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Abolire lo Stato che è nelle nostre teste

Trump si è da poco insediato alla Casa Bianca e già ha cominciato a rompere i vasi di cristallo nella stanza, con un programmato effetto di creazione del caos: tattica spiegata dal suo vecchio ideologo nazista Steve Bannon, ovvero di aprire contemporaneamente più fronti in modo da lasciare sotto shock le opposizioni, bloccate del tutto o focalizzate su un punto mentre la presidenza Trump avanza sugli altri. Non di meno, passati i primi giorni di sorpresa e orrore, forse possiamo cominciare a fare qualche riflessione su quello che sta accadendo.

Contro le previsioni che volevano Trump isolazionista e ritirato nei confini di politica interna, abbiamo avuto già nei primi giorni della sua seconda presidenza le dichiarazioni roboanti contro Canada, Messico, Groenlandia e, infine, la tremenda minaccia di deportare due milioni di palestinesi e prendersi Gaza. Nel mentre definiva queste minacce, Trump metteva in soffitta decenni di neoliberismo lanciando la politica protezionistica, dazi a tutto spiano, con l'attacco anche ai paesi europei.

Poi è arrivato l'altrettanto scioccante cambio di campo in Ucraina, con l'intesa sempre più evidente con Putin e la ridefinizione di tutte le alleanze storicamente stabilite con gli stessi paesi europei minacciati di una pesante guerra economica. Fin qui le novità, che presentano uno scenario sempre più inquietante. Quello che appare all'orizzonte è un ruolo degli USA in sintonia con Israele e la Russia, Stati che si stanno macchiando di crimini orrendi, sempre più in rotta con le democrazie europee, in vista dello scontro che incombe sul pianeta, quello con la Cina.

Se le democrazie liberali sono seriamente minacciate da questa svolta autoritaria degli USA, il tradimento nei confronti dell'Ucraina ci dice che affrontare il fascismo assieme alle forze statuali e ai loro partiti politici ha dei grandi limiti: una lezione che già nella liquidazione della resistenza italiana avremmo potuto apprendere. Per cui oggi siamo chiamate secondo me a una riflessione molto complicata, che verte sostanzialmente su come affrontare il fascismo che viene, sempre più prepotentemente: un fascismo globale che può portarci alla guerra mondiale e totale, non più solo agli scontri tra imperialismi.

Una frase di A.M.Bonanno su cui rifletto sempre è “Lo Stato è guerra”. Per quanto siano importanti le differenze tra democrazie liberali e fascismo, tendenzialmente le strutture statuali portano sempre verso la guerra, perché se guardiamo dentro la reale conformazione delle democrazie parlamentari quali la Francia, la Germania, la stessa Italia, etc. ci troveremo nient'altro che il neocolonialismo in Africa o altrove, la politica criminale del blocco delle frontiere e del razzismo istituzionale, la repressione del dissenso interno e tante altre cose che sono le sorelle gemelle del fascismo.

Per cui non ci si può fidare degli Stati, questo dovrebbe essere chiaro, se pure possono essere tatticamente (e non strategicamente) utili delle alleanze con le democrazie per non sprofondare tutte noi in situazioni nelle quali ci vengono a prendere a casa e ci portano in campi di concentramento, una eventualità che oramai sta sinistramente diventando sempre più una opzione non lunare e fantascientifica anche in occidente. Quella che invece mi sento di rifiutare con tutte le mie forze è l'opzione che oggi appare tanto in voga a sinistra, ovvero l'alleanza con i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, più eventuali aggiunte come la Nigeria, Iran o l'Arabia Saudita).

A parte che queste contrapposizioni sono sempre aleatorie e ballerine, vedasi il nuovo amore tra USA e Russia, se non possiamo fidarci delle democrazie, credo che tanto meno possiamo appoggiarci anche solo idealmente alle peggiori dittature sanguinarie e misogine come l'Iran e l'Arabia Saudita, oppure alla distopia totalitaria neocapitalista della Cina. Non possiamo fare una lettura economicistica dello scontro politico, per cui se questi stati dispotici mettono in crisi il dollaro allora OK sono nostri alleati. Abbiamo solo una via d'uscita possibile e questa è la costruzione di movimenti e reti transnazionali, costruite dal basso e orizzontalmente, senza leader maschi pronti a diventare i nuovi despoti del futuro.

Come si costruiranno queste reti è tutto da vedere, ma la loro forza si misurerà proprio sulla messa in discussione di quei meccanismi di potere, micro e macro, che sono radicati prima di tutto nelle nostre teste.

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L’importanza di lasciare Elon Musk da solo

La prima volta che ho usato Twitter (sarà stato prima del 2010, non ricordo la data precisa) mi colpì la centralità del flusso di informazioni che scorreva sulla Timeline senza grandi possibilità di intervenire, rimanendo all’inizio fuori da possibili scambi con altri account. Peraltro gli italiani erano davvero pochi, si iniziava a seguire con difficoltà qualcuno: mi pare che Zeropregi, un compagno del movimento romano, fosse uno dei principali “agganci” con il social network. Solo qualche tempo dopo, la piattaforma cominciò a impostare diverse novità piuttosto impattanti, che all’epoca vennero subito definite e criticate come un cedimento al rivale esistenziale di Twitter, ovvero Facebook: comparvero le pagine degli account, la bio e altre personalizzazioni che richiamavano esplicitamente il social di Zuckerberg. Le critiche furono anche molto aspre, perché l’utenza si riconosceva in opposizione identitaria a Facebook, ma come sempre accade nelle scelte dei social commerciali, gli utenti se ne fecero una ragione.

Dal 2012 al 2019 circa ho usato Twitter in modo molto intenso, non avendo, appunto, Facebook o altri social. La mia esperienza è stata ambivalente, perché se da un lato ho stretto numerose interazioni, amicizie, usando la piattaforma per attività politiche con un confronto serrato, raggiungendo anche un numero considerevole di follower (più di 1000 ad un certo punto), dall’altro lato era palese come l’algoritmo studiato da Jack Dorsey fosse molto pericoloso, incentivando rabbia e flame anche molto violenti. Nel mio caso il cortocircuito nasceva nell’avere una “bolla” di riferimento, quella del Left Twitter italiano, con cui c’erano punti di divergenza molto forti, dalla guerra civile in Siria al ruolo dei sindacati di base. Siccome il social portava a esprimere posizioni unilaterali e di contrasto estremo, mi ritrovai ad avere i miei haters che rasentavano lo stalking. Non di meno, mi cominciava a dare fastidio la mia stessa identità che mi ero costruito sulla piattaforma.

Sono rimasto fuori da Twitter nel periodo del Covid, poi ho ripreso un po’ saltuariamente fino al 2022, quando la prevalente giustificazione da parte del Left Twitter della guerra di Putin in Ucraina mi ha reso ancora più difficile la permanenza sul social network. Sono restato quindi un anno cercando di scrivere quasi esclusivamente di calcio, fino a che, il giorno prima del cambiamento del nome del social in X, grazie all’arrivo di Elon Musk, non me ne sono andato. Ho sempre avuto difficoltà a lasciare definitivamente il social, perché per i famigerati meccanismi dei social commerciali (lock in, dopamina, etc. Ho già scritto un post su questo blog su questo stesso tema https://paper.wf/quattropinte/lo-spazio-necessario) è dura spegnere il cervello così da un giorno all’altro. Ogni tanto facevo una capatina sul Fediverso, su Mastodon in particolare, ma è dura anche usare un social meno invasivo per la psiche quando per anni sei stato diseducato. Ho fatto un’ultima capatina di due giorni qualche mese fa per vedere che cosa fosse diventato X: mi ha talmente disgustato la visione della Timeline pubblica che ho chiuso, questa volta per sempre, la mia esperienza con il social network.

In questi giorni si sta parlando molto di Musk, dell’uso politico che fa di X, per cui non devo aggiungere più di tanto. La mia tesi comunque è che già il Twitter di Dorsey era molto pericoloso in termini di ricadute individuali e psichiche, collettive e politiche. Certo, non era ancora il Ku Klux Klan attuale, ma c’erano tutte le premesse affinché un miliardario nazista ne facesse il proprio giocattolino. A margine di questa mia idea aggiungo un’altra considerazione, che mi ha spinto a scrivere queste righe sul blog. Tramite il sito-mirror xcancel.com sono andato a vedere quali dei miei vecchi contatti fossero ancora presenti sul social oggi in mano a Musk. La cosa che mi ha lasciato esterrefatto è che ho ritrovato presente quasi tutto il Left Twitter, quello che avevo lasciato nel momento in cui cercava le prove che l’Ucraina fosse un paese nazista da punire con l’invasione della gloriosa armata rossa.

Negli ultimi tre-quattro mesi ho deciso di usare Mastodon con costanza, senza cancellare più il mio account, e finalmente mi sto trovando a mio agio nel Fediverso, in particolare sull’istanza Puntarella.party. Non ho pensato inizialmente a una questione morale rispetto a chi volesse legittimamente continuare a stare su X, magari chiamandolo nostalgicamente Twitter, facendo i soliti joke, dicendo di volerlo cambiare dall’interno etc.etc. Però oggi, vista l’agenda aggressiva di Musk sull’imposizione del neonazismo su scala globale e la centralità del suo social network rispetto alla realizzazione dei suoi obiettivi, mi chiedo: come è possibile restare su X? Qualche giorno fa Debian, la famosa distribuzione Linux, ha scritto un comunicato, che traduco: “Il Debian Publicity Team non pubblicherà più post su X/Twitter. Abbiamo preso questa decisione poiché riteniamo che X non rifletta i valori condivisi di Debian come indicato nel nostro contratto sociale, nel codice di condotta e nella dichiarazione sulla diversità. X si è evoluto in un luogo in cui le persone a cui teniamo non si sentono al sicuro”.

