopamina e nella dipendenza psicologica nella quale volontariamente ci inseriamo: sta piuttosto nel fatto che desideriamo un posto migliore del mondo di merda in cui viviamo, per cui speriamo che le relazioni e le politiche che costruiamo nei social siano migliori e ci liberino. Posto che questa è una pericolosa illusione, dovremmo allora avere la pazienza e la forza mentale (se ne rimangono ancora a disposizione) non solo di uscire dalla scatola skinneriana ma anche di trovare quello spazio di cui parlava la Zuboff e ritessere relazioni positive grazie alle quali non avremo più un bisogno disperato e assoluto di una realtà virtuale.

Non parlo però di un santuario slegato dai rapporti sociali e di potere ma di uno spazio assieme singolare e collettivo. Trovare delle piattaforme alternative che non creino profitto per le grandi imprese della Silicon Valley è fondamentale ma occorre anche fare un ragionamento sulle identità che ci andiamo costruendo in rete, anche perché stanno diventando una gabbia di narcisismo che non fa più bene veramente a nessuno. Ricordo ad esempio nei primi tempi di vita di Twitter quando l’appena nato social network si configurava come un enorme flusso di notizie e opinioni quasi completamente slegato dalla personalità degli utenti, senza la pagina personale a farla da padrone, con una minima individuazione del creatore dei contenuti: poi è venuta l’esigenza di profilazione e tramite gli algoritmi il flusso è andato in secondo piano. Bisognerebbe riflettere sulle vie di fuga da questa individualizzazione forzata da parte delle piattaforme, cercando, come diceva Deleuze, di far perdere la testa alla polizia.

Abolire le prigioni

Eravamo nel 2006 quando l’ultimo grande indulto generalizzato portò la popolazione carceraria da quasi 70.000 persone detenute a 25.000 in meno. Ricordo il dibattito dell’epoca perché facevo parte di una rete locale per l’amnistia: fu un momento importante per la vita di migliaia di persone, si discuteva di sovraffollamento e di recidiva, mentre purtroppo già montava quel clima forcaiolo e giustizialista che infesta oggi il nostro paese. Passano alcuni anni e nel 2013 c’è di nuovo un trend in crescita di detenzioni, si ritorna a 60.000 persone stipate nelle patrie galere e il governo Letta fa un nuovo (l’ultimo ad oggi) indulto per 10.000 persone detenute.

Com’è abbastanza noto, oggi siamo punto e daccapo, di nuovo più di 60.000 persone nelle carceri, una condizione di sovraffollamento che viene stimata tra le 10.000 e le 15.000 unità in meno a disposizione e soprattutto una situazione esplosiva con ripetuti e documentati episodi di violenza da parte delle guardie, suicidi e atti di autolesionismo: una condizione generale pessima a dir poco. Tutto ciò avviene di fronte a due fenomeni che sono in netta contraddizione tra loro: da un lato abbiamo un deciso calo dei reati violenti, degli omicidi e delle rapine, mentre dall’altro lato aumenta a dismisura il controllo sociale e la penalizzazione di comportamenti che vengono definiti socialmente pericolosi, ovvero aumenta la popolazione carceraria non perché aumentino i reati ma perché ogni singolo attimo della nostra vita quotidiana viene visto sotto la lente d’ingrandimento del controllo poliziesco e diventa passibile di punizione.

Questo slittamento è stato descritto al suo nascere da pochi illuminati punti di osservazione, basti pensare a Gilles Deleuze che parlava di “società del controllo” già nel 1990: oggi abbiamo sotto i nostri occhi questa dimensione securitaria diffusa un po’ ovunque, basta farsi un giro in una stazione ferroviaria per vedere come siano repressi fenomeni di alto rischio sociale come il sedersi su una panchina o mangiarsi un panino. Si potrebbe dire che lo Stato tuteli i propri cittadini dalla pericolosa “emergenza stanchezza” di chi aspetta un treno. Le vecchie sale d’attesa notturne, ovviamente, anche quelle non esistono più: troppo pericolose. A fronte di questo fenomeno palpabile, verrebbe da chiedersi come mai lo Stato non intervenga per una razionalizzazione della struttura nazionale carceraria, costruendo altre galere per mitigare fenomeni rischiosi quali il sovraffollamento, come pure invocano praticamente tutti i partiti di governo o di opposizione che siano.

