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“I siriani festeggiano quando i generali russi, coinvolti in crimini di guerra in Siria, vengono uccisi in Ucraina”. Intervista con Leila Al-Shami di Maria Shinkarenko.

fonte: https://commons.com.ua/en/intervyu-pro-siriyu-z-lejloyu-al-shami/

MS: Per la stragrande maggioranza degli ucraini, la Siria prima del 2011 era probabilmente solo un altro paese arabo, ma dopo l’inizio della guerra è diventata il simbolo del corso che non vorremmo vedere ripetuto in Ucraina. Cosa distingueva il regime di Assad da regimi simili in Nord Africa?

LA: Nel corso della sua storia, la risposta del regime di Assad a qualsiasi tipo di dissenso è sempre stata la repressione violenta. Negli anni ’70 ci fu un movimento contro il regime di Hafez Al Assad (il padre dell’attuale presidente). Quello che originariamente era iniziato come un movimento diversificato, ha finito per concentrarsi nella città di Hama e guidato dai Fratelli Musulmani. La risposta del regime fu quella di inviare l’aviazione e distruggere completamente la città. Tra i 20.000 e i 40.000 civili furono uccisi e altre migliaia scomparvero nelle prigioni del regime. Quando nel 2011 scoppiò la rivoluzione contro il regime, molti siriani erano ottimisti e pensavano che Bashar Al Assad avrebbe introdotto le riforme. Era al potere da un decennio e molti credevano che fosse fondamentalmente diverso da suo padre; che era un modernizzatore più rivolto all'esterno. Quando salì al potere parlò molto della necessità di riforme, concentrandosi però principalmente su quelle economiche piuttosto che su quelle politiche. Alla fine, ha risposto alle richieste del popolo nell’unico modo che questo regime conosce: terrorizzandolo fino alla sottomissione. Avendo lavorato nel campo dei diritti umani in Siria – con i prigionieri politici, durante il primo decennio al potere di Bashar, mi aspettavo che la risposta alla rivoluzione iniziata nel 2011 sarebbe stata la repressione. Anche se non mi aspettavo la portata dell’orrore che si è verificato, non ero nemmeno ottimista sul fatto che Assad si sarebbe dimesso rapidamente, come abbiamo visto fare ai dittatori in Tunisia ed Egitto. In Egitto, il regime militare era al potere e il suo volto era Mubarak. Quindi è stato facile per loro sacrificare Mubarak e mantenere i militari al potere. In Tunisia è stato simile e potevano sacrificare Ben Ali: c'era una transizione verso la democrazia, ma la vecchia classe dirigente aspettava di tornare. In Siria è un po’ diverso. In Siria il capo del regime è il regime. Il potere è fortemente concentrato nelle mani della famiglia Assad. Inoltre, il regime ha giocato la carta settaria – quella della minoranza alawita – riuscendo così a mantenere il sostegno di molte minoranze contro l’opposizione prevalentemente sunnita contro la quale era pronto a mettere in atto una violenza genocida. Inoltre, il regime ha avuto il sostegno della Russia e dell’Iran che sono intervenuti per proteggerlo.

MS: Il sostegno russo ha avuto un ruolo significativo nell’aiutare Assad nel momento più difficile per lui?

LA: Sia la Russia che l’Iran sono intervenuti per sostenere il regime nei momenti in cui era prossimo al collasso e sembrava che la rivoluzione potesse avere successo. L’Iran ha dato alla Siria un massiccio sostegno finanziario ed economico e ha inviato molte milizie a combattere in Siria, il che ha dato al conflitto una dimensione settaria, poiché le milizie sciite appoggiate dall’Iran stavano combattendo la maggioranza sunnita siriana. E l’Iran è intervenuto direttamente nel 2013, consentendo al regime di compiere progressi significativi contro l’opposizione. La Russia ha fornito aerei e bombe e fornisce sostegno politico al regime nei forum internazionali. E la Russia è intervenuta militarmente direttamente nel 2015 e ha bombardato molte parti del Paese. Se la Russia e l’Iran non fossero intervenuti, Assad sarebbe stato costretto a ritirarsi già da tempo. Sono il sostegno straniero e le bombe straniere a mantenere il regime al potere, contro la volontà della stragrande maggioranza della popolazione siriana.

MS: Quando stavo leggendo il tuo libro Burning Country: Syrians in Revolution and War, non potevo credere che una simile tragedia potesse accadere su tale scala. Vedendo gli orrori che si svolgono in Ucraina, le atrocità affrontate dai siriani diventano più tangibili per noi, quindi provo davvero empatia per il popolo siriano.

LA: Sì, è devastante. È ancora più difficile perché questo orrore è iniziato da una posizione di grande speranza e fiducia nella rivoluzione. La rivoluzione ha avuto tanti successi. Abbiamo visto, in tutto il Paese, persone auto-organizzarsi per gestire i propri affari quotidiani, istituendo consigli locali indipendenti ed eleggendo i propri membri: la loro prima esperienza di democrazia da decenni. La gente gestiva scuole, strutture idriche e igienico-sanitarie, ospedali. Fondarono giornali e stazioni radio indipendenti. Molti centri femminili furono istituiti per incoraggiare le donne a svolgere un ruolo attivo nella rivoluzione e nella vita comunitaria. Niente di tutto ciò era possibile sotto il totalitarismo di Assad, dove tutta la società civile era ridotta. Questa è sempre stata la minaccia più grande per il regime – perché dimostrava che un’alternativa democratica era possibile – ed è per questo che è stata repressa così selvaggiamente.

MS: Potresti raccontarci qualcosa della politica internazionale del regime siriano prima del 2011? Quali erano i rapporti con l’URSS durante la Guerra Fredda? In che modo ciò ha influito sul regime?

LA: La Siria aveva stretti rapporti con l’URSS durante la Guerra Fredda, anche se il regime siriano reprimeva brutalmente i comunisti. L’URSS sponsorizzò Hafez Al Assad, costruendo relazioni per espandere la propria sfera di influenza in opposizione alle potenze occidentali. Ha fornito armi, addestramento e intelligence all’esercito siriano. Molti siriani si recarono in URSS per studiare durante questo periodo. L’URSS usò questo tipo di scambio culturale come tattica per indottrinare i cittadini dei paesi alleati con la sua ideologia. Di recente ho parlato con attivisti dell’Africa occidentale e loro hanno condiviso storie simili sull’Unione Sovietica che aiuta gli africani a studiare lì. Alcuni di questa generazione di africani ora sostengono gli interventi di Putin in Africa, vedendoli come un baluardo contro l’imperialismo occidentale/francese, quindi questa tattica ha funzionato. Quando l’Unione Sovietica crollò, Hafez Al Assad fu molto veloce a rivolgersi agli Stati del Golfo e iniziò ad attuare riforme neoliberali per aprire il paese agli investitori del Golfo. Ma i rapporti con la Russia furono mantenuti e quando Putin salì al potere, volle rilanciare i rapporti con il Medio Oriente, considerandolo utile nella lotta geopolitica della Russia contro l’Occidente. Non credo che la Russia veda alcuna affinità ideologica con il regime siriano e non lo percepisca come un partner importante. Penso che il sostegno della Russia ad Assad sia stato utilizzato come un modo per contrastare l’influenza occidentale e, nel caso della Siria, la Russia è ora più influente delle potenze occidentali.

MS: Mi chiedevo anche se la Russia sfruttasse le opportunità educative per il Sud del mondo per diffondere le proprie idee. Uno dei miei medici qui a Vienna è siriano e accetta soprattutto pazienti ucraini perché parla russo. Abbiamo avuto una discussione politica e lui mi ha detto che veniva dalla Siria, quindi ci siamo scambiati la nostra solidarietà. Ma la prima cosa interessante è che è andato a studiare in Russia, dove ha imparato il russo. E poi il suo Paese sperimenta l’intervento e i bombardamenti russi. Pertanto mi chiedo: come vedono oggi la Russia i siriani?