Se pure prima non è che ci fossero tute queste grandi tutele per le minoranze, adesso veramente è difficile non subire molestie aggressive da parte di orde di troll nazisti, perché tutto è permesso di design e di default. Quindi il ragionamento di Debian è corretto. Io credo che attualmente la scelta di abbandonare X sia altamente significativa dal punto di vista etico e politico. Mi viene da dire che è una delle scelte più importanti che possano fare adesso singoli e organizzazioni. Per questo motivo mi trovo in profondo disaccordo con chi sceglie di utilizzare ancora il social network: sebbene non sia mio compito lanciare anatemi, non di meno posso esprimere una mia opinione molto meditata. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca entriamo in una fase altamente pericolosa nello scenario globale, una fase nella quale anche le parvenze del diritto internazionale vengono clamorosamente calpestate e viene dichiarata la legge del più forte. Non possiamo avere dubbi da che parte stare, non possiamo pensare di non avere il dovere di fare qualche piccolo sacrificio per combattere tutto ciò. L’abbandono di un social network può essere un piccolo o un grande passo da fare per una persona, ma in questo caso mi pare proprio un passo necessario da fare.

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Il Basic Income e il diritto di fuga dal mercato del lavoro

Secondo la definizione di Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght il Basic Income è “un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite”[P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Egea, Milano 2006]. Le caratteristiche di universalità, individualità e non condizionatezza dell’erogazione del reddito sono dunque alla base di questa proposta di riforma sociale e vanno spesso in aperta contraddizione con altre concezioni di reddito minimo esperesse teoricamente o applicate in alcune nazioni.

Il reddito elargito dallo Stato o dal governo di una particolare regione può essere infatti condizionato dall’accettazione di un lavoro subordinato o di un percorso di formazione lavorativa e spesso viene visto come un momento intermedio prima del reinserimento del disoccupato nel mondo del lavoro. Per quanto riguarda invece la forma di universalità del reddito, nelle diverse legislazioni ci troviamo sovente di fronte a specifiche misure rivolte a fasce di popolazione, cui viene rivolta l’erogazione monetaria, individuate in base a condizioni economiche svantaggiate per povertà, mancanza di integrazione etc.

La mancanza del requisito di universalità si accompagna così anche all’assenza del target di individualità: i sussidi possono riguardare famiglie indigenti le cui risorse economiche vengono preventivamente scandagliate a fondo fino a trovare condizioni di estremo disagio cui rivolegere un intervento di carità sociale riguardante l’intero nucleo familiare. Così come è stato concepito nei suoi caratteri essenziali, dunque, il Basic Income non ha trovato fin ora realizzazione compiuta e la diffusione di forme di reddito minimo, salario sociale, sussidio di disoccupazione, ha complicato il campo di analisi e di studio di questa proposta complessiva di riforma sociale confondendone i contorni di applicazione oppure considerandola come una prospettiva utopica di difficile realizzazione relegandola così nel campo delle proposte irrealizabili. Universalità, individualità e incondizionatezza dell’erogazione monetaria sono andate in secondo piano rispetto all’esigenza di tutelare sì il patrimonio di fasce sociali e famiglie, ma in primo luogo nell’ambito del controllo e della riorganizzazione del mercato del lavoro.

La proposta di reddito minimo garantito si è dunque inserita anche nel filone di pensiero neoliberale in cui, permanendo il ricatto all’assunzione di un lavoro precario e sottopagato nel contesto di società con fortissime diseguaglianze sociali, si concepisce il sostegno al reddito come sostegno per la semplice riproduzione fisica della forza lavoro. In questo caso si manifestano somme particolarmente basse di erogazione monetaria, fortemente condizionate dall’accettazione di proposte di inserimento professionale spesso con obbligo di lavori socialmente utili e/o corsi di orientamento e formazione, e più in generale con un forte controllo sociale esercitato dallo Stato sui cittadini individuati come risorse da ricollocare nel circuito dello sfruttamento e della centralità dell’impresa privata. È noto come nella Scuola di Chicago in cui si è formato il pensiero neoliberista diversi economisti, tra cui Milton Friedman, abbiano sviluppato questo indirizzo teorico di una declinazione di reddito minimo che si allontana con decisione dalle caratteristiche del Basic Income individuate da Van Parijs anni addietro.

Per comprendere appieno questa apparente contraddizione dobbiamo considerare l’attuale sviluppo del capitalismo, nella fase cosiddetta postfordista o neoliberista che si è consolidata a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, non semplicemente come un processo di ritirata dello Stato e della spesa pubblica destinata a fini sociali, ma più organicamente come una fase di ristrutturazione complessiva del mercato del lavoro e della subordinazione lavorativa alla luce dei nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione:

“Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa”[C.Laval-P.Dardot, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, 2013, Introduzione].

Assieme alla crescita della tipologia postfordista dell’organizzazione della fabbrica, della diffusione di un’impresa più snella, agile, senza scorte di magazzino, con una produzione just in time in un contesto aperto di concorrenza, il lavoratore si è trovato sempre più spaesato e ricattabile, mentre le sue conoscenze pregresse, il suo bagaglio formativo viene sempre più utilizzato dalle aziende senza retribuzione. Se si investono anni e denaro in una formazione permanente, totale e infinita del lavoratore, spesso non troveremo che aziende disposte a sfruttare corsisti, stagisti, laureati che lavorano, quasi gratis, il doppio di altri lavoratori, ormai sempre di meno, assunti decenni prima con contratti a tempo indeterminato.

Questo processo si intreccia fortemente con la svolta finanziaria dell’economia, con la forte e crescente finanziarizzazione dei processi produttivi e delle sorgenti di accumulazione del capitale, così come enormi sono le rendite e i trasferimenti di ricchezza ottenuti grazie allo sfruttamento delle economie esterne e della cooperazione degli individui cresciute al di fuori della subordinazione lavorativa. È chiaro dunque come il reddito minimo di inserimento proposto dai teorici liberisti si contrapponga ad una visione di Basic Income fondata sulla riappropriazione da parte dell’individuo di questa gigantesca accumulazione di denaro ottenuta gratis dal capitale grazie ad uno sfruttamento sempre più esteso e intensivo delle forme di cooperazione e comunicazione delle persone, del linguaggio così come della formazione della conoscenza delle singolarità, in una parola delle “soggettività”.

La prospettiva della piena occupazione e di una politica economica che metta l’accento sul principio costituzionale della Repubblica “fondata sul lavoro” diventa sempre più inconciliabile con la sfida della creazione di un nuovo welfare che protegga tutte quelle fasce di soggetti non più tutelati dalla scomparsa e dalla ristrutturazione neoliberista dello stato sociale costruito con il vecchio compromesso fordista ormai saltato in aria:

“di cosa si occupano i non occupati? E cosa se ne fa il capitale delle loro vite? I cosiddetti non occupati, tra cui bisogna annoverare un gran numero di lavoratori intermittenti, temporanei, occasionali, costituiscono il più grande se non l’unico laboratorio di sperimentazione e progettazione di nuovi servizi e attività culturali, sociali, politiche, nonché di attività produttive minori, in perenne conflitto con norme e regolamentazioni imposte da burocrazie nazionali ed europee che operano al servizio di corporazioni e poteri forti. Il tutto fiscalmente penalizzato nell’illusione, di incrementare il mercato del posto fisso. Per tornare a una formula più volte ribadita esiste una vasta cooperazione sociale produttrice di ricchezza, non riconosciuta in termini di reddito e di garanzie. Quanto alla seconda domanda, il capitale cattura a piene mani, trasformando in sua proprietà o in suo prodotto, procedimenti e risultati di questo insieme complesso di attività, avvalendosi anche di un apparato giuridico e contrattuale che spudoratamente lo agevola. Volendo dirla in maniera un po’ sfacciatamente provocatoria, tutti i discorsi sulla piena occupazione non fanno i conti con il fatto che la piena occupazione esiste già e si dà appunto in questa forma e con queste modalità. Si potrà certo obiettare che siccome i singoli e le collettività cercano sempre di tirare a campare, messa così la piena occupazione c’è sempre stata, ragion per cui questo discorso sarebbe privo di senso. Tuttavia mi sentirei di controbattere che in altre epoche e in altri contesti la massa degli esclusi vegetava in condizioni soggettive e oggettive di sostanziale passività. Non è certo questo il caso della “inoccupazione” contemporanea segnata da un attivismo evoluto e inventivo che produce indirettamente profitti, ma non riceve direttamente alcun reddito. Considerare dunque il reddito di cittadinanza, non come un ammortizzatore sociale, ma come retribuzione della partecipazione a questo processo di produzione della ricchezza costituirebbe la base dell’autonomia economica e politica dei singoli e non la sua negazione. La possibilità di sottrarre il proprio agire a una condizione di ricatto”[M.Bascetta, Reddito di cittadinanza: una libertà fuori dal mercato, ilmanifesto 19 giugno 2013].

Il reddito garantito non dovrebbe essere dunque vincolato al lavoro e strutturato esclusivamente in vista di una misera riproduzione sociale della forza-lavoro da ricollocare sul mercato con il fine di tenerla pronta alla sfida della competizione ma pur sempre ricattabile e sulla soglia mobile della povertà e dell’esclusione sociale. La società potrebbe maggiormente diversificarsi e crescere culturalmente procedendo aldilà della subordinazione lavorativa, oltre l’inglobamento di tutte le attività di creazione individuale e di cooperazione sociale sotto la rigida corazza della gestione salariale. Questa diversificazione potrebbe agire creando un circolo virtuso in grado di influenzare positivamente anche il mercato del lavoro garantendogli nuovi e più alti standard una volta apertasi una competizione positiva grazie al riconoscimento della cittadinanza di tutte queste pratiche, elaborazioni e produzioni alternative.

Andrebbe quindi affrontato un cambiamento anzitutto dal punto di vista culturale che punti allo spostamento delle enormi risorse oggi destinate allo sviluppo delle imprese private, della concorrenza e del mercato, al campo dell’esercizio dell’autonomia dell’esistenza degli individui. Le criticità dell’applicazione del reddito garantito riguardano infatti principalmente il finanziamento della misura e il rapporto con il lavoro salariato. Il finanziamento riguarda scelte socio-economiche di fondo, come l’eventuale riduzione della spesa militare, una tassazione più equa ecc. Il rapporto tra reddito garantito e mondo del lavoro salariato è un processo complesso che andrebbe sì affrontato per gradi e in divenire, ma tendendo al superamento della totalizzazione del rapporto di subordinazione lavorativa.