A mio avviso questo avviene perché la priorità dello Stato, piuttosto che regolare il sovraffollamento che pure causa problemi a guardie e sbirri vari, è quella di tenere separato e lontano il carcere dal resto della società. Nelle strade deve esserci l’incentivo blindato al consumo controllato da guardie onnipresenti (leggasi “decoro”) ma chi è punit* deve sparire dalla nostra vista, deve diventare un* reiett* lontan* verso cui l’ultima cosa che deve nascere è la solidarietà o l’immedesimazione. Il carcere è diventato lo snodo centrale per la riproduzione del dominio del capitale nelle nostre società, basti pensare all’enorme gualg a cielo aperto che sono diventati gli Stati Uniti d’America, con una forte messa a valore della popolazione carceraria ottenuta tramite la privatizzazione delle galere che ben conosciamo grazie alla serie tv “Orange is the new black”.

Questo dato di fatto è poco affrontato dai movimenti e dalla sinistra di classe nel nostro paese nella misura in cui essi restano legati a una visione riformista e integrata nel sistema capitalista. La debolezza del movimento rivoluzionario in Italia si esprime principalmente attraverso questa grave mancanza di prospettiva sul carcere: si parla di sovraffollamento, di migliori condizioni detentive, di depenalizzazione di alcuni reati, si discute in alcuni casi del 41 bis e dell’ergastolo ma rarissimamente si prova a pensare e soprattutto a lottare per l’abolizione del carcere. L’abolizionismo oggi è una corrente teorica minoritaria a livello internazionale ma nel nostro dibattito politico risulta pressoché assente, mentre ci sarebbero molti esempi a cui rifarsi e numerose pratiche da sviluppare.

Due sono gli esempi che mi vengono in mente: il femminismo anticarcerario diffuso nelle pratiche comunitarie di giustizia trasformativa e l’esperienza delle comunità rivoluzionarie curde nel Rojava liberato. In entrambi i casi si affrontano eventuali atti violenti (come uno stupro o un omicidio) in maniera diametralmente opposta a quanto avviene nelle nostre “democrazie”: la persona che ha commesso questi atti violenti viene presa in carico dalla comunità e dentro la stessa comunità si discute (in primis con le vittime dirette o indirette dell’offesa) di una redistribuzione giusta ed equa del fatto commesso. Solo in ultima istanza si arriva ad un allontanamento dalla comunità, ma questo allontanamento non viene pensato nei termini di una detenzione o della creazione delle strutture detentive così come le conosciamo, gestite da un potere statuale.

“La giustizia trasformativa si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della persona che l’ha subita, ma anche le condizioni che hanno permesso questa violenza. In altre parole, invece di guardare l’atto (gli atti) di violenza in un contesto vuoto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare in modo che ciò non accada mai più? Che cosa deve accadere perché la sopravvissuta possa guarire?”[https://lapiega.noblogs.org/post/2018/11/27/come-possiamo-conciliare-labolizione-delle-galere-con-il-metoo/ ].

Convivialità

Una società che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a “imporre” il consumo e mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona. Nella misura in cui il consumo programmato aumenta, l’austerità adottata per scelta personale diventa un’attività antisociale. Una soluzione politica alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene come la capacità di ciascuno di modellare l’immagine del proprio avvenire. I.Illich, La convivialità, Boroli Editore, 1973, p.26

Mai come in questo periodo storico appare al contempo particolarmente inattuale (e quindi necessario) il lascito di un pensatore come Ivan Illich, un autore singolare ed eterodosso che si stenta a catalogare. Il pensiero di Illich è stato sempre solitario, forse anche perché ha iniziato ad avere una certa diffusione negli anni ‘70, ovvero nel momento storico in cui i filoni marxista e cristiano si incontravano nel tentativo di produrre innesti come la teologia della liberazione. Illich ha infatti proposto da un lato una teologia negativa molto distante anche dalla teologia politica che andava di moda all’epoca nel cattolicesimo democratico e dall’altro ha sviluppato una parallela critica radicale del marxismo, distanziandosi da tutte le categorie interne al pensiero moderno, positivista e scientifico.

Oggi ci troviamo di fronte a una caduta quasi macchiettistica del marxismo, ridotto ad un disperato tentativo di riproposizione ottusa proprio di quelle sue caratteristiche compatibili col pensiero capitalista che furono un tempo già criticate dall’operaismo di Panzieri e Tronti, ma anche dal lavoro di Bordiga, per citare due delle scuole marxiste minoritarie del Novecento. Dialettica hegeliana e dispositivi meccanicistici di rapporto tra struttura e sovrastruttura, funzione storica del partito e della classe, conflitto capitale-lavoro inteso come astrazione puramente economica: tutti concetti appartenenti ad una lingua di legno e ad un sistema morto che si tenta inutilmente di resuscitare contrapponendolo al contemporaneo disastro della cultura e della politica liberale, anche di sinistra.