LA: La risposta a questa domanda dipende da quali siriani chiedi. Perché i siriani affiliati al regime vedranno la Russia come un alleato, anche se anche all’interno di quel campo c’è preoccupazione per l’influenza esterna, che provenga dalla Russia o dall’Iran. Ma per il resto di noi, la maggioranza, la Russia è una potenza imperialista. È intervenuto per sostenere una dittatura fascista intenta a compiere un genocidio contro il popolo siriano. I bombardamenti aerei russi hanno distrutto gran parte del paese e hanno preso di mira specificamente le infrastrutture civili, come gli ospedali, nelle aree controllate dall’opposizione. La Russia è stata ricompensata per il suo sostegno con lucrosi contratti per petrolio e gas. Alla società russa Stroytransgaz, di proprietà di un oligarca legato al Cremlino, verrà concesso il 70% di tutti i ricavi dalla produzione di fosfato per i prossimi cinquant’anni. La Siria ha una delle più grandi riserve mondiali di fosfati. Sono state istituite basi militari russe e le festività nazionali russe sono ora “celebrate” in Siria. Il sostegno che la Russia dà al regime non è solo militare, ma anche politico. Ad esempio, sulla scena internazionale, la Russia svolge in Siria lo stesso ruolo che gli Stati Uniti svolgono per Israele. Qualsiasi mozione portata davanti al Consiglio di Sicurezza o davanti agli organi delle Nazioni Unite è sempre sottoposta al veto della Russia. La Russia offre quella protezione politica per fermare qualsiasi mezzo di responsabilità internazionale o per portare avanti un accordo di pace che non sia nei termini del regime. La Russia è stata molto attiva nel cercare di garantire “accordi di pace”, ma non si tratta di veri e propri accordi di pace. Stanno cercando di forzare la capitolazione dei siriani ai termini del regime.

MS: Hai detto che ci sono diversi siriani e persone con opinioni diverse. E la Siria oggi è in gran parte associata allo jihadismo e alla lotta settaria di tutti contro tutti. Ma la rivoluzione siriana è iniziata come una protesta democratica di massa che di fatto ha unito cittadini di diverse origini etniche e confessioni. Quindi, quanto dell’attuale frammentazione e settarismo della lotta è dovuto alle politiche del “divide et impera” del regime, agli jihadisti e all’incapacità dell’opposizione democratica di trascendere realmente i pregiudizi e le meschine ambizioni di una più ampia solidarietà?

LA: Giusto per essere chiari sulla struttura del regime: la famiglia Assad proviene dalla setta Alawi, che è una minoranza in Siria. La maggioranza della popolazione è musulmana sunnita, ma ci sono anche sciiti, cristiani, drusi e altri. Quando iniziò la rivolta, si trattava di un movimento molto diversificato. Comprendeva uomini e donne di ogni estrazione sociale, di tutti i diversi gruppi religiosi ed etnici. Ci sono stati molti tentativi per non cadere nel settarismo. Durante le proteste le persone chiedevano l’unità di tutti i siriani, brandendo cartelli e striscioni che lanciavano appelli alle comunità minoritarie, ecc.

Naturalmente, un forte movimento democratico e non settario rappresentava la più grande minaccia per il regime di Assad perché avrebbe potuto ottenere sostegno a livello internazionale. Quindi il regime di Assad ha dovuto settarizzare e islamizzare il conflitto. E lo ha fatto molto deliberatamente: un’ingegneria settaria, per così dire. Ad esempio, nel 2011-2012, quando il regime radunava e deteneva tutti questi manifestanti pacifici a favore della democrazia, ha rilasciato molti estremisti islamici dal carcere. E molti di quelli rilasciati finirono per guidare alcune delle brigate più intransigenti che esistessero. Ad esempio, Hassan Aboud, uno dei fondatori di Ahrar al-Sham, è stato rilasciato, e Zahran Alloush, l'ex leader di Jaysh al-Islam, così come persone che sono diventate grandi figure di Jabhat al-Nusra, che era l'Al -Affiliato di Qaeda e anche dell'ISIS. Il motivo per cui il regime lo ha fatto è stato quello di inviare un messaggio sia al pubblico esterno che a quello interno. Dall'esterno voleva dire: guarda, questa fa parte della guerra al terrorismo, stiamo combattendo gli estremisti islamici, potrei non piacerti, ma questi ragazzi con la barba sono dieci volte peggio. Internamente, stava inviando un messaggio ai gruppi minoritari, alla comunità alawita, ai gruppi cristiani: ripeto, potrei non piacervi, ma l’alternativa è peggiore, e se questi estremisti islamici saliranno al potere, le minoranze non saranno sicuro. Quindi è stata una tattica che ha funzionato sia a livello interno che a livello internazionale. Il regime ha anche creato conflitti settari inviando bande armate di gruppi alawiti noti come Shabiha nelle comunità sunnite per compiere massacri. L’idea era quella di provocare una risposta e di convincere le comunità sunnite ad entrare nelle comunità alawite e sciite e a commettere massacri. E a volte funzionava, c'era una ritorsione. Ma esattamente come dici tu, è una politica del “divide et impera”. E purtroppo oggi ci sono molti gruppi minoritari che non necessariamente sosterrebbero il regime, ma si sentono più sicuri a stare dalla parte del regime piuttosto che dall’opposizione. E col passare del tempo, soprattutto a causa dell’intervento dell’Iran, il conflitto è diventato sempre più settario.

MS: In che modo la militarizzazione ha influenzato la rivoluzione? C'erano alternative?

LA: Innanzitutto, penso che sia importante riconoscere che la militarizzazione era inevitabile. Il regime ha utilizzato la violenza di massa contro coloro che si opponevano e le persone hanno dovuto difendere se stesse e le proprie comunità. È diventata una lotta per la sopravvivenza. I metodi pacifici di lotta sono inadeguati quando un regime è pronto a utilizzare tattiche di sterminio contro una popolazione civile. Ma la militarizzazione porta con sé tutta una serie di problemi. Mette da parte gli attivisti civili, coloro che lavorano nelle loro comunità, che sono la spina dorsale della rivoluzione. Dà potere ai signori della guerra e ai gruppi autoritari e consente alle potenze straniere (che forniscono armi) di influenzare il movimento – sempre in un modo che serva i loro interessi, non quelli dei rivoluzionari. C’era sempre un’alternativa – quella di fornire sostegno all’opposizione democratica – coloro che stavano costruendo alternative al regime nelle loro comunità, anche sotto i bombardamenti selvaggi. Se queste persone avessero ricevuto la solidarietà che meritavano, l’aspetto militare non sarebbe diventato così dominante e la resistenza civile avrebbe avuto più forza.

MS: Qual è il ruolo della sinistra nella rivoluzione siriana? So che ci sono molte voci di spicco come Yassin al-Haj Saleh, Riyad al-Turk, Omar Aziz. Cosa puoi dire della sinistra?

LA: Non c’era una sinistra ampia, indipendente e organizzata in Siria per due ragioni. In primo luogo, il regime di Assad ha represso tutti gli esponenti della sinistra indipendente, che sono finiti in prigione o sono fuggiti dal Paese. Il regime ha poi cooptato un’ampia sezione della sinistra tradizionale, il Partito Comunista Siriano, che in seguito si è unito al governo nel Fronte Nazionale Progressista. Si tratta di una coalizione di diversi partiti, ma nel complesso è solo un'immagine senza alcuna reale partecipazione: tutto è controllato dal partito Ba'ath e dal presidente. In secondo luogo, la struttura dell’economia siriana è stata un fattore determinante nell’assenza di sindacati e nella formazione di una cultura e di una politica della classe operaia, poiché la maggior parte dei luoghi di lavoro sono piccole imprese a conduzione familiare. Quindi non c’era davvero una base di sinistra forte, indipendente e organizzata da cui partire, a parte il partito di Riad Al-Turk che si separò dal Partito Comunista Siriano e alcuni altri partiti curdi più piccoli che furono perseguitati. Quando scoppiò la rivoluzione, molti giovani di sinistra che facevano parte del Partito Comunista Siriano si dimisero e si unirono alla rivoluzione. Erano molto espliciti nel dire che i loro presunti compagni di sinistra (sia in Siria che a livello internazionale) avevano tradito i siriani e la lotta popolare. Ci sono una serie di piccoli gruppi indipendenti e poi individui influenti come lo scrittore e intellettuale Yassin Al Haj Saleh e Omar Aziz, che era l'ideologo dietro l'idea dei Consigli locali istituiti per autogovernare il territorio detenuto dall'opposizione. Omar Aziz finì per essere arrestato e morì in prigione, mentre Yassin Al Haj Saleh fuggì dal paese e ora vive in esilio.

MS: Pensi che questa situazione della sinistra non organizzata in Siria possa essere la ragione della mancanza di solidarietà e sostegno alla rivoluzione siriana da parte della sinistra americana ed europea?