Il Basic Income potrebbe innescare un processo virtuoso che influenzerebbe il mercato del lavoro alzando gli standard generali. Ciò non toglie che si aprirebbero comunque delle grosse contraddizioni con il mercato e l’impresa privata che sarebbe però interessante poter verificare, approfondire e sviluppare. Usare la prospettiva di sostegno al reddito unicamente come mezzo per ricollocare i fuoriusciti dal mercato del lavoro nella posizione precedente fa perdere alla collettività un’occasione di crescita generale. Il problema va dunque posto prendendo di petto tutte le attuali ed egemoni obiezioni presenti nel dibattito pubblico rispetto la creazione di un reddito di esistenza sgnaciato dal lavoro analizzando l’obsolescenza di tutte quelle teorie che considerano parassitario l’uso del Basic Income per i non occupati e un limite per la crescita complessiva della società.

Con una progressiva diversificazione delle forme di attività “potrebbe verificarsi un effetto complessivamente incentivante del basic income secondo la logica di quello che, osservando l’esodo di massa dei profughi dalla Germania est nell’estate dell’89, si potrebbe chiamare ‘il paradosso della Rdt’. Il paradosso è questo: se il governo della Rdt avesse concesso ai suoi cittadini il diritto ad andarsene, molti sarebbero rimasti. L’errore di non aver riconosciuto questo diritto fu una delle cause immediate della decisione di molti di fuggire illegalmente. Applicando questa logica al mercato del lavoro e al sistema garantito dal basic income, si potrebbe prevedere che il ‘diritto di partire’ indurrebbe molte persone a ritirare la loro forza lavoro dall’impiego formale, cosa che potrebbero permettersi data la sicurezza del basic income e la conseguente reale possibilità di scelta dell’impiego. Quei lavoratori marginali che sono rimasti sul mercato del lavoro per paura che uscire significasse non tornarci più, farebbero certamente questa scelta. Ma questo ‘diritto di andarsene’ verrebbe usato, in una misura che non conosciamo, ma che difficilmente sarebbe irrilevante, anche per acquisire nuove abilità sociali e tecniche e per liberare energie e inclinazioni che faciliterebbero infine il ritorno volontario al lavoro salariato. Così l’effetto finale sarebbe, da una parte, un modello di vita più flessibile e fondato sulla scelta, e, dall’altra, una riqualificazione della forza lavoro, fattori che potrebbero entrambi concorrere a una nuova situazione di piena occupazione sulla base di un segmento di vita dedicato al lavoro formale notevolmente più breve per il cittadino medio”[C.Offe, Un disegno non produttivista per le politiche sociali, in AA.VV. Tempo e democrazia, manifestolibri, Roma, 1997, p.105].

Si tratta dunque di pensare il Basic Income anche e soprattutto in funzione di questo diritto di fuga dalle maglie del lavoro subordinato e non come un mero inserimento in un modello di competizione globale che sta procurando danni incalcolabili anche dal punto di vista di sostenibilità ambientale. Tutte le produzioni nocive all’ambiente, alla salute, tutto l’obsoleto impianto industriale che provoca inquinamento e devastazione dei territori ha come unica alternativa sostenibile una sua riconversione basata principalmente sulla fine del ricatto della disoccupazione. Più in generale è la stessa nocività sociale della strutturazione del lavoro salariato che può essere messa in discussione solo con l’adozione del Basic Income.

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M. Il figlio del secolo

Il libro di Scurati su Mussolini, M. Il figlio del secolo, è un’opera voluminosa e dettagliata, nonché di rara potenza letteraria. Il testo è una sorta di cronaca romanzata degli eventi che partono dal 1919 e arrivano fino al 1924, quando il Duce rivendica l’omicidio Matteotti: vi troviamo insomma un Mussolini che da squattrinato direttore del giornale “Il Popolo d’Italia”, reduce fallito e traditore del Partito socialista, diviene il Duce fondatore dell’Impero.

Nel testo ci sono le vicende di altri importanti personaggi decisivi dell’epoca, dal Vate D’Annunzio che tenta la rivoluzione con la conquista di Fiume a Nicola Bombacci, il Lenin di Romagna, capo della corrente massimalista socialista, che non ebbe il coraggio di tentare la rivoluzione e finì tra le fila del fascismo. Altro personaggio decisivo del libro è Giacomo Matteotti, il figlio di borghesi che sceglie di diventare difensore degli operai e contadini del Polesine: le sue denunce in Parlamento delle violenze delle squadracce fasciste rappresentano uno dei punti più alti e commoventi del romanzo.

Il libro di Scurati è molto interessante, ma fa anche male, perché fa rabbia leggere di come un nucleo di avanguardisti, reduci dalla prima guerra mondiale, degli esaltati alla ricerca di una violenza brutale e fine a se stessa, siano diventati centrali per lo Stato che aveva bisogno di fare la guerra ai socialisti per portare avanti la sua controrivoluzione prima della tanto attesa e mai praticata rivoluzione operaia. Mussolini veniva dalla sinistra, era stato uno degli esponenti più in vista del socialismo, era arrivato alla direzione de “L’Avanti”, ma come tanti altri suoi compagni aveva deciso di passare dal pacifismo alla propaganda a favore dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale.

La strage terrificante della guerra ’15-’18 non poteva che avere nefaste ripercussioni su tutta la vita politica mondiale anche dopo che furono firmati i trattati di pace: gli arditi tornarono nelle loro case ebbri del mito della violenza che avevano praticato al fronte, senza un progetto di vita chiaro, completamente esaltati e sbandati. I reduci erano una bomba a orologeria che l’opportunismo di Mussolini seppe voltare a proprio vantaggio. Così questo primo nucleo di arditi, i Fasci di combattimento che avevano firmato il programma di San Sepolcro in cui si chiedeva terra ai contadini e giustizia per gli operai, finirono per diventare gli sgherri dei latifondisti, degli agrari e degli industriali.

Il racconto delle violenze fasciste del periodo precedente alla marcia su Roma fa impressione e fa riflettere, anche pensando al modo in cui i socialisti e i neonati comunisti (dopo la scissione di Livorno) non riuscirono a difendersi e a salvare il paese. Nel testo ci sono molti spunti di riflessione per l’attualità politica e molte cose che richiamano quanto sta capitando oggi in Italia. Una cosa tra le tante, l’idiozia criminale con cui tanti della sinistra si riscoprirono nazionalisti, portando il paese al massacro con il fanatico amore per la patria e la bandiera.

Anche oggi leggiamo di comunisti che parlano contro una presunta “ideologia no border” proprio mentre migliaia di esseri umani vengono uccisi dai confini e dalle frontiere delle nazioni. Niente di nuovo sotto il sole: la bandiera della patria è sempre il richiamo degli infami e degli assassini, giovani ribelli esaltati o vecchi bolsi conservatori che siano i suoi adoratori.

Il libro di Scurati è molto interessante e ben scritto, soprattutto è molto potente la descrizione delle prime violenze del fascismo agrario nelle campagne emiliane, perché l’autore descrive bene l’impotenza con cui i socialisti accettarono di andare al macello senza sapersi difendere in maniera efficace. Però qui nasce il problema politico di questo testo, perché Scurati nemmeno troppo implicitamente fa capire che i socialisti avrebbero potuto salvare loro stessi e tutto il proletariato solamente attraverso un governo con liberali e popolari, con le mitragliatrici di Giolitti che avrebbero spazzato via le squadracce fasciste in dieci minuti. In base a questa tesi politica direi decisamente ingenua, Scurati descrive la scissione di Livorno come “demenziale”, testuali parole, mentre Turati, il riformista che sale a colloquio dal Re tradendo la storia del movimento operaio italiano, “aveva sempre ragione”.

Sulla scissione di Livorno possiamo avere mille considerazioni da fare e non è mia intenzione fare una crociata a difesa dei fondatori del Partito comunista, di Gramsci, Tasca, Togliatti e Bordiga. Però devo dire che Lenin e i comunisti russi, chiedendo vanamente ai socialisti massimalisti di espellere la minoranza riformista, avevano colto un punto decisivo, sostanzialmente lo stesso che aveva colto dall’altro lato Mussolini, e cioè che bisognava puntare a togliere di mezzo lo Stato liberale nella guerra civile tra reazione e rivoluzione: altro che alleanza con i popolari, se i socialisti non fossero riusciti a fare l’insurrezione, diceva saggiamente Lenin, sarebbero stati spazzati via dai fascisti. Cosa che purtroppo è successa anche per i limiti degli stessi comunisti, di come hanno depotenziato anche loro gli Arditi del popolo, per esempio, che furono gli unici, a Parma, a tenere testa ai fascisti dal punto di vista militare.

Per questo motivo è abbastanza ridicolo che Scurati affermi che ci voleva il governo antifascista con Giolitti che avrebbe dovuto semplicemente girare le mitragliatrici di esercito e carabinieri dal lato dei fascisti, mentre è lo stesso Scurati a raccontare nel suo libro come i carabinieri avessero massacrato fino al giorno prima (senza il bisogno di essere aiutati dai fascisti) operai e contadini.