Illich ha avuto il merito di scavare un tunnel sotterraneo opposto sia al modernismo marxista che a quello cristiano, ritrovandosi in una terra straniera di cui soltanto oggi capiamo l’importanza e la necessità per una critica al capitalismo che sia efficace. Pensiamo a un testo come “Descolarizzare la società”, pubblicato nel 1971, che ricevette anche un discreto successo, per poi essere relegato nel dimenticatoio assieme a tutta quella serie di scritti critici della pedagogia e dell’istruzione che oggi sono sommersi da un’ondata di studi e riflessioni che vorrebbero umanizzare la scuola-azienda (mission impossible). Interrogato sull’origine e il significato di questo testo, Illich affermava che:

“Se la danza della pioggia non sortisce alcun effetto, puoi biasimare te stesso per avere danzato nel modo sbagliato. La scolarizzazione, come ho potuto via via rilevare, è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea quei miti che per una società consumistica sono una necessità. Per esempio ti fa credere che l’apprendimento può essere diviso in varie parti e quantificato, o che è qualcosa che acquisisci solo attraverso un processo. Un processo nel quale tu sei il consumatore e qualcun altro l’organizzatore, e tu collabori producendo la cosa che consumi e interiorizzi. Perciò sono giunto ad analizzare la scolarizzazione come il rituale di fabbricazione di un mito, il rituale che crea un mito su cui la società contemporanea poi costruisce se stessa. Ne deriva, per esempio, una società che crede nella conoscenza e nel confezionamento della conoscenza, che crede nell’invecchiamento della conoscenza e nella necessità di aggiungere conoscenza a conoscenza, che crede nella conoscenza come valore – non come bene, ma come valore – e che quindi la concepisce in termini commerciali. Tutto ciò è fondamentale per essere un uomo moderno e vivere nelle assurdità del mondo moderno” (D.Cayley, Conversazioni con Ivan Illich. Un archeologo della modernità, Eleuthera).

Ricostruendo quello che è il progetto fondamentale della scienza moderna, Pierre Thuillier racconta nel suo libro “Contro lo scientismo” (S-edizioni) questa ossessione per il quantitativo:

“la quantificazione è divenuta un’ossessione socioculturale. Gestire le giacenze, verificare le quantità consegnate, calcolare le entrate e le uscite, i guadagni e le perdite, tutto questo è entrato nei ranghi delle competenze che bisognava assolutamente padroneggiare […] C’è stato bisogno che i mercanti acquisissero un grande potere sociale perché la “natura”, infine, diventasse veramente l’oggetto di una fisica degli “scambi razionali”. La nozione di energia riceverà, a sua volta, lo stesso trattamento. Ancora oggi possiamo vedere chiaramente le tracce di questa metafisica da droghiere in un’espressione quale “il bilancio energetico”(pagine 40-41).

L’homo scientificus realizza il suo principio attraverso cui “se si può fare, allora facciamolo”. E così nei report che misurano e quantificano la distruzione del pianeta (deforestazione, allevamenti intensivi, estinzione di specie animali, cambiamento climatico, etc.) possiamo anche leggere quanti miliardi di dollari perdiamo all’anno in seguito a queste catastrofi ben poco “naturali”. Si possono quantificare i ricavati della trasformazione del mondo così come gli effetti della sua completa distruzione. Non è nient’altro che un bilancio economico. Anche se oggi leggiamo interessanti analisi di una corrente di pensiero marxista come quella dell’eco-socialismo, da queste riflessioni mancano quasi sempre tutte le vite delle varie differenti specie animali che popolano questo disgraziato pianeta. La lettura di fondo rimane quella antropocentrica e scientista, per cui la “natura” è un oggetto di studio e trasformazione ad opera dell’uomo, meglio se fatta dal socialismo piuttosto che dal capitalismo, ma sempre oggetto che gli umani modellano a loro piacimento. Il concetto di totalità (caro al pensiero hegeliano, marxista e cristiano) è completamente interno ad un pensiero della violenza razionalizzante, un pensiero che resta ancorato alle fondamenta del capitalismo occidentale. Per questo motivo le riflessioni di Illich sulla società conviviale sono oggi profondamente necessarie.