LA: Potrebbe essere un fattore. Ma anche la semplice ignoranza è un fattore. Ad esempio, alcuni anni fa sindacalisti e esponenti della “sinistra” di tutto il mondo hanno intrapreso una missione di solidarietà in Siria a sostegno del regime. Sembrano essere completamente inconsapevoli del fatto che la sinistra indipendente viene repressa e che i sindacati indipendenti non esistono! La sinistra occidentale nel suo insieme non è riuscita a sostenere i siriani nella loro lotta per la libertà. In parte ciò è dovuto al problema del “campismo” che è diventato dominante nel pensiero di sinistra. Questi cosiddetti “antimperialisti” credono che le uniche potenze imperialiste siano gli Stati Uniti e l’Occidente, ma non riescono a vedere che esistono effettivamente altri imperialismi, come la Russia e l’Iran. Hanno quindi sostenuto il regime, vedendolo, erroneamente, come un baluardo contro l’imperialismo occidentale. Non sono riusciti ad ascoltare le voci siriane sul posto e hanno diffuso ogni sorta di disinformazione su ciò che stava accadendo, negando persino che i massacri chimici fossero stati compiuti dal regime e assolvendolo da ogni responsabilità.

MS: Sembra molto familiare nel contesto ucraino. Anche i sostenitori della rivoluzione siriana di solito esprimono solidarietà ai palestinesi e tu hai anche firmato una lettera a sostegno di Gaza. Qual è il rapporto tra i sostenitori di una Siria democratica e i palestinesi, soprattutto considerando che parte della sinistra palestinese è impegnata nel campismo?

LA: Dal 7 ottobre abbiamo assistito a tanti tentativi da parte dei siriani di raggiungere i palestinesi e mostrare solidarietà. Non solo dichiarazioni, ma durante le regolari manifestazioni del venerdì contro il regime, le persone portano bandiere palestinesi e hanno decorato i muri con murales a sostegno della Palestina. Nella città di Idlib hanno ribattezzato una piazza centrale Gaza Square e l'hanno decorata con la bandiera palestinese. I siriani sentono molta affinità con il popolo palestinese. Siamo collegati, storicamente, poiché persone provenienti da Palestina, Siria, Giordania e Libano erano tutte unite a Bilad al Sham, la nostra cultura è molto simile. Inoltre, l’occupazione della Palestina è una questione centrale per arabi e musulmani, a causa della portata dell’ingiustizia in quel paese e perché i nostri regimi hanno utilizzato la causa palestinese come un modo per rafforzare il sostegno tra le loro stesse popolazioni. Anche i palestinesi sono solidali con i siriani dallo scoppio della rivoluzione – l’ho visto io stesso, soprattutto tra la gente di Gaza quando ero lì. Tuttavia, ci sono anche molti palestinesi che sono caduti nella politica campista. Molte voci di spicco sulla Palestina, soprattutto tra i popoli occidentali, hanno calunniato e screditato la rivoluzione siriana, sostenendo essenzialmente il regime. Nelle proteste per la Palestina che si stanno svolgendo nei campus statunitensi vediamo persone che tengono la bandiera della milizia libanese Hezbollah, sostenuta dall’Iran, che la vede come parte della resistenza a Israele. Hezbollah ha partecipato attivamente al genocidio contro i siriani – ha attuato assedi di fame contro le comunità dell’opposizione simili a ciò che Israele sta facendo ora a Gaza. Questi non sono alleati per la liberazione. La nostra solidarietà deve basarsi su principi comuni e non su quali Stati partecipano a un conflitto. Deve basarsi sulle lotte delle persone per la libertà e la giustizia sociale, altrimenti non ha senso. Come diceva la dichiarazione dei rivoluzionari siriani a sostegno della Palestina a cui hai fatto riferimento in precedenza: “La solidarietà reciproca e intersezionale è essenziale, le nostre lotte sono una, la nostra libertà dipende ciascuna dalla libertà dell’altro”.

MS: Potresti dirci qualcosa di più sul campo della sinistra araba?

LA: Tradizionalmente ci sono tre principali correnti politiche nel mondo arabo; Islamismo, arabismo/nazionalismo e sinistra. Molti che crescendo non si sentivano rappresentati dall’islamismo o dall’arabismo dei regimi nazionalisti (come i gruppi minoritari in Siria) sono diventati di sinistra. C’è una divisione simile in ciò che si vede nella sinistra globale. La tradizionale sinistra araba è caduta in una politica campista simile, in cui l’imperialismo statunitense e Israele sono il nemico supremo. Molti di questi hanno sostenuto la dittatura di Assad, considerandola parte dell’“asse della resistenza”. Naturalmente c’erano sempre delle eccezioni, coloro che erano di sinistra antiautoritari, come quelli del Partito Comunista di Riad Al-Turk di cui abbiamo parlato prima e che lottavano per la democrazia e le libertà civili. Tuttavia c’è anche una nuova generazione che è cresciuta dalle rivoluzioni e ha un’analisi molto più sofisticata che corrisponde alla realtà del mondo in cui viviamo – una generazione di imperialismi in competizione e che si oppone a tutti gli oppressori e sostiene tutte le lotte per dignità. Ho molta speranza in questa nuova generazione, anche se abbiamo vissuto una violenta controrivoluzione e attualmente siamo sconfitti, disorganizzati e traumatizzati.

MS: Che effetti ha avuto la guerra russo-ucraina sulla Siria?

LA: C’è stata così tanta solidarietà e sostegno da parte dei siriani verso gli ucraini, e viceversa, è stato bello da vedere. Penso che ci identifichiamo molto con le lotte degli altri per una serie di ragioni. Entrambi abbiamo un nemico comune nello Stato russo, entrambi abbiamo attraversato rivolte popolari prima di entrare in una situazione di conflitto ed entrambi abbiamo dovuto affrontare alcune delle politiche campiste di cui abbiamo parlato – in cui le nostre lotte sono state screditate. e i nostri nemici hanno sostenuto. Questo, e il nostro trauma collettivo, ci hanno uniti. Molti siriani si sono recati in Ucraina in missioni di solidarietà e, all’inizio del conflitto, si sono rivolti per dare consigli pratici, ad esempio su come proteggersi dagli attacchi del “doppio tocco”, che è la tattica preferita utilizzata dalla Russia per uccidere il maggior numero di persone più civili possibile (dopo un bombardamento, la Russia bombarda nuovamente la zona una volta che i soccorritori sono entrati). E ho avuto modo di conoscere molti ucraini grazie alla loro solidarietà con la Siria. I siriani festeggiano quando vedono i generali russi, precedentemente coinvolti in crimini di guerra in Siria, essere uccisi in Ucraina: per noi è un piccolo assaggio di giustizia. Ci auguriamo che un giorno l’Ucraina sia libera dall’imperialismo russo, così come speriamo che lo sia anche la Siria. Ma a livello più ampio, la guerra russo-ucraina non ha colpito così tanto la Siria. La Russia ha dovuto ritirare alcune truppe dalla Siria per trasferirle in Ucraina, ma non ha fatto molta differenza visti i tempi, quando la maggior parte delle grandi battaglie erano già finite.

MS: Cerchiamo di dimostrare nel discorso globale perché è importante sconfiggere la Russia, in particolare perché l’Ucraina non è il primo paese ad essere attaccato. Prima c'erano la Siria, la Georgia, la Cecenia. Quindi si potrebbe circoscrivere un modello di invasione. In questo modo potremmo costruire solidarietà attorno alla tesi antimperialista secondo cui difendere e aiutare l’Ucraina implica difendere e aiutare la Siria e viceversa. Credi che questa cosa stia succedendo?

LA: Dobbiamo assolutamente portare avanti questo approccio: c’è una tale assenza di comprensione della Russia come potenza imperialista, non solo oggi ma storicamente. C'è una totale mancanza di conoscenza tra gli occidentali del ruolo storico della Russia; basta guardare la mappa delle dimensioni della Russia per sapere che questo è uno stato creato dalla conquista coloniale. A meno che non mettiamo in discussione la visione del mondo delle persone – secondo cui il mondo occidentale è al centro di tutto – non saremo in grado di rispondere ad alcune delle sfide che attualmente affrontiamo a livello globale. Dall’esterno sembra che la rivoluzione siriana sia una causa persa, ma nell’agosto dello scorso anno si è verificata una nuova ondata di proteste nel sud della Siria.

MS: Come valuti la situazione attuale e le speranze che Assad possa finalmente essere rovesciato?