Ugualmente, non è possibile citare gli Arditi del popolo solo in poche righe, ammettendo pure che furono gli unici a tenere testa ai fascisti, mentre Matteotti viene presentato come il personaggio antagonista principale a Mussolini: per quanto fosse una brava persona, non credo che il riformismo suo e di Turati avesse una possibilità concreta. Mettiamo che i socialisti fossero riusciti nell’impresa di fare un governo con Giolitti e Don Sturzo (cosa alquanto improbabile visto che entrambi non furono certo lungimiranti nel considerare il pericolo fascista, con i popolari che plaudivano al ridimensionamento delle leghe operaie socialiste e i liberali che spianarono la strada a Mussolini mettendogli un tappeto rosso fino a Roma), è facile ipotizzare come un governo del genere non avrebbe che rimandato il problema, magari avrebbe fermato militarmente le squadracce fasciste ma allo stesso tempo avrebbe continuato a massacrare operai e contadini, con il consenso dei socialisti però, come è successo negli altri paesi che hanno provato lo stesso esperimento: basti pensare che in quegli stessi anni i socialdemocratici uccidevano Rosa Luxemburg.

Infine, voglio spendere due parole su Amadeo Bordiga, il fondatore del Partito comunista a Livorno, leader della corrente oltranzista, dipinto da Scurati come un settario ottuso, che pensava nel suo massimalismo che fascismo e parlamentarismo liberale non fossero altro che due versioni del capitalismo da considerare sullo stesso piano. Anche qui possiamo dire quello che vogliamo sulla concezione apocalittica e scientista di Bordiga, insultiamolo pure dicendo che è stata colpa sua se ha vinto il fascismo, mentre tutti i presunti difensori della democrazia sparavano a turno sugli operai.

Però che il fascismo sia una carta che il capitale ha sempre pronta nei momenti di difficoltà, che se la gioca quando la democrazia liberale è inefficace nel contenere le spinte popolari, è un dato di fatto storico, provato dalla stessa capitolazione a gratis del Re, di Giolitti, di Benedetto Croce, di Albertini del “Corriere”, di Salvemini, degli industriali e di tutta la borghesia italiana dell’epoca, che preferì aprire le porte al fascismo piuttosto che allearsi con i socialisti.

E aggiungo che tutta la storia successiva del Novecento ha confermato la teoria di Bordiga sul rapporto tra capitalismo e fascismo. Insomma, se con il suo libro l’obiettivo ambizioso di Scurati era dare un contributo a una quanto mai necessaria rifondazione dell’antifascismo, mi sembra che questo tentativo sia decisamente fallito.

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Goodbye Google

Sono sempre stato molto diffidente riguardo l'uso dei telefoni cellulari, sin dal principio: ricordo di aver comprato il mio primo Nokia solo a fine anni Novanta, costretto dalla diffusione dei nuovi device e quindi adeguatomi di malavoglia. Mi ricordo per le strade di Genova negli scontri del G8 con questo telefonino comprato da poco tempo. Anche l'ascesa irresistibile degli smartphone mi ha visto piuttosto recalcitrante e per diverso tempo ho usato ancora quelli che nel frattempo erano stati definiti “dumbphone” ma erano appunto i vecchi cellulari che avevo accettato a malincuore. Tutto questo è avvenuto non in maniera lineare ma con continui tira e molla, comprando uno smpartphone e ritornando al dumbphone.

Degli smartphone con Android mi ha sempre dato fastidio la pervasiva presenza di Google, che ha comprato e colonizzato il sistema operativo per device mobile che è stato costruito sul kernel Linux. Ho avuto per un periodo anche uno smartphone di Mozilla, ma il progetto è stato abbandonato e con la rapida usura del telefonino sono dovuto tornare a battagliare con Android, cercando di togliere più servizi di Google possibile, rendendomi presto conto di come questa fosse una battaglia persa. Ho passato anni a controllare le app di sistema e vedere come e quali togliere, ma Google ha chiuso in modo tale Android che la maggior parte delle app preinstallate si può solo disattivare e non disinstallare.

Avendo avuto da diversi anni una discreta esperienza con Linux e con le installazioni delle sue mille distro (anche con BSD e altri sistemi operativi UNIX-like) ho sempre vagheggiato di provare l'installazione sullo smartphone di un sistema operativo non dipendente da Google. Ho provato a installare senza successo Ubuntu touch anni fa e per un periodo ho pensato di comprare uno smartphone Pine con un sistema Linux preinstallato come Manjaro o altri disponibili, ma alla fine non mi sono deciso a compiere questo passo. Mi ha sempre affascinato l'idea di usare un sistema basato su Android ma de-googlizzato: ce ne sono diversi, forse il più famoso è LineageOS e poi ci sono quello della /e/ foundation, GrapheneOS, CalyxOS etc. Il problema qui è sempre stato dover comprare un device compatibile e metterlo al posto di Android, perché quelli con il sistema preinstallato, che pure ci sono, costano un botto di soldi.

Alla fine per una serie di motivazioni, non ultima la visione della foto degli oligarchi delle Big Tech all'insediamento di Trump alla Casa Bianca, mi sono deciso a comprare uno smartphone ricondizionato Motorola g32 (preso online a 89 euro) compatibile con CalyxOS e provare una installazione tramite collegamento con il desktop (ho un Lenovo con sopra Devuan GNU+Linux). Mi sono studiato la procedura prima che mi arrivasse il telefono, anche grazie ad un mio amico che l'ha fatta tempo fa e mi ha consigliato CalyxOS, e appena è arrivato il corriere mi sono fiondato al computer.

Devo dire che l'installazione è riuscita bene ma alcuni passaggi li ho dovuti rivedere perché non avevo capito subito: non è molto semplice per due ragioni. La prima riguarda la modalità di sblocco del telefono. Bisogna attivare le opzioni di sviluppatore, poi ottenere un codice da Motorola e inserirlo sul loro sito, tutto ben spiegato sulla guida di CalyxOS ma non proprio intuitivo. La seconda difficoltà riguarda il collegamento tra desktop e telefono, perchè bisogna installare sul computer i programmi Linux per Android e poi aprire il terminale nelle directory giuste. Anche qui non proprio intuitivo, bisogna avere un minimo di conoscenza di Linux (non so invece come sia il procedimento da Windows).

Dopo due ore di smanettamento, finalmente il boot del telefono mi ha presentato il logo di CalyxOS. Un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per l'umanità. Ho scritto su mastodon il mio messaggio: Google, Google, vaffanculo. Com'è CalyxOS? Bellissimo, è Android senza la schifezza di Google. Lo store predefinito è F-Droid (che ho sempre usato negli anni), il browser è una versione di Chromium orientata per una maggiore privacy di default. Il client mail è K9, altra app sempre usata. Per il resto ho messo dieci app di Fossify (dialer, sms, orologio, calendario, note, fotocamera, registratore vocale, gallery, calcolatrice) e da Aurora store (che si scarica da f-droid) ho messo WhatsApp. Bisogna sottolineare che CalyxOS ha un sistema per replicare i Google play services (che fanno girare varie app soprattutto per le notifiche) che si chiama MicroG.

Insomma, finalmente dopo anni ho liberato il robottino verde e mi sono tolto una grande soddisfazione.

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La rivoluzione è un fiore che non muore

In questi anni ne sono successe di tutti i colori e quasi sempre abbiamo dovuto scrivere e commentare enormi tragedie, guerre, massacri e genocidi, raccontando dell'esilio e della galera per milioni di persone. Per una volta almeno voglio dunque scrivere due righe e spendere due parole su una vittoria. Una vittoria inattesa, clamorosa, meravigliosa. La vittoria della rivoluzione siriana.

Quando nel 2011 sulla scia delle primavere arabe le città della Siria furono scosse dalle proteste di un intero popolo, gli sgherri del regime dissero “Assad o distruggiamo il paese”. E così è stato. Milioni di profughi, la repressione che dilaga, le torture e le uccisioni del carcere di Sednaya, dove è stato costruito un forno crematorio per far sparire le vittime; l'inizio degli scontri armati con la rivoluzione che si trasforma in una guerra civile e le fazioni diventano milizie sempre più radicali e manovrabili dall'esterno. È difficile riassumere quanto abbia sofferto il popolo siriano, è inimmaginabile per noi che da lontano abbiamo sperato che un giorno finisse il terrore imposto dal clan di Assad.

Non starò qui più di tanto a parlare di geopolitica o a ricordare quanta parte della sinistra occidentale abbia appoggiato il regime di Assad insieme ai fascisti di tutto il mondo. Né voglio fare previsioni su quello che avverrà nei prossimi tempi, polemizzando in maniera approfondita con chi ritiene buono l'Islam sciita di Khamenei mentre i sunniti sono tutti “tagliagole”. Questa gente per quanto mi riguarda merita solo indifferenza. Voglio solo dire, come ha ricordato Leila Al-Shami nelle ore convulse dell'avanzata dei ribelli verso Damasco, che “Ancora una volta le narrazioni dominanti di “sinistra” cercano di negare ai siriani qualsiasi agenzia e di vedere tutti gli eventi attraverso una lente geopolitica immutabile.”

E invece le persone siriane hanno dato una lezione al mondo intero, ancora una volta, portando a compimento una rivoluzione che sembrava ormai sepolta. Le immagini delle prigioni che si svuotavano delle persone prigioniere, le statue di Assad abbattute, le automobili in code interminabili che passano le frontiere del Libano e della Turchia e tornano a casa, i cortei di giubilo a Berlino, Monaco, Istanbul etc. Sono successe cose che non credevo più di riuscire a vedere. E invece l'8 dicembre 2024 la TV nazionale ha trasmesso l'annuncio della vittoria: il regime è caduto, la rivoluzione ha vinto. Una delle cose che mi ha commosso di più è stata ascoltare la voce degli esuli che sono pronti per tornare in patria.

Ripensiamo un momento ai decenni di massacri. Assad padre nel 1982 circonda la città di Homs e la rade al suolo uccidendo 40.000 persone; Assad figlio che 21 agosto 2013 usa le armi chimiche contro la popolazione di Goutha. Le milizie di Hezbollah che assediano Aleppo lasciando morire di fame chi era rimasto dentro la città. Per citare solo tre tappe di questo genocidio.

Alla fine, quando più nessuno se lo aspettava, dopo Aleppo sono state liberate Hama, poi Homs e poi i ribelli sono scesi a Damasco mentre dal sud i drusi salivano verso la capitale e i curdi bloccavano le milizie sciite che volevano entrare dall'Iraq per soccorrere Assad. Ma nessuno ha difeso il regime, che si manteneva solo grazie al sostegno della Russia e dell'Iran. Il popolo ha cantato nelle strade che la Siria è una, e l'unità è stata la vera carta vincente della rivoluzione, perché nessuno più ha voluto difendere gli Assad, nemmeno sulla costa dove ci sono gli Alawiti e le basi russe: pure lì sono state abbattute le statue e la gente ha cantato inneggiando all'unione.

Ricordiamo gli inizi della rivoluzione nel 2011 e le persone che si erano organizzate in assemblee democratiche dal basso, ricordiamo gli intellettuali militanti come Omar Aziz. Dopo 13 anni di conflitti enormi e dopo un genocidio compiuto da un regime che si è dovuto appoggiare a diversi stati dittatoriali per schiacciare la popolazione civile e i gruppi armati, la rivoluzione, come una fenice, è risorta dalle proprie ceneri, lasciandoci un ultimo, dolce messaggio: la rivoluzione è un fiore che non muore.

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Il razzismo e lo specismo che stanno dietro la storia del “si mangiano i cani”. Ricostruendo la storia di un mito particolarmente dannoso.

di Jessica Scott-Reid da https://sentientmedia.org/racism-speciesism-theyre-eating-dogs/

È stato un momento storico che ha oscurato il resto della serata. Come ormai tutti sappiamo, durante il recente dibattito presidenziale degli Stati Uniti del 2024, il candidato repubblicano Donald Trump ha affermato che gli immigrati a Springfield, Ohio, stavano mangiando animali domestici, in particolare cani e gatti. Il momento è diventato virale, diventando probabilmente la frase ad effetto più chiacchierata della serata. Ma anche mentre i titoli proliferavano e le comunità haitiane in Ohio ricevevano innumerevoli minacce, il compagno di corsa di Trump, J.D. Vance, ha raddoppiato la posta, apparendo nei talk show per ripetere l'affermazione già smentita. Ma perché questa chiara disinformazione ha preso così piede nel ciclo delle notizie e nei thread dei social media? La risposta sta in una profonda storia di razzismo e nella tradizione dell’utilizzo degli animali e dell’alimentazione come un mezzo per creare e mantenere divisioni e gerarchie sociali.

Specismo e alimentazione morale In molte culture occidentali, gli animali da compagnia come cani e gatti sono generalmente visti come membri della famiglia; mangiarli è considerato abominevole. Al contrario, il consumo di altri animali (mucche, maiali, polli) avviene in massa e passa in gran parte indiscusso. Questa divisione di alcuni animali come accettabili per il consumo e altri come inadatti, immorali o addirittura impuri, riflette sia le gerarchie razziste che speciste nella nostra società. Lo specismo è generalmente definito come discriminazione o pregiudizio contro gli individui in base alla loro specie, sostenendo la convinzione che gli umani siano superiori agli altri animali e che alcuni animali siano più degni di protezione dai danni rispetto ad altri. Questo pregiudizio è generalmente basato su criteri arbitrari, non diversamente dal razzismo.

Le radici del tropo del mangiare animali domestici La pratica di condannare le persone non bianche per aver mangiato cibi considerati dalla maggior parte della società occidentale come culturalmente inappropriati non è una novità. Risalente almeno al colonialismo, l'attuale disinformazione razzista sul mangiare animali domestici è radicata in narrazioni che posizionano le comunità emarginate razzialmente ed etnicamente come inferiori e immorali. Oggi, l'idea che gli immigrati, in particolare quelli provenienti da contesti non occidentali, consumino animali da compagnia non è semplicemente un malinteso culturale, è una narrazione utilizzata per disumanizzare ed emarginare quelle comunità. È profondamente radicata sia nelle narrazioni razziste che in quelle speciste e continua a rivelare pregiudizi di fondo che hanno a lungo plasmato gli atteggiamenti della società nei confronti sia delle persone che degli animali. Per comprendere meglio le origini e le implicazioni del tropo, possiamo ripercorrere la storia, a partire dalle storie indigene, passando per la piaga della schiavitù americana fino agli stereotipi degli immigrati asiatici e alle narrazioni speciste che la caratterizzano.

La colonizzazione e l’alimentazione indigena considerata incivile Gli europei incontrarono una varietà di culture indigene nelle Americhe durante i primi periodi di colonizzazione, percependo le pratiche indigene attraverso una lente di superiorità culturale ed etnocentrismo. Le pratiche alimentari indigene (che spesso includevano la coltivazione e la raccolta di alimenti vegetali e la caccia e la cattura di animali selvatici), ad esempio, erano spesso considerate inferiori. I colonizzatori, d'altro canto, consideravano le proprie pratiche alimentari come lo standard della civiltà. “Qui iniziò il discorso coloniale di 'cibi giusti' (cibi europei superiori) contro 'cibi sbagliati' (cibi indigeni inferiori)”, scrive la dott.ssa Linda Alvarez per Food Empowerment Project. Molti gruppi indigeni in tutto il Nord America erano noti per mangiare cibi come mais, fagioli, zucca e riso selvatico, oltre a cacciare animali selvatici come i bisonti e catturarne altri come i castori. Gli europei, tuttavia, preferivano il sapore delle mucche e consideravano i cibi vegetali “cibi da carestia”. Di conseguenza, le popolazioni di bisonti furono devastate, tra il 1820 e il 1880, passando da milioni a meno di 1.000. “Gli agricoltori vedevano [i bisonti] come poco più di una specie che ostacolava i loro piani di gestire enormi allevamenti di bestiame”, scrive Shawna Gray per Sentient. “Insieme al governo, gli allevatori hanno seguito una politica violenta di decimazione delle popolazioni di bisonti, sia per spingere i popoli indigeni nelle riserve sia per liberare terreni per l'allevamento del bestiame”. L'inquadramento delle pratiche alimentari indigene come primitive e incivili ha permesso ai colonizzatori di svalutare e controllare i popoli indigeni, così come le terre e gli animali, aprendo la strada ai propri guadagni economici e territoriali. Questa demonizzazione non era semplicemente una questione di differenza culturale, ma un mezzo strategico per indebolire le culture indigene e rafforzare gli ideali europei, inclusa l'introduzione di quello che sarebbe diventato il nostro moderno e industrializzato sistema alimentare di allevamento intensivo.

Schiavitù e alimentazione razzializzata La schiavitù degli africani negli Stati Uniti ha introdotto un altro strato di pregiudizio intrecciato con stereotipi specisti e razzisti, poiché i popoli schiavizzati hanno dovuto affrontare giudizi denigratori sulle loro abitudini alimentari. Come scrisse una volta Booker T. Washington del suo periodo da schiavo, la sua famiglia riceveva i pasti come “gli animali stupidi ricevono i loro. Era un pezzo di pane qui e un pezzo di carne lì.” Le persone ridotte in schiavitù dovevano spesso sostentarsi con questi scarti di carne che, secondo Atlas Obscura, “trasformavano in piatti saporiti e soddisfacenti, ricavati dal bestiame macellato dai loro schiavisti. Uno di questi pezzi di frattaglie erano le interiora, o intestini di maiale”. Ma “senza una pulizia accurata prima della cottura, le frattaglie producono un odore orribile”, scrive Shaylah Brown in Slavery, soul food and the power of Black women. “Poiché i proprietari di schiavi pensavano che gli schiavi fossero inferiori, agli schiavi venivano date le parti dell'animale che nessun altro voleva mangiare”. A volte questo non era sufficiente. Secondo i reperti archeologici, alcune popolazioni schiavizzate integravano le loro razioni di carne di maiale e manzo catturando e mangiando piccoli animali, come procioni, tartarughe, conigli e anatre, oltre a ostriche, pesce, more e uva. Questo modo di mangiare veniva spesso usato come prova della presunta inferiorità dei popoli schiavizzati, secondo una tesi del 2016 dell'Università del Wisconsin-Madison, e per ritrarre ulteriormente le loro tradizioni come poco raffinate rispetto agli standard europei. Decenni dopo che la schiavitù non era più legale negli Stati Uniti, la narrazione di caratterizzare chiunque non fosse bianco come una specie inferiore era ancora saldamente radicata nella coscienza pubblica. I discorsi razzializzati sul cibo servivano solo a convalidare e perpetuare ulteriormente queste dure realtà della schiavitù e la continua discriminazione razziale e lo specismo che vediamo affliggere gli Stati Uniti oggi.

Immigrazione asiatica e pregiudizi xenofobi “Ho sentito il tropo razzista degli immigrati che vengono in città e mangiano gli animali domestici fin da quando ero bambina”, scrive May-Lee Chai, professoressa di scrittura creativa alla San Francisco State University, di recente su X. “Questo è un razzismo molto vecchio”. Il luogo comune deriva in parte dal fatto che in alcune culture mangiare cani è ancora legale e praticato in certe regioni. Detto questo, mentre alcuni paesi, ad esempio la Corea del Sud, sono più comunemente associati al consumo di cani, le statistiche non lo evidenziano. I dati del sondaggio del 2020 hanno rilevato che l'83,9 percento dei sudcoreani non ha mai consumato carne di cane o non lo farà in futuro. Tuttavia, lo stigma associato al consumo di cani, dovuto al fatto che è considerato culturalmente inappropriato in Occidente, è stato attribuito, senza fondamento nei fatti, a una vasta gamma di comunità di immigrati asiatici. Gli immigrati asiatici hanno iniziato ad arrivare negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, incontrando una notevole ostilità, poiché le culture asiatiche erano stereotipate e temute come “esotiche”, “barbare” e “minacciose”. Il luogo comune degli immigrati asiatici che mangiano animali domestici affonda le sue radici in questi atteggiamenti coloniali occidentali, che considerano certe cucine come intrinsecamente selvagge, perpetuando l'idea che “ti stai impegnando in qualcosa che non è solo una questione di gusto, ma una violazione di ciò che significa essere umani”, ha recentemente detto all'Associated Press Paul Freedman, professore di storia alla Yale University. L'obiettivo nel diffondere tali stereotipi, hanno detto al Washington Post Anita Mannur, direttrice del programma Asia, Pacific and Diaspora Studies dell'American University, e altri esperti, “è quello di ritrarre i nuovi arrivati come inadatti alla società americana o di suscitare disgusto nei loro confronti”. E uno dei modi per “denigrare gli asiatico-americani”, ha detto Mannur, “era quello di presentarli come 'altri' attraverso queste immaginarie abitudini alimentari: che fossero presumibilmente mangiatori di gatti, cani o topi”.