LA: Nelle parti del Paese che non sono sotto il controllo del regime di Assad, come la provincia di Idlib e parti della Siria settentrionale, le proteste settimanali contro il regime continuano dal 2011 ad oggi. Ciò dimostra che le persone non hanno ancora rinunciato ai valori e alle richieste della rivoluzione. Da agosto è in corso una rivolta nella provincia meridionale di Sweida. Ciò è interessante perché Sweida è una popolazione a maggioranza drusa e la sua gente ha adottato una posizione di neutralità quando è iniziata la rivoluzione. Non si unirono alla rivoluzione, ma non si schierarono nemmeno con il regime. Tuttavia, le condizioni di vita sono peggiorate notevolmente negli ultimi anni poiché l’economia è crollata e questo ha portato la gente a scendere in piazza per protestare. E ora chiedono chiaramente la caduta del regime e si identificano con altre aree della Siria che lottano per la libertà – sentiamo canti di solidarietà con Idlib e viceversa – e ci sono stati molti assalti agli uffici del partito Baath al potere e a posizioni di regime. Trattandosi di un gruppo minoritario, il regime non ha risposto con le violenze di massa e gli arresti che abbiamo visto altrove nelle aree a maggioranza sunnita – per le ragioni di cui abbiamo parlato prima – perché il regime vuole presentarsi come un “difensore delle minoranze” – quindi le proteste sono continuate fino ad oggi. Anche nel nord della Siria negli ultimi mesi è in corso una rivolta contro Hayat Tahrir Al Sham, che formalmente era Jabhat Al Nusra. Si tratta di una milizia islamica autoritaria che detiene molto potere e governa parti del nord-ovest del Paese. È molto chiaro che i siriani rifiutano ogni forma di autoritarismo, sia che si tratti del regime o di qualsiasi altro gruppo. La lotta è ancora per la libertà e la democrazia.

MS: Per tanti anni hai scritto della rivoluzione siriana, che sembrava sempre più senza speranza. Mi si è spezzato il cuore quando ho letto il tuo libro perché sembra che non ci sia nulla che si possa fare, e inoltre i siriani non hanno tanto sostegno sulla scena internazionale quanto la Palestina, per esempio, o l'Ucraina. Come fai a sopravvivere personalmente a tutti questi anni senza disperare?

LA: Penso che gli ucraini abbiamo bisogno di approfondimenti di questo tipo. Gli ultimi anni sono stati davvero traumatici per i siriani. Il nostro Paese è stato distrutto e i nostri cari sono stati detenuti, uccisi o sfollati. Coloro che sono in esilio affrontano ostilità, violenza e persino la minaccia di un ritorno forzato in Siria. E ora il mondo si sta normalizzando con il tiranno che ha creato la nostra miseria. A volte è difficile avere la forza di continuare a lottare, ma cosa possiamo fare? La situazione continua e dobbiamo farlo anche noi. I siriani sul posto non hanno abbandonato la loro lotta. Quindi noi che siamo fuori dobbiamo continuare a sostenerli, per sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che sta accadendo in Siria. Abbiamo il lusso della distanza e dello spazio per respirare. E, cosa più importante, siamo in grado di organizzarci, di costruire connessioni con persone in lotta altrove – come stiamo cercando di fare con questa conversazione. Negli ultimi quindici anni ho stretto contatti con persone provenienti da tutto il mondo. Molti di loro si sentono esclusi dal discorso dominante della sinistra per molte delle ragioni di cui abbiamo parlato. Questo mi dà molta energia, per connettermi con gli altri, per lavorare in comunità con persone che la pensano allo stesso modo, per cercare di costruire una nuova visione per l’internazionalismo, tra quelli delle periferie, una visione che si concentri sulle persone, non sugli stati e sia contro tutti gli autoritari e tutti gli imperialismi. Speriamo che in futuro potremo costruire un nuovo movimento insieme.

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L'anno in cui smisi di seguire il pallone

A gennaio 2024 inviai una email ad alcuni giornali sportivi locali:

“Gentile redazione, vorrei esprimere con questa lettera aperta tutta la mia contrarietà e indignazione per l’acquisto del calciatore Jerome Boateng da parte della Salernitana. L’ex Nazionale tedesco, come è noto, è stato condannato per lesioni aggravate nei confronti della sua ex compagna Sherin Senler. Recentemente su tutti i campi di calcio si è svolta una giornata contro la violenza sulle donne: tutti i calciatori hanno mostrato un segno rosso sul viso e molte tifoserie, tra cui quella di Salerno, li hanno seguiti nel gesto simbolico. Ma le istituzioni, calcistiche e non, sono spesso ipocrite riguardo queste e altre tematiche, basti vedere che il calciatore della Reggiana condannato per stupro, Portanova, gioca in serie B: i tifosi hanno detto che aspettano la sentenza della Cassazione per giudicarlo, mentre un radiocronista sportivo della Rai dopo un suo gol ha esclamato «Un gol meraviglioso da parte di Portanova che mette a tacere le polemiche». Non penso che dobbiamo aspettare i tribunali di Stato per condannare e combattere contro la violenza di genere: le femministe in tutto il mondo urlano “sorella io ti credo” e io voglio ascoltare la loro voce piuttosto che quella di un giudice. La violenza maschile e l’oppressione di genere, le violenze contro donne, persone trans, asessuali etc. sono parte di un sistema radicato che si regge anche sui silenzi, le omertà, le pacche sulle spalle e la tacita comprensione o condivisione. In una trasmissione radio di Salerno la settimana scorsa un ascoltatore ha ricordato la violenza di Boateng e un noto giornalista ha risposto “chi se ne frega”. Ecco, io penso invece che deve fregarcene qualcosa, non dobbiamo poi essere ipocriti, metterci il segno rosso sulla guancia una volta l’anno e poi fare finta di niente. Da tifoso della Salernitana vorrei che i calciatori onorassero la maglia dentro e fuori il campo”

La lettera non venne pubblicata su nessun sito, anche se una redazione mi rispose dicendomi sostanzialmente che aveva letto con interesse la mia legittima opinione e che avrebbe informato i suoi lettori sugli sviluppi della vicenda. Pochi giorni dopo dallo sciagurato acquisto di Boateng, ce ne fu un altro ancora peggiore, quello dell'israeliano Shon Weissman, che aveva inneggiato su Twitter allo sterminio dei palestinesi a Gaza. Anche qui ho cercato di dire la mia, riscontrando prevalentemente lo stesso disinteresse e omertà che avevo visto rispetto a Boateng. Weissman era stato contestato duramente in Spagna, dove giocava, messo praticamente ai margini per un atto vigliacco, quello di chiedere al suo esercito di compiere un genocidio: nei mesi successivi al 7 ottobre 2023 le sue richieste sono state esaudite, perché Israele ha compiuto decine di migliaia di omicidi nella Striscia di Gaza.

Questi due eventi mi hanno allontanato dal mondo del calcio, che ho seguito con passione per decenni. In definitiva penso una cosa: il nostro mondo è costruito dagli effetti di tanti piccoli “ma chi se ne frega” come quello detto dal giornalista di cui sopra. Un genocidio e la violenza di genere non possono essere messi in secondo piano dietro un pallone. Per me è una questione di priorità, poi ognuno nella vita compie le scelte che si sente di fare.

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Il sorriso segreto dell'essere

Ho approcciato il testo di Mauro Bergonzi (“Il sorriso segreto dell'essere. Oltre l'illusione dell'Io e della ricerca spirituale”) con curiosità ed interesse, convinto che potesse darmi delle indicazioni su un cammino di spiritualità originale. Non mi sarei mai aspettato però di leggere progressivamente, allo scorrere dei suoi capitoli, una così forte messa in discussione degli aspetti fondanti della lettura individuale della realtà che ci circonda.

Nelle pagine del libro si parte infatti da un esame del concetto di non dualità nei vari cammini spirituali, si arriva infine a concepire questa unitarietà della realtà come una destrutturazione del concetto stesso di coscienza individuale. Questo slittamento è ben raccontato da Bergonzi con precisi e puntuali riferimenti alla tradizione spirituale più antica così come alle scoperte scientifiche più innovative e recenti. Un punto decisivo del testo riguarda l’inutilità della ricerca di una perfezione del cammino spirituale: non c’è bisogno di seguire un guru per arrivare all’illuminazione, perché la realtà dell’Unità che ci circonda non è alla fine della ricerca, ma è appunto intorno a noi sin dal principio.

Tutte le manifestazioni più intense di amore che segnano le nostre vite sono, dunque, proprio un momento nel quale sentiamo più vividamente la nostra appartenenza a un Tutto. L’amore è questa nostalgia dell’Unità a cui apparteniamo. Tutto lo sviluppo coscienziale dell’individuo, concepito come singolarizzazione separata, rischia di diventare un equivoco se non tiene conto del fatto che la nostra coscienza non risiede nel cervello, come ipotizzava la filosofia cartesiana e come è percepito comunemente tutt’oggi, ma sia qualcosa di più grande della nostra esperienza personale, qualcosa che non possiamo contenere né qualcosa da cui possiamo fuggire.

In definitiva, il libro di Bergonzi mi ha suscitato una forte emozione perché non mi aspettavo di riflettere su una tale linea interpretativa del reale. Resta alla fine in me l’idea che questa lettura apra degli scenari davvero misteriosi, direi anche “inquietanti”, in senso letterale, su cui meditare in futuro.

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Lo spazio necessario

Ho fisso in mente il momento in cui si diffuse Facebook tra le mie conoscenze. Meglio ancora, ricordo quando nel 2008 si diffuse nella mia città proprio come si diffonde una pandemia, un virus incontrollabile. Mi viene in mente la scena del film sui dieci comandamenti (I dieci comandamenti, film statunitense del 1956 con Charlton Heston, regia di Cecil B. DeMille), quando la terribile piaga biblica colpisce le case degli egiziani bussando silenziosamente e infettando a morte i primogeniti. Ero a casa di un mio amico, mi affacciai al balcone e immaginai in quante abitazioni e in quanti dispositivi fosse entrata la piaga di Zuckerberg. Dopo un poco di tempo e un po’ di tira e molla, ne sono uscito: sono tra i pochi che non hanno Facebook, che nei successivi tredici anni avrebbe raggiunto l’inimmaginabile cifra di due miliardi e mezzo di utenti. I motivi di questa mia diserzione sono poi stati evidenziati nel corso degli anni da parte di decine e decine di studiosi, che hanno portato alla luce quello che istintivamente mi sentivo addosso aggiornando il profilo, postando e accettando amicizie: i social network sono dannosi, fanno male.

Alla fine del suo lungo libro sul capitalismo della sorveglianza, Zuboff conclude la sua forte denuncia contro le multinazionali del web (Google in primis e poi i vari social network e gli attori del mercato mondiale dei dispositivi tecnologici) postulando la necessità di un “santuario”: uno spazio mentale isolato e liberato, a disposizione della coscienza di ognuno, oltre e fuori dal dominio degli algoritmi di internet. Questi algoritmi, secondo la studiosa americana, stanno mettendo in pratica la distopia skinneriana di un mondo senza più libero arbitrio, con gli individui schiavi delle necessità del profitto delle multinazionali, profitti ottenuti mediante l’innesco di meccanismi mentali per cui rinforzi e rilasci di dopamina ci portano dove vogliono i social e le big tech dietro di loro. Per quanto il lavoro di Zuboff sia criticabile su molti aspetti, messi ben in risalto da E. Morozov (https://lapiega.noblogs.org/post/2020/05/20/i-nuovi-abiti-del-capitalismo/), e corra il rischio di essere troppo riduzionista, patologizzante e slegato dai rapporti sociali, nondimeno ci presenta dei fattori che, nel contesto di totalizzazione del rapporto di capitale odierno, risultano operativi e potentemente dispiegati.

C’è tutta una letteratura ormai a riguardo, per cui sintetizzo il discorso utilizzando una citazione dall’ottimo lavoro di Cisti, istanza del social network federato Mastodon: un social network commerciale porta ogni individualità su di un unico piano, dove poi il contenuto più rumoroso si impone sulla collettività. Questo porta il bisogno di soddisfare chiunque sia nella nostra rete che produce quel senso di insoddisfazione e depressione nell’esprimere se stessi. Infatti siamo consci del fatto che l’uso di queste piattaforme produce comportamenti dannosi e ampiamente studiati, tra cui: – Fear of missing out: provare una profonda paura e fastidio all’idea che succeda qualcosa online mentre non siamo collegati. Letteralmente sentirsi “fuori dal loop”.– Notification trough: un senso di straziante e dolorosa anticipazione nel momento tra cui si posta qualcosa di personale o creativo online e i primi like, commenti e condivisioni.– Newsgoggles: consumo incontrollato di notizie di tragedie senza un vero impatto emotivo o psicologico. – Unbored never alone: costantemente connessi, mai annoiati. Come fa notare Mark Fisher in Realismo capitalista, una delle spinte che hanno portato alla genesi del punk è stato proprio quel sentimento di noia, come molti testi ci gridano a squarciagola, quella voglia di esprimere se stessi oltre la coltre di grigiore che ci circonda. I social invece attraverso lo stimolo continuo ci fanno proprio affogare in quel clima di mediocrità che ci porta ad appiattire sempre i nostri dibattiti. – Info-dependency: dipendenza psicologica dal continuo impatto di nuove informazioni. Spesso si presenta insieme a una fuga dalle dinamiche naturali che non sono altrettanto stimolanti (quotidianità, scuola, etc). Questo si lega genericamente a una visione consumista dell’informazione, che va di pari passo alla digestione di contenuti di qualità sempre più infima. – Ampulsivity in everyday life: gli impulsi umani sono spesso limitati o negati dalle opportunità, tempo e spazio. Online gli impulsi non hanno questi limiti e possono essere immediatamente tradotti in azioni. Questo può portare a comportamenti fortemente modellati dalle pulsioni amplificate digitalmente.– Le dinamiche di interazione sulla piattaforma producono delle aspettative nel “mondo reale” che non possono essere soddisfatte. Quando questo accade seguono inevitabilmente ansia, impazienza, rabbia e frustrazione. – Swarm mindset e “inversione”: i bot sembrano umani e gli esseri umani si appiattiscono a dei bot. Del resto se per le corporazioni è necessario tenerci incatenati alle loro piattaforme, esse devono anche fare in modo che i nostri dati, le nostre abitudini e ogni nostra espressione sia quanto di più comprensibile ai loro algoritmi, che ovviamente ha come risultato di renderci prevedibili come bot. Al tempo stesso le intelligenze artificiali affinano sempre di più le loro capacità di previsione, rendendosi quindi sempre più simili ad umani molto ripetitivi. (da https://mastodon.cisti.org/about/more )

Appare chiaro che le varie piattaforme vogliono tenerci dentro le loro scatole skinneriane (https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber ) per fare facili e immensi profitti, per accumulare i quali creano un circuito funzionante e inesorabile di dipendenza: più contenuti produciamo più le piattaforme accumulano dati, dati che serviranno per vendere pubblicità personalizzate agli inserzionisti, e così via, nell’ormai arcinoto meccanismo economico che ha fatto la fortuna delle aziende della Silicon Valley. Jaron Lanier è stato uno degli artefici della creazione di queste tecnologie ed è uno dei pionieri della realtà virtuale. Dopo anni di lavoro nelle maggiori aziende high tech, pur restando interno a questo mondo, sta raccontando cosa c’è dietro, come funziona questo grande esperimento su larga scala di cui noi saremmo le cavie :

“in breve, dice Lanier, il sistema di feedback nei social sta creando un loop di punizione e validazione sociale che fa leva sulle nostre vulnerabilità per manipolarci a piacimento. Si tratta di meccanismi ‘sostanzialmente additivi’, perché inducono a rincorrere il piacere della ricompensa, mentre la punizione e il rinforzo negativo rinnovano continuamente la paura di non essere abbastanza.” (https://www.che-fare.com/social-liberta-jaron-lanier/)

Una cosa molto indicativa ed emblematica, quasi ironica, di questo grande “esperimento”, sta nel fatto che i leader delle corporation, gente come Jack Dorsey o lo stesso Steve Jobs all’epoca, si tengono bene a distanza dal frutto della loro fortuna, magari vietando l’uso di internet ai propri figli, facendo meditazione e disinteressandosi dei social network, vivendo una vita rilassata e offline mentre noi ci accapigliamo nei flame su Twitter e Facebook. La cosa su cui, in conclusione di questi brevi appunti, mi preme comunque ragionare, riguarda la ricaduta politica e collettiva di tutto ciò. La stragrande maggioranza dei gruppi politici e delle singole individualità che fanno politica oggi utilizzano infatti i social network: vi sono entrati anni fa con la consapevolezza che fosse necessario per parlare a una grande massa di persone.

Ogni tanto, quando Facebook chiude una pagina di qualche gruppo politico, si torna a parlare della contraddizione tra le pratiche dei movimenti alternativi e il loro uso (che si vuole solo strumentale) dei social network commerciali. Poi, passato lo “scandalo” momentaneo, tutto torna come prima e i compagni riprendono a insultarsi sotto i post e a fare a gara di like per le proprie pagine. Prima abbiamo visto sinteticamente e rapidamente quali sono gli effetti negativi che i social media producono sull’individuo, parimenti si dovrebbe cominciare a parlare delle conseguenze nefaste che essi hanno avuto in questi anni sulla politica “a sinistra” nei vari movimenti. È innegabile che ci sia stato un ulteriore adeguamento alla politica spettacolare, alla ricerca di un consenso quantitativo, ottenuto peraltro con le stesse tecniche del marketing. Abbiamo visto crescere a dismisura il rafforzamento di pratiche verticistiche e in ultima analisi violente nei gruppi: chi decide cosa pubblicare su Facebook, chi ha le password, chi amministra i gruppi, chi fa un evento…

Si potrebbero fare mille esempi di esperienze politiche arenatesi nell’uso distorto dei propri strumenti di comunicazione, che da semplici strumenti si sono trasformati nel principale, se non unico, momento di attivismo politico. Gilles Deleuze scriveva che

“le forze repressive hanno sempre bisogno di Io su cui contare, di individui determinati su cui esercitarsi. Quando diventiamo un po’ sfuggevoli, quando ci sottraiamo all’assegnazione di un io, quando non ci sono più uomini su cui Dio possa esercitare il suo rigore o da cui possa farsi rimpiazzare, allora la polizia perde la testa”(G. Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Ombre corte, 1999, p. 51.).