La morale della favola Mentre gli echi del dibattito presidenziale statunitense del 2024 si affievoliscono lentamente (o no), l'affermazione virale secondo cui gli immigrati stanno consumando animali domestici espone più di un semplice momento di sensazionalismo televisivo; svela una narrazione persistente radicata in secoli di razzismo e specismo. Questo tropo è così intrecciato nel tessuto della storia americana che funge da duro promemoria di quanto facilmente la disinformazione possa prendere piede, soprattutto quando alimenta stereotipi e pregiudizi esistenti.

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Addio alle armi

È il pomeriggio del 20 luglio 2001, sono davanti il televisore, con lo zaino in spalla e pronto a uscire di casa. Mia madre si è chiusa in camera e non mi rivolge la parola, troppo irritata per la mia decisione di raggiungere Genova e le contestazioni al G8. Ci sarà un treno ad aspettarmi alla stazione, che durante la notte farà il suo lento percorso per portare le decine di persone al grande corteo del giorno dopo. Mentre sto per uscire dalla porta di casa, dalla TV danno una notizia drammatica: pare che sia morta una persona durante gli scontri, pare che sia un anarchico basco.

Esco di casa con questa confusa notizia, che poi si rivelerà una di quelle che oggi chiamiamo fake news, ma nel nostro paese hanno una lunga tradizione, dall’arresto di Valpreda annunciato da Bruno Vespa al TG1. Un anarchico basco, una descrizione di un militante alieno, cattivo, distante anni luce da quello che i media vorrebbero fossero i manifestanti pacifici, quelli che non se la sono cercata. Poi emergeranno tutti i dettagli, sempre dopo gli altri tentativi goffi di depistaggio, del “tu lo hai ucciso, col tuo sasso” urlato ai compagni vicini al corpo di Carlo Giuliani. Carlo, un ragazzo come noi.

Salendo su quel treno verso Genova non conoscevo ancora il suo nome. Arrivato al grande corteo ricordo il sole alto e cocente, il lungomare ampio, gli elicotteri che vennero verso di noi sparando i lacrimogeni, quelli che contenevano il gas tossico CS, combinato col cianuro. Non sapevo nemmeno questo quando mi arrivò addosso quella scatoletta di ferro nella calca di persone ammassate: mi si chiusero gli occhi e mi si fermò il respiro, per pochi secondi che sembrarono un secolo, un’eternità. Poi la fuga dalle forze dell’ordine in una città spettrale, con la gente chiusa in casa. Poi il ritorno a casa e i discorsi sull’estintore, sulle foto di Carlo col passamontagna, le litigate sulla legittimità di una rivolta, la legittima difesa del Carabiniere che aveva ucciso Carlo Giuliani sparandogli un colpo di pistola dalla sua camionetta.

L’ho presa veramente alla lontana per parlare di questo libro, Addio alle armi di Hemingway, che narra la precipitosa fuga dei soldati italiani, la disfatta di Caporetto, durante la prima guerra mondiale. In uno dei brani più drammatici di questo libro, il protagonista si trova davanti al plotone di esecuzione improvvisato per quei soldati che stanno disertando (in realtà la fuga è così caotica che è difficile distinguere chi fugge assieme alle truppe e ai comandanti da chi sta scappando via in proprio). A guidare questo plotone di esecuzione sulle rive del fiume ci sono, appunto, i Carabinieri, con i loro cappelli grandi a tricorno, sono i predecessori di Mario Placanica, l’assassino di Carlo Giuliani. Difendono l’ordine di uno Stato giovane, che ha mandato a morire centinaia di migliaia di ragazzi da tutti i posti più remoti dello Stivale per difendere dei confini che verranno tracciati con il loro sangue alla fine di quella tremenda “inutile strage”.

Lo Stato era giovane, nato nel 1861, quando bisognava ancora “fare gli italiani” ossia appiattire su un discorso unitario regioni e lingue così distanti, messe in riga da un centro di potere, la monarchia sabauda, che in fin dei conti parlava francese. Decenni dopo un erede Savoia in esilio avrebbe urlato “italiani di merda” sparando a un gruppo di ragazzi in vacanza uccidendo un povero turista in una barca. La creazione di quello Stato ha avuto un filo conduttore, l’Arma, che ha messo in riga più volte disertori e disertrici, povere, operaie e chiunque abbia avuto la forza di ribellarsi, come Carlo Giuliani, che il 20 luglio del 2001 scese tra le strade della sua città per protestare contro i potenti del mondo, perché nel cuore aveva un sentimento, una voce che gli diceva che no, le cose non dovevano continuare ad andare così.

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La traversata del deserto

Cercando di dare, con tutti i miei limiti (che sono tanti) un minimo contributo personale al movimento per la Palestina, mi sono riaffacciato in questi mesi alle assemblee di movimento, che avevo abbastanza tralasciato negli ultimi tempi, pur risalendo il mio altalenante attivismo politico (se così lo possiamo chiamare, come riflettevo in uno dei post di questo blog) alle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001. Tante erano e sono le mie perplessità nel collaborare con singoli ed organizzazioni della sinistra italiana, ma di fronte ad un genocidio (mi sono detto) forse non vale la pena andare troppo per il sottile. Per cui non rimpiango di aver dato il mio seppur miserrimo contributo alla causa.

Il mio disagio però è stato costante e crescente, soprattutto nel dover ascoltare alcune affermazioni riguardanti non la questione palestinese ma la contemporanea questione del conflitto in Ucraina. Si sa che è difficile tenere le due situazioni completamente separate, perché stiamo parlando di mobilitazioni su temi di politica internazionale e conseguenti ricadute nel locale, però le considerazioni che ho sentito mi hanno lasciato davvero perplesso, per usare un eufemismo.

Ho sentito in questi mesi affermazioni quali l'esistenza pre 2022 di un Donbass sovietico, l'importanza di una lotta per l'autodeterminazione del Donbass, il genocidio ai danni del Donbass, i nazi-sionisti ucraini, la NATO che ha provocato la guerra, la Russia accerchiata, l'escalation militare voluta dall'Occidente etc. etc. Tutte cose che bene o male leggiamo da anni sui siti dei vari gruppi comunisti, anti-imper, antagonisti etc. Certo sentirle dal vivo fa un altro effetto, perché nello stesso momento magari le forze armate russe stanno bombardando un ospedale in una regione dell'Ucraina, sganciando missili su Kiev o Leopoli (a poche decine di km di distanza dalla Polonia e a migliaia di km distanza dal Donbass).

In questi mesi ho cercato di ascoltare anche la campana di vari gruppi anarchici che sono per il disfattismo e la diserzione e ci sono pure degli argomenti che potrebbero avere un loro fondamento. Però quello che non riesco a togliermi dalla testa è che tutte le ricostruzioni benevole con la Russia che leggo partono da una lettura storica del conflitto regionale che mi sembra completamente disonesta. Riassumendo, non è affatto vero che, come dice Sua Santità Papa Francesco, l'Occidente abbia abbaiato alle porte della Russia, tanto da giustificare un intervento così devastante di Putin con la sua “operazione speciale”. Tanto meno ho visto mai una reale esistenza di un movimento antifascista nel Donbass, i cui leader indipendentisti (prima di essere definitivamente cooptati nel fronte russo) furono dei criminali nazisti.

Questo mi sembra un punto decisivo per discutere della questione, perché io non credo che si possa dare una sostanziale adesione alla narrazione di Putin di un intervento necessario per sconfiggere i nazisti che avevano ostacolato l'autodeterminazione della Repubblica del Donbass. Ci sono analisi molto più complesse della mia su questo punto (ovviamente troverete anche le tesi opposte ben documentate) ma non mi sembra affatto che l'Ucraina o l'Occidente o la NATO abbiano la responsabilità di questa carneficina ancora in atto. Il governo Zelensky era accusato di essere troppo accondiscendente verso la Russia e il conflitto in Donbass era sostanzialmente in una fase di stallo. Non credo che nemmeno chi ritiene veritiero lo scenario di un Donbass antifascista possa essere d'accordo che una lotta per l'indipendenza debba comportare questo massacro avviato da Putin nel 2022.

Ulteriore capitolo, la questione politica in Ucraina e il ruolo dei nazionalisti nel periodo da Maidan ad oggi. Si è ritenuto il ruolo del famigerato battaglione Azov non solo centrale ma sufficiente per bollare un'intera nazione come Stato canaglia da purgare, come sostiene appunto Putin. Le prime proteste anti russe nacquero da un sentimento genuino contro la corruzione e contro il controllo imperialista di Mosca, ma furono subito bollate come etero dirette dall'Occidente nelle sue fasulle rivoluzioni colorate. Anche qui, non è credibile una lettura storica del genere, perché sostanzialmente l'Ucraina si è data una sua indipendenza con un referendum democratico, votato a maggioranza anche in Donbass; si è data al disarmo nucleare completo, fatto eccezionale e credo unico nella storia; si è data infine un governo che non era nemmeno troppo ostile verso Mosca, e la destra estrema era stata anche messa ai margini della politica, diversamente da dittature come quella russa. In sostanza, l'Ucraina era di fatto già un paese a suo modo neutrale nello scacchiere internazionale, solo che Mosca lo riteneva nella sua sfera di influenza, ma non così la popolazione ucraina, che ha lottato per la sua indipendenza politica dalla Russia. Prima di ogni intervento occidentale e di ogni Occidente che abbia abbaiato alle porte del sacro impero neo zarista, c'è una volontà popolare che dovrebbe essere ben riconoscibile da chi voglia vedere le cose come stanno e non abbia il preconcetto che Russia = Ex URSS quindi Donbass sovietico quindi buono.