Oggi invece stiamo facendo di tutto per agevolare il lavoro delle forze repressive, inteso in senso lato come il controllo del potere sulle nostre vite. Fa un po’ sorridere oggi pensare alla pratica di mettersi un falso nome su Facebook, visto l’enorme potere e la capacità di asservimento che la piattaforma di Zuckerberg ha ormai sulle nostre vite. Molte persone del resto si sono anche adeguate quando il social ha chiesto la carta di identità agli iscritti, ma non è neanche questo il punto. Il problema sta nel cominciare a capire che forse, lo dico come ipotesi, uno strumento commerciale così violento, escludente, pervasivo, sia diventato uno dei principali avversari da combattere e non, come invece si pensa diffusamente, uno strumento da attraversare criticamente, utilizzare strumentalmente, piegare alle proprie necessità :

“The social industry platforms are far more worried about the prospect of digital suicide, of disconnection, than they are about any purported ‘subversive’ use of their means.”(R. Seymour, The twittering machine, Indigo Press, 2019, p.102. The twittering machine, Indigo Press, 2019, p.102.)

Detto questo, restano aperti tutti gli altri problemi, dalla comunicazione di messaggi efficacemente distribuiti fuori da queste piattaforme all’isolamento che provoca l’uscita volontaria dai social. Rimanendo ad esempio alla questione del rilascio di dopamina nel cervello, dovremmo allora studiare anche gli effetti negativi su chi si è cancellato da tutti i vari social network: la loro singolarità isolata in relazione al cervello sociale . Posto che il piano della realtà prevalente è quello formato da una infosfera digitalizzata (con un’interazione di utenti mediata, come abbiamo visto, da piattaforme private) allora quella paura detta FOMO (Fear Of Missing Out) provata dall’utente dei social network quando spegne lo smartphone è centuplicata per chi esce definitivamente dalle piattaforme. Gli effetti negativi a catena possono essere molteplici.

Poniamo che ci sia un’indagine della polizia che abbia come obiettivo una data popolazione e che su cento persone sotto osservazione solo cinque non siano presenti su Facebook, su chi cadrebbero i primi sospetti della polizia? In poche parole, di fronte a tale stravolgimento sociale, linguistico, fisico e dunque antropologico è davvero difficile sia declinarlo dall’interno che starne completamente fuori. Forse è vero, come scrive anche Francesca Coin nell’articolo sopra citato riguardo Lanier, che il segreto del grande successo dei social non sta tanto nel rilascio di dopamina e nella dipendenza psicologica nella quale volontariamente ci inseriamo: sta piuttosto nel fatto che desideriamo un posto migliore del mondo di merda in cui viviamo, per cui speriamo che le relazioni e le politiche che costruiamo nei social siano migliori e ci liberino. Posto che questa è una pericolosa illusione, dovremmo allora avere la pazienza e la forza mentale (se ne rimangono ancora a disposizione) non solo di uscire dalla scatola skinneriana ma anche di trovare quello spazio di cui parlava la Zuboff e ritessere relazioni positive grazie alle quali non avremo più un bisogno disperato e assoluto di una realtà virtuale.

Non parlo però di un santuario slegato dai rapporti sociali e di potere ma di uno spazio assieme singolare e collettivo. Trovare delle piattaforme alternative che non creino profitto per le grandi imprese della Silicon Valley è fondamentale ma occorre anche fare un ragionamento sulle identità che ci andiamo costruendo in rete, anche perché stanno diventando una gabbia di narcisismo che non fa più bene veramente a nessuno. Ricordo ad esempio nei primi tempi di vita di Twitter quando l’appena nato social network si configurava come un enorme flusso di notizie e opinioni quasi completamente slegato dalla personalità degli utenti, senza la pagina personale a farla da padrone, con una minima individuazione del creatore dei contenuti: poi è venuta l’esigenza di profilazione e tramite gli algoritmi il flusso è andato in secondo piano. Bisognerebbe riflettere sulle vie di fuga da questa individualizzazione forzata da parte delle piattaforme, cercando, come diceva Deleuze, di far perdere la testa alla polizia.

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Abolire le prigioni

Eravamo nel 2006 quando l’ultimo grande indulto generalizzato portò la popolazione carceraria da quasi 70.000 persone detenute a 25.000 in meno. Ricordo il dibattito dell’epoca perché facevo parte di una rete locale per l’amnistia: fu un momento importante per la vita di migliaia di persone, si discuteva di sovraffollamento e di recidiva, mentre purtroppo già montava quel clima forcaiolo e giustizialista che infesta oggi il nostro paese. Passano alcuni anni e nel 2013 c’è di nuovo un trend in crescita di detenzioni, si ritorna a 60.000 persone stipate nelle patrie galere e il governo Letta fa un nuovo (l’ultimo ad oggi) indulto per 10.000 persone detenute.

Com’è abbastanza noto, oggi siamo punto e daccapo, di nuovo più di 60.000 persone nelle carceri, una condizione di sovraffollamento che viene stimata tra le 10.000 e le 15.000 unità in meno a disposizione e soprattutto una situazione esplosiva con ripetuti e documentati episodi di violenza da parte delle guardie, suicidi e atti di autolesionismo: una condizione generale pessima a dir poco. Tutto ciò avviene di fronte a due fenomeni che sono in netta contraddizione tra loro: da un lato abbiamo un deciso calo dei reati violenti, degli omicidi e delle rapine, mentre dall’altro lato aumenta a dismisura il controllo sociale e la penalizzazione di comportamenti che vengono definiti socialmente pericolosi, ovvero aumenta la popolazione carceraria non perché aumentino i reati ma perché ogni singolo attimo della nostra vita quotidiana viene visto sotto la lente d’ingrandimento del controllo poliziesco e diventa passibile di punizione.

Questo slittamento è stato descritto al suo nascere da pochi illuminati punti di osservazione, basti pensare a Gilles Deleuze che parlava di “società del controllo” già nel 1990: oggi abbiamo sotto i nostri occhi questa dimensione securitaria diffusa un po’ ovunque, basta farsi un giro in una stazione ferroviaria per vedere come siano repressi fenomeni di alto rischio sociale come il sedersi su una panchina o mangiarsi un panino. Si potrebbe dire che lo Stato tuteli i propri cittadini dalla pericolosa “emergenza stanchezza” di chi aspetta un treno. Le vecchie sale d’attesa notturne, ovviamente, anche quelle non esistono più: troppo pericolose. A fronte di questo fenomeno palpabile, verrebbe da chiedersi come mai lo Stato non intervenga per una razionalizzazione della struttura nazionale carceraria, costruendo altre galere per mitigare fenomeni rischiosi quali il sovraffollamento, come pure invocano praticamente tutti i partiti di governo o di opposizione che siano.

A mio avviso questo avviene perché la priorità dello Stato, piuttosto che regolare il sovraffollamento che pure causa problemi a guardie e sbirri vari, è quella di tenere separato e lontano il carcere dal resto della società. Nelle strade deve esserci l’incentivo blindato al consumo controllato da guardie onnipresenti (leggasi “decoro”) ma chi è punit* deve sparire dalla nostra vista, deve diventare un* reiett* lontan* verso cui l’ultima cosa che deve nascere è la solidarietà o l’immedesimazione. Il carcere è diventato lo snodo centrale per la riproduzione del dominio del capitale nelle nostre società, basti pensare all’enorme gualg a cielo aperto che sono diventati gli Stati Uniti d’America, con una forte messa a valore della popolazione carceraria ottenuta tramite la privatizzazione delle galere che ben conosciamo grazie alla serie tv “Orange is the new black”.