Arriviamo a un altro punto critico, ovvero il sostegno armato da parte dei paesi occidentali a Kiev e il ruolo degli USA. Qui la situazione si fa ovviamente più vischiosa perché a nessuno piace un aumento degli armamenti, non piacciono i morti, gli eserciti e gli stati nazione. Si dovrebbe pure dire, d'altra parte, che quando la Russia ha distrutto la Siria consegnandola ad Assad (con massacri di civili, uso di armi chimiche, migrazione di milioni e milioni di siriani) e gli USA non sono intervenuti, non è che sia andata molto meglio. Certo poi la NATO, che prima dell'azzardo di Putin sembrava alquanto divisa, si è per certi versi ricompattata. Bisognava lasciare da solo l'esercito ucraino? Bisognava fare come ha fatto il sindacato italiano USB ovvero cercare di bloccare l'invio dei primi mezzi militari difensivi a Kiev? Il mancato arrivo di una contraerea serve a difendere la pace oppure a lasciare che un condominio venga raso al suolo più facilmente? A queste domande, che non reputo retoriche, ma che riguardano tuttx noi che siamo nei movimenti in Occidente, alcuni gruppi hanno risposto con una sicurezza sprezzante, alimentando il mito del Donbass socialista, in alcuni casi anche del ruolo positivo dell'asse della resistenza Russia-Iran-Corea del Nord, oppure sulla base di un pacifismo integrale.

Diversa forse è la posizione del disfattismo rivoluzionario per il quale c'è in atto uno scontro tra imperialismi, bisogna aiutare solo chi diserta e che si fottano Putin e la NATO. Questa concezione, che reputo dal mio modestissimo punto di vista forse un poco più apprezzabile di quella dei nostalgici dell'URSS, per i quali l'Ucraina può scomparire dalla cartina geografica e tutta la popolazione deportata in Polonia o in Germania o fatta sparire nella notte, ha il suo limite nel considerare Ucraina = NATO. Certo io non saprei nemmeno dire cosa riuscirei a fare in un paese in guerra, magari sarei il primo a darmela a gambe, però nemmeno considero a priori un nazista chi sta resistendo ad una invasione che ricordiamo è avvenuta non solo in Donbass ma su larga scala, sfiorando i confini di altri stati europei. Ma la mia è una considerazione personale, poi i gruppi politici devono fare le loro piattaforme e molti hanno visto nella contrarietà all'invio di armi in Ucraina un modo semplice e immediato per arrivare alla pace. Ma sarà davvero così?

Certo che sarebbe bello se domani mattina finissero i massacri (magari questo conflitto ha i giorni contati) lasciando sulla scia l'enorme mole di cadaveri e devastazione provocata dalla criminale scelta del regime russo di invadere un intero paese confinante. Mi chiedo che cosa possiamo fare noi da qui. Alcuni gruppi sparuti in Italia si sono impegnati in azioni di solidarietà e sostegno alla resistenza ucraina, ricevendo critiche per aver indirettamente sostenuto un esercito nazionale. Poi, come dicevo, c'è chi si è mosso per una vittoria della Russia, che sarebbe una catastrofe per tutta l'Ucraina e il pianeta intero.

Recentemente ho letto una risoluzione della Quarta Internazionale che mi è sembrata intelligente, per cui ne riporto qui di seguito il paragrafo intitolato “Il popolo ucraino difende il proprio diritto all’autodeterminazione nazionale”: “Con l’invasione dell’Ucraina, l’esercito di Putin ha accelerato il rimodellamento del mondo. Con la sua aggressione il regime di Putin sta riproducendo le relazioni di dominio ereditate dall’impero zarista, con qualche ammiccamento allo stalinismo e una convergenza con le ideologie di estrema destra di tutto il mondo.

A lungo termine la guerra sta infliggendo queste atrocità. La Russia continua i bombardamenti nelle aree civili, ad attaccare le infrastrutture ucraine (ferrovie, strade, scuole, ospedali, fabbriche, magazzini, ecc…) in tutto il Paese. Nelle zone occupate, gli stupri, i massacri, la distruzione di Mariupol e i bombardamenti che colpiscono i civili – che la Russia presume di “proteggere”- vanno di pari passo con la russificazione forzata: l’imposizione repressiva di passaporti russi, la distruzione della cultura ucraina, la deportazione dei bambini, ecc. ..Milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire dalle loro case o a lasciare il loro paese, lacerando le loro le famiglie e le reti sociali, trasformandoli in profughi, trasformandoli in rifugiati nei diversi Paesi.

È la resistenza popolare armata e civile all’invasione del febbraio 2022 (non voluta da Putin e dalle potenze occidentali) che ha costretto Putin a modificare gli obiettivi della sua offensiva militare che avrebbe dovuto “denazificare” l’Ucraina e proteggere le popolazioni russofone del Donbass. Il fronte di terra si è stabilizzato (inizio 2024) dopo enormi perdite umane, senza che le forze russe siano riuscite a stabilizzare il loro controllo sull’insieme dei territori russi.

In Russia e Bielorussia, coloro che osano parlare di “guerra” al posto di quella che è ufficialmente è una “operazione militare speciale”, o che esprimono la minima opposizione ad essa, vengono criminalizzati. Nel settembre 2023 la mobilitazione parziale di circa 300.000 truppe ha provocato la fuga di centinaia di migliaia di giovani – spesso privi dello status di rifugiato – mentre le loro famiglie vengono minacciate in Russia. Migliaia di civili nelle zone di confine russe sono ora vittime della guerra di Putin, sotto gli attacchi dei droni e dei proiettili ucraini.

Per ora, l’aggressione russa ha permesso il consolidamento e l’allargamento della NATO ai paesi dell’Europa orientale vicini alla Russia. Proprio per questo la sconfitta di questa invasione e della logica imperiale russa è un fattore decisivo per il successo di una campagna popolare in tutta Europa per lo smantellamento di tutti i blocchi militari: NATO, CSTO, AUKUS”.

Anche io penso che, contrariamente a quanto sostengono i campisti nostrani, una vittoria della Russia non segnerà affatto una sconfitta del blocco NATO ma semplicemente una esasperazione della contrapposizione militare e in futuro altre disgrazie per le altre popolazioni che verranno aggredite dall'imperialismo russo. Come sottolinea il documento, la resistenza ucraina è partita dalla gente, non da Washington, che avrà le sue mire imperialiste ma ha anche aiutato di fatto a non collassare tutto il fronte. Come dicevo prima, gli USA hanno voltato le spalle alla rivoluzione siriana, dando solo una mano ai curdi contro l'ISIS, e si è visto come è finita.

In conclusione, in questo mio post non ho voluto fare ragionamenti esasperati o unilaterali né tanto meno sparare proclami di guerra, che non mi appartengono, conoscendo anche i miei limiti di analisi. Quando mi arrivò la chiamata a fare il servizio militare (esisteva ancora la leva obbligatoria) feci la mia obiezione di coscienza e ricordo di essermi anche iscritto in quel periodo ad un'associazione che si chiamava AON, Associazione Obiettori Nonviolenti. Ho fatto il servizio civile ma se non fosse esistita questa alternativa (frutto delle lotte dei pacifisti italiani, da Ernesto Balducci, Don Milani, Aldo Capitini a tantissimx altrx) difficilmente mi sarei fatto i mesi di leva. Però, purtroppo, dobbiamo vivere in una realtà che è questa, una realtà che vede ancora il fascismo aggressivo militarmente e molte persone sono costrette a farci i conti e non dovremmo lasciarle da sole.

Se e quando la guerra in Ucraina sarà finita, oppure da oggi, dovremmo allora compiere una nostra traversata nel deserto, un cammino stretto tra militarismi, imperialismi contrapposti, un fascismo mondiale aggressivo, il sostegno necessario alla lotta palestinese e altre sfide improbe e direi quasi improbabili per le nostre forze. Alla fine dovremmo avere chiare le idee almeno su come contrastare i nostri nemici senza la scorciatoia illusoria del sostegno alle dittature anti occidentali, che sono la brutta copia delle democrazie imperialiste. Non sono ottimista in questo momento e non voglio terminare con nessun appello, semplicemente mi piacerebbe poter costruire delle alleanze con le persone politicamente più vicine senza dovermi trovare ad ascoltare chi inneggia a dittatori, massacri, stupri e violenze di ogni tipo, sognando il revival di una realtà sovietica che forse non è mai esistita per come la descrivono loro. In questo momento storico la fascinazione per le teorie rossobrune, complottiste, fascisteggianti etc. è molto forte, ne ho parlato qui nel blog rispetto al successo postumo di Costanzo Preve.

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La lotta dell’estrema destra italiana contro vegani e immigrati

Come il cibo viene politicizzato in una cultura nota per la sua cucina. Di Gray Fuller. Fonte: https://sentientmedia.org/italian-far-right-vegans-immigrants/

In mezzo alla cucina ricca di carne, formaggio e burro del Nord Italia, un ristorante vegano a Torino è pieno di clienti. Daniela Zaccuri, proprietaria e chef di Mezzaluna, attinge alle culture culinarie di tutta Italia e del mondo per creare una cucina tradizionale italiana veganizzata. Qui troverete una fusione di cibo che va dai broccoli al curry alla torta di mele italiana. Ma negli ultimi decenni di politica e propaganda, l'estrema destra italiana ha tentato di criminalizzare la cucina vegana. In Italia, una nazione ancora macchiata dalla politica del fascismo, si sta combattendo una guerra culturale sul cibo. Dalla sua ascesa al potere nel 2022, una coalizione di partiti di estrema destra guidata dal Primo Ministro italiano Giorgia Meloni e dal Vice Primo Ministro Matteo Salvini ha trasformato il cibo in un oggetto di scena politico. Salvini, che guida il partito di destra Lega, pubblica foto e contenuti video in difesa dei suoi cibi italiani preferiti. Di recente, il politico ha dichiarato che “ora più che mai, mangiare italiano è un atto politico”. Mentre il nazionalismo cresce in Europa e in Italia, una nazione in cui l'importanza del cibo è seconda a nessuno, l'estrema destra sta consolidando ciò che conta come italiano.