Questo dato di fatto è poco affrontato dai movimenti e dalla sinistra di classe nel nostro paese nella misura in cui essi restano legati a una visione riformista e integrata nel sistema capitalista. La debolezza del movimento rivoluzionario in Italia si esprime principalmente attraverso questa grave mancanza di prospettiva sul carcere: si parla di sovraffollamento, di migliori condizioni detentive, di depenalizzazione di alcuni reati, si discute in alcuni casi del 41 bis e dell’ergastolo ma rarissimamente si prova a pensare e soprattutto a lottare per l’abolizione del carcere. L’abolizionismo oggi è una corrente teorica minoritaria a livello internazionale ma nel nostro dibattito politico risulta pressoché assente, mentre ci sarebbero molti esempi a cui rifarsi e numerose pratiche da sviluppare.

Due sono gli esempi che mi vengono in mente: il femminismo anticarcerario diffuso nelle pratiche comunitarie di giustizia trasformativa e l’esperienza delle comunità rivoluzionarie curde nel Rojava liberato. In entrambi i casi si affrontano eventuali atti violenti (come uno stupro o un omicidio) in maniera diametralmente opposta a quanto avviene nelle nostre “democrazie”: la persona che ha commesso questi atti violenti viene presa in carico dalla comunità e dentro la stessa comunità si discute (in primis con le vittime dirette o indirette dell’offesa) di una redistribuzione giusta ed equa del fatto commesso. Solo in ultima istanza si arriva ad un allontanamento dalla comunità, ma questo allontanamento non viene pensato nei termini di una detenzione o della creazione delle strutture detentive così come le conosciamo, gestite da un potere statuale.

“La giustizia trasformativa si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della persona che l’ha subita, ma anche le condizioni che hanno permesso questa violenza. In altre parole, invece di guardare l’atto (gli atti) di violenza in un contesto vuoto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare in modo che ciò non accada mai più? Che cosa deve accadere perché la sopravvissuta possa guarire?”[https://lapiega.noblogs.org/post/2018/11/27/come-possiamo-conciliare-labolizione-delle-galere-con-il-metoo/ ].

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Convivialità

Una società che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a “imporre” il consumo e mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona. Nella misura in cui il consumo programmato aumenta, l’austerità adottata per scelta personale diventa un’attività antisociale. Una soluzione politica alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene come la capacità di ciascuno di modellare l’immagine del proprio avvenire. I.Illich, La convivialità, Boroli Editore, 1973, p.26

Mai come in questo periodo storico appare al contempo particolarmente inattuale (e quindi necessario) il lascito di un pensatore come Ivan Illich, un autore singolare ed eterodosso che si stenta a catalogare. Il pensiero di Illich è stato sempre solitario, forse anche perché ha iniziato ad avere una certa diffusione negli anni ‘70, ovvero nel momento storico in cui i filoni marxista e cristiano si incontravano nel tentativo di produrre innesti come la teologia della liberazione. Illich ha infatti proposto da un lato una teologia negativa molto distante anche dalla teologia politica che andava di moda all’epoca nel cattolicesimo democratico e dall’altro ha sviluppato una parallela critica radicale del marxismo, distanziandosi da tutte le categorie interne al pensiero moderno, positivista e scientifico.

Oggi ci troviamo di fronte a una caduta quasi macchiettistica del marxismo, ridotto ad un disperato tentativo di riproposizione ottusa proprio di quelle sue caratteristiche compatibili col pensiero capitalista che furono un tempo già criticate dall’operaismo di Panzieri e Tronti, ma anche dal lavoro di Bordiga, per citare due delle scuole marxiste minoritarie del Novecento. Dialettica hegeliana e dispositivi meccanicistici di rapporto tra struttura e sovrastruttura, funzione storica del partito e della classe, conflitto capitale-lavoro inteso come astrazione puramente economica: tutti concetti appartenenti ad una lingua di legno e ad un sistema morto che si tenta inutilmente di resuscitare contrapponendolo al contemporaneo disastro della cultura e della politica liberale, anche di sinistra.

Illich ha avuto il merito di scavare un tunnel sotterraneo opposto sia al modernismo marxista che a quello cristiano, ritrovandosi in una terra straniera di cui soltanto oggi capiamo l’importanza e la necessità per una critica al capitalismo che sia efficace. Pensiamo a un testo come “Descolarizzare la società”, pubblicato nel 1971, che ricevette anche un discreto successo, per poi essere relegato nel dimenticatoio assieme a tutta quella serie di scritti critici della pedagogia e dell’istruzione che oggi sono sommersi da un’ondata di studi e riflessioni che vorrebbero umanizzare la scuola-azienda (mission impossible). Interrogato sull’origine e il significato di questo testo, Illich affermava che:

“Se la danza della pioggia non sortisce alcun effetto, puoi biasimare te stesso per avere danzato nel modo sbagliato. La scolarizzazione, come ho potuto via via rilevare, è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea quei miti che per una società consumistica sono una necessità. Per esempio ti fa credere che l’apprendimento può essere diviso in varie parti e quantificato, o che è qualcosa che acquisisci solo attraverso un processo. Un processo nel quale tu sei il consumatore e qualcun altro l’organizzatore, e tu collabori producendo la cosa che consumi e interiorizzi. Perciò sono giunto ad analizzare la scolarizzazione come il rituale di fabbricazione di un mito, il rituale che crea un mito su cui la società contemporanea poi costruisce se stessa. Ne deriva, per esempio, una società che crede nella conoscenza e nel confezionamento della conoscenza, che crede nell’invecchiamento della conoscenza e nella necessità di aggiungere conoscenza a conoscenza, che crede nella conoscenza come valore – non come bene, ma come valore – e che quindi la concepisce in termini commerciali. Tutto ciò è fondamentale per essere un uomo moderno e vivere nelle assurdità del mondo moderno” (D.Cayley, Conversazioni con Ivan Illich. Un archeologo della modernità, Eleuthera).

Ricostruendo quello che è il progetto fondamentale della scienza moderna, Pierre Thuillier racconta nel suo libro “Contro lo scientismo” (S-edizioni) questa ossessione per il quantitativo:

“la quantificazione è divenuta un’ossessione socioculturale. Gestire le giacenze, verificare le quantità consegnate, calcolare le entrate e le uscite, i guadagni e le perdite, tutto questo è entrato nei ranghi delle competenze che bisognava assolutamente padroneggiare […] C’è stato bisogno che i mercanti acquisissero un grande potere sociale perché la “natura”, infine, diventasse veramente l’oggetto di una fisica degli “scambi razionali”. La nozione di energia riceverà, a sua volta, lo stesso trattamento. Ancora oggi possiamo vedere chiaramente le tracce di questa metafisica da droghiere in un’espressione quale “il bilancio energetico”(pagine 40-41).

L’homo scientificus realizza il suo principio attraverso cui “se si può fare, allora facciamolo”. E così nei report che misurano e quantificano la distruzione del pianeta (deforestazione, allevamenti intensivi, estinzione di specie animali, cambiamento climatico, etc.) possiamo anche leggere quanti miliardi di dollari perdiamo all’anno in seguito a queste catastrofi ben poco “naturali”. Si possono quantificare i ricavati della trasformazione del mondo così come gli effetti della sua completa distruzione. Non è nient’altro che un bilancio economico. Anche se oggi leggiamo interessanti analisi di una corrente di pensiero marxista come quella dell’eco-socialismo, da queste riflessioni mancano quasi sempre tutte le vite delle varie differenti specie animali che popolano questo disgraziato pianeta. La lettura di fondo rimane quella antropocentrica e scientista, per cui la “natura” è un oggetto di studio e trasformazione ad opera dell’uomo, meglio se fatta dal socialismo piuttosto che dal capitalismo, ma sempre oggetto che gli umani modellano a loro piacimento. Il concetto di totalità (caro al pensiero hegeliano, marxista e cristiano) è completamente interno ad un pensiero della violenza razionalizzante, un pensiero che resta ancorato alle fondamenta del capitalismo occidentale. Per questo motivo le riflessioni di Illich sulla società conviviale sono oggi profondamente necessarie.

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La fine della scuola

«Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla)» Ivan Illich, Descolarizzare la società, 1972

Nel periodo segnato dalla pandemia del Covid-19 e negli anni seguenti non si è mai parlato così tanto di scuola. Da quando è entrata sulla scena la «didattica a distanza» poi la confusione è esplosa a livelli esponenziali. Docenti e genitori che protestavano per la chiusura delle scuole, genitori e docenti che protestavano per la riapertura delle scuole senza la dovuta sicurezza, ministri che polemizzavano con presidenti di regione che chiudevano le scuole, scienziati che affermavano che la scuola fosse il luogo dove il virus si diffonde più degli altri luoghi, genitori che affermavano il contrario, e così via, in un crescendo di grida strozzate da talk-show televisivo. E poi finita l’emergenza dei banchi a rotelle e della misurazione della temperatura, a volte fatta dai bidelli con una mano posata sulla fronte dell’alunno, è tornato il ritornello fissato sul contrasto tra la scuola serva delle aziende contro le esigenze del precariato tra il corpo docente. Mentre tutti sono ancora contro tutti, però, su una cosa sono tutti d’accordo: la scuola è un luogo importante, importantissimo, forse è l’istituzione più importante di tutta la nostra società, della nostra democrazia. Il presidente di Confindustria dirà che la scuola deve formare i lavoratori del futuro. Il sindacato Cobas lotterà contro l’elefantiaca e kafkiana distribuzione delle cattedre e contro le prove Invalsi. E così di seguito tutti i partiti, di destra di centro e di sinistra, diranno che la scuola è un’istituzione centrale, sacra, intoccabile.