Sentimento anti-vegano in Italia

L'anno scorso, l'Italia ha vietato la produzione e la vendita di carne coltivata in vitro, una mossa che probabilmente si scontrerà con le normative sul libero scambio dell'Unione Europea. In difesa del divieto, Salvini ha collegato la carne coltivata in vitro a un mercato del lavoro in declino, alla crescente burocrazia e all'immigrazione incontrollata. Ha messo insieme queste questioni e ha affermato che l'influenza e la regolamentazione dell'Unione Europea sono da biasimare per i problemi dell'Italia. Il cibo è semplicemente il sostituto per dimostrare il suo punto di vista politico. Il ministro ha persino definito la carne coltivata in vitro una delle “questioni concrete” contro cui si oppone la sua coalizione conservatrice.

Oltre a vietare quella che molti considerano un'alternativa sostenibile alla carne, sono state istituite multe di migliaia di dollari per prodotti alimentari a base vegetale con nomi come “bistecca di cavolfiore” e “prosciutto vegetariano”. Nonostante la vulnerabilità dell'Italia al cambiamento climatico, tra cui l'innalzamento dei livelli del mare che minaccia Venezia, i politici conservatori vedono il veganismo come una minaccia per la loro cultura piuttosto che una soluzione per il clima. Queste restrizioni, insieme ad altre in Francia, Florida, Alabama e Texas, riescono a criminalizzare la scelta del consumatore. Zaccuri è rimasta sconcertata dalla legge. “Penso che sia uno scherzo”, sogghigna. La chef vegana sostiene che mangiare a base vegetale può effettivamente essere italiano, offrendo la sua interpretazione della cucina tradizionale che ama. In cucina, marina le alghe per imitare le acciughe presenti nella “bagna càuda” (una salsa piccante piemontese) e prepara una maionese con latte di soia per la sua “insalata russa” (un'insalata fredda di verdure simile all'insalata di patate americana).

Mentre sia il veganismo che l'immigrazione in Italia stanno crescendo, l'estrema destra sembra accontentarsi di mantenere la sua posizione culturale. Nel 2016, proprio mentre il sindaco di Torino emanava un piano cittadino per promuovere un'alimentazione a base vegetale, un politico conservatore ha redatto una proposta di legge che avrebbe imposto la prigione ai genitori che avevano cresciuto i propri figli con una dieta vegana. La proposta di legge, che non è diventata legge, è stata proposta dopo che un tribunale italiano ha ordinato a una madre vegana di dare ai propri figli carne in un accordo di divorzio. Nel mezzo del dibattito, l'allora leader dell'opposizione Giorgia Meloni ha scattato una foto con un macellaio e ha affermato la sua solidarietà sia con gli allevatori di bestiame che con il suo partito politico neofascista, Fratelli d'Italia. “Lancia un sacco di carne rossa ai suoi sostenitori”, ironizza Diana Garvin, PhD. Garvin è professoressa di alimentazione e politica presso l'Università dell'Oregon e afferma che il Primo Ministro italiano anti-aborto, anti-gay e anti-immigrazione usa la carne per rappresentare questioni culturali più ampie e ottenere il voto degli allevatori del paese. (In America, la stessa guerra culturale sulla carne è in corso, combattuta sui campi di battaglia della mascolinità, del denaro e dell'influenza politica.) Salvini contrappone la carne italiana di produzione propria a quella che lui dipinge come la burocrazia dell'Unione Europea. Associa spesso farine di insetti e carne coltivata in laboratorio all'UE, e il suo slogan elettorale più recente è stato “Più Italia, meno Europa!”

Razzismo culinario in Italia

Nel 2019, quando l'arcivescovo di Bologna organizzò una festa per la città e servì tortellini di pollo, anziché di maiale, in modo che i residenti musulmani potessero cenare, la destra italiana si indignò. Nell'ideale di cucina italiana della destra, i tortellini sono ripieni di maiale, e la recente immigrazione non ha cambiato i piatti nazionali del paese. Parlando di immigrazione, il primo ministro Meloni ha affermato che “c'è un problema di compatibilità tra la cultura islamica e i valori e i diritti della nostra civiltà”.

Questa retorica “noi contro loro” modella il modo in cui è consentito mangiare cibo e come alcuni cibi possono persino essere resi illegali. Sulla scia dell'aumento dell'immigrazione, un'ondata di divieti sui cibi stranieri ha travolto tutta l'Italia. A partire dal 2009, la città di Lucca ha proibito l'apertura di nuovi ristoranti cosiddetti “etnici”. Da allora, città come Firenze, Verona e Trieste hanno tutte posto fine alla cucina straniera nel tentativo di proteggere quelle che considerano le proprie tradizioni culinarie. Quando la città di Venezia ha vietato di servire kebab in città, il suo sindaco ha affermato che la prelibatezza mediorientale era “non compatibile con la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale di Venezia”. Garvin immagina una scala mobile che va dall'orgoglio alla xenofobia. Secondo il professore di cibo e politica, la scala si è inclinata verso l'esclusione in Italia. C'è una sensazione, alimentata dai leader di destra, che qualcosa di fondamentale per l'identità italiana venga corrotto da estranei.

“Il cibo è un sostituto delle persone”, afferma Garvin. La conservazione della tradizione può essere un sostituto del razzismo. “Cos'è la tradizione?” ribatte Zaccuri. Per creare la sua interpretazione del cibo italiano, la chef attinge da tradizioni alimentari come il tofu cinese e il seitan giapponese, che precedono le tradizioni italiane. Prepara curry dall'India, salse dalla Thailandia. Il suo ristorante è un riflesso della fusione culturale, una realtà moderna così facilmente trascurata dai politici e dai puristi del cibo che vorrebbero tornare indietro nel tempo. In effetti, il cibo italiano è sempre stato una fusione. La pasta è stata probabilmente importata dall'Asia o dal Medio Oriente e la pizza è stata resa popolare dagli americani. Nelle loro condizioni attuali, secondo Garvin, questi piatti popolari sono in circolazione solo dalla metà del 1900. Prima di allora, i pomodori per le salse, il mais per la polenta e le patate per gli gnocchi provenivano tutti dal Nuovo Mondo. Influenzato dalle tradizioni culinarie e dagli ingredienti di tutto il mondo, il cibo italiano si sta ancora evolvendo nel presente. Il grano per la pasta della nonna arriva da lontano come il Canada, e Salvini ha ragione a chiarire che le nocciole della Nutella made in Italy provengono dalla Turchia; anche se il suo rifiuto della crema spalmabile al cioccolato e nocciole è probabilmente dovuto a pregiudizi.

Gastronazionalismo in Italia

Gianfranco Marrone, PhD, professore italiano all'Università di Palermo, studia il simbolismo e il discorso attorno al cibo italiano. Lui, come lo chef Zacurri, è scettico nei confronti della politica alimentare di estrema destra. Secondo lui, c'è qualcosa nel gastronazionalismo, che significa usare il cibo per preservare l'identità politica di un paese, che “non ha senso”. Un ministro in carica ha urlato a una folla che gli piace il maiale e che i vegani dovrebbero “superarlo”, e la più grande lobby agricola italiana ha dichiarato che “la carne in provetta cancella l'identità popolare di un'intera nazione”. Da un lato, i politici conservatori si sono preoccupati di una minoranza di italiani che, secondo loro, stanno corrompendo la cultura della nazione. D'altra parte, però, non ci vuole molto per vedere attraverso ciò che Marrone chiama la loro “identità completamente falsa della cucina italiana”.

Quando gli viene chiesto se la carne sia così centrale per l'identità italiana come sostengono alcuni politici, Zaccuri dice, “dipende dalla regione”, e l'Italia ha molte regioni, ognuna con la propria cucina. Mentre la cucina del Nord Italia è stata storicamente plasmata da piatti di carne pesanti e saporiti, il Sud segue la dieta mediterranea più vegetariana, sebbene con tanto pesce. Nel complesso, dice Marrone, “la carne in Italia ha una forte tradizione gastronomica, ma non come in altri paesi europei o in America”.

L'industria della carne e il consumo di carne in Italia

Gli italiani mangiano, in media, circa un terzo di libbra di carne in meno rispetto agli americani, che ne consumano quasi una libbra al giorno. Mangiano anche meno carne rispetto ai francesi e agli spagnoli. L'industria della carne italiana macella circa 600 milioni di animali e produce circa 4 milioni di tonnellate di carne all'anno, ma è surclassata dalla produzione americana. L'industria della carne italiana è cresciuta notevolmente dagli anni ottanta, mentre l'industria della carne statunitense, che macella circa 10 miliardi di animali e produce 48 milioni di tonnellate di carne all'anno, ha aumentato costantemente la produzione.

Mentre una ragione della recente ossessione dell'Italia per i vegani e gli immigrati che non mangiano certe carni potrebbe essere trovata all'interno delle preoccupazioni del settore, la realtà è che il fascismo, in particolare il fascismo alimentare, non ha bisogno di una giustificazione ragionevole. Il gastronazionalismo riguarda molto più il nazionalismo che la cucina; i fatti non contano rispetto a ciò che dicono i politici e a ciò che le persone sentono. Il cibo rappresenta molto di più di ciò che c'è nel piatto, e il nostro senso del gusto è così soggettivo. La cultura di un paese è plasmata dalle persone ma plasmata dalla politica, e l'estrema destra in Italia, come un presuntuoso critico gastronomico, crede di avere l'autorità di dettarla. La popolarità di un ristorante vegano fusion nel Nord Italia potrebbe spiegare perché gli estremisti di estrema destra della nazione stanno facendo del loro meglio per porre fine all'evoluzione.

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