Chi critica questo coro unanime lo farà soltanto per smascherare un’ipocrisia palese, ovvero che nel mentre tutti i governi hanno proclamato la scuola come centrale per il funzionamento della democrazia, l’hanno contemporaneamente svuotata di finanziamenti, precarizzando il corpo docente e lasciando gli istituti in un degrado crescente, con i soffitti che cadevano in testa agli studenti. Questa critica non fa che rafforzare il coro del governo: sì, il precedente esecutivo poteva fare di più, ma adesso ci siamo noi e dobbiamo puntare tutto sulla scuola. Non se ne esce, in tutto questo dibattito pubblico, in questi mesi di feroci accuse tra scienziati e politici sulla didattica in presenza e a distanza, non si è alzata nemmeno una voce che mettesse in discussione il cuore, il progetto, l’utilità e la funzione di questo baraccone che chiamiamo scuola. Il motivo di questa assenza è semplice ma forse è illuminante rispetto a tanto di quella falsa opposizione che sinistra e movimenti fanno ad un sistema che vorrebbero combattere ma di cui in realtà condividono principi e fondamenti.

Come altre istituzioni totali sviluppatesi nel Novecento, come il carcere, l’ospedale o il manicomio, anche la scuola è stata profondamente riadattata nella fase più recente del dominio capitalista. Come le altre istituzioni che un tempo facevano da ausilio ideologico alla grande fabbrica fordista, anche la scuola è diventata più flessibile, i suoi insegnamenti più adatti a formare la mentalità imprenditoriale dei suoi studenti. Così come la polizia e il controllo si sono diffusi e ramificati nella società e così come il lavoro si è reso pervasivo, totalizzante, con gli smartphone che ci attaccano al meccanismo produttivo h24, così la scuola è diventata smart, i suoi insegnanti sono precari che devono formare clienti e futuri lavoratori iper-sfruttati. Cambiato lo scenario, cambiati gli strumenti, resta l’obiettivo di fondo: a scuola si deve insegnare a obbedire.

Oggi la ginnastica dell’obbedienza deve essere permanente, così come si suol dire che la formazione non deve finire mai, perché se perdi il lavoro a cinquant’anni ovviamente è per colpa tua che non ti sei adeguatamente aggiornato. Se però durante la fase fordista qualche eretico poteva immaginare la descolarizzazione, la fine della scuola, e si poteva pensare un’alternativa del sapere e dell’apprendere in comunità dislocate fuori dalle logiche del capitalismo, oggi sembra che questo scenario (parimenti con quello della fine del capitalismo) non sia nemmeno immaginabile. Gli unici movimenti che abbiamo visto in questi anni sono stati sempre sulla difensiva, con comitati di base di professori che lottavano contro la trasformazione della scuola da fabbrica fordista ad azienda con produzione just in time.

E dunque anche nel dibattito avvenuto durante il periodo post-pandemia si è parlato della stabilizzazione dei docenti precari, delle aule pollaio, dei concorsi, della sicurezza e di tanto altro, certo non di «abolizione della cattedra» o altri concetti di quello che viene demonizzato come residuato ideologico degli anni 70. Sarebbe invece il caso di riscoprire quanto hanno detto questi teorici della descolarizzazione, per tracciare almeno qualche idea differente. Ivan Illich nel suo Descolarizzare la società inseriva la scuola tra le istituzioni manipolatorie e non conviviali, un’istituzione fondata sulla confusione tra l’erogazione dell’istruzione e l’assegnazione del ruolo sociale. L’attacco di Illich al sistema istituzionale d’istruzione si può capire soltanto insieme alla sua critica dell'architettura moderna, della famiglia e del sistema di merci: in questo senso Illich nel 1971 ha forse preconizzato la completa integrazione della scuola con gli strumenti tecnologici del dominio, questa oscena formazione (a distanza o meno) che lo Stato ti eroga attraverso i software di una multinazionale come Google. Per questo motivo pensare la fine della scuola sarà di nuovo possibile solo se riemergerà la voglia di distruggere questo mondo, reinventando così l’arte di costruirne uno nuovo.

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Bidonville

1. Tu non sei nero    —mi sta berciando il tipo — tu non sei nero — sei bianco — sei bianco come IL PADRONE                   IL CAPORALE                                         IL SINDACALISTA                                                                   IL PRETE                                                                                 IL COMPAGNO Tu non sei nero — la voce sale dal ghetto del ghetto — tra la gente abitante della Bidonville — così come a Lagos e Nairobi a Reggio Calabria — quarto mondo enclave nel primo —

Tu non sei nero —mi sta intimando il Carabiniere — DOCUMENTI — ma io non sto facendo NIENTE niente Cammino di lato al corteo —unico dalla pelle bianca— che va verso il municipio per chiedere questi DOCUMENTI che solo io posseggo qui tra la gente della Bidonville in marcia da secoli verso una anagrafe che mi assevera portatore di PRIVILEGIO N°AU5751391                   Lui sta con noi —la folla circonda la macchina dei Carabinieri— è con noi è con noi in marcia dalla Bidonville al comune — questo il mio altro privilegio — di questa mattina bruciata dal sole rovente di Mezzogiorno della Calabria o della Nigeria — me ne torno con un marchio impresso sulla pelle — E la lezione di un popolo in marcia da secoli.

2. Mi alzo nel cuore della notte – (non) ho dormito IN TENDA — l’alba arriva sussurrando i canti dell’Imam La moschea è qui nella tenda dietro la nostra dove fa caldo si distendono tutti in preghiera aspettando l’arrivo della polizia per un altro ordine di sgombero ancora per disperdere la Bidonville e farne un’altra nuova e ancora rubare i soldi e ancora tenere chiuse le case destinate a chi lavora i campi braccianti, sex workers, tuttƏ senza una casa e senza DOCUMENTI

ARRIVA all’alba la polizia circonda e chiude le uscite li vedo distanti sono arrivati insieme I SINDACATI LE ASSOCIAZIONI I PARTITI DELLA SINISTRA I CENTRI SOCIALI sono proprio tutti lì CGIL e USB VENUTI QUI A DIALOGARE PER EVITARE PROBLEMI E PROTESTE quanti soldi vi siete intascati? diteci dove sono le case NON C’È RAGIONE DI RESTARE NELLA BIDONVILLE ANDIAMO VENITE NELLA NUOVA STRUTTURA PER VOI PREDISPOSTA nei contratti di lavoro ci sono le case LE ASSOCIAZIONI ANTIRAZZISTE I CENTRI SOCIALI SONO QUI VENUTI HANNO FATTO PROGETTI DAL TRENTINO ALTO ADIGE I CORSI DI ITALIANO eccoli li vedo stavano con noi in tenda ora sono con la polizia DAI CENTRI SOCIALI ALLA QUESTURA DA TUTTI SI SONO FATTI ODIARE SOBILLATORI VENUTI DA ROMA la giornalista lo ha scritto su internet ci passa davanti e promette vendetta

3.

LA NOTTE È TRASCORSA TRANQUILLA Becky l’ho letto sul giornale nessun morto ammazzato nel sonno nella Bidonville nessunƏ più sparatƏ dagli italiani oggi nessuna più morta soffocata nell’incendio della tendopoli almeno da ieri Becky LA NOTTE È TRASCORSA TRANQUILLA LO STATO LA POLIZIA I SINDACATI LA QUESTURA I CENTRI SOCIALI nessuna è più morta da ieri Becky la notte è trascorsa tranquilla ricordo il tuo nome il tuo volto il tuo viaggio dalla Nigeria io lo so chi è STATO Becky ad ammazzarti nella tendopoli il fuoco il fumo le fiamme ricordo chi è STATO perché il tuo nome è lo stesso di chi muore in mare cade dai barconi annega affoga il fumo l’acqua il fuoco LO STATO che non dà i documenti LO STATO che non dà le case LO STATO che spara coi fucili LO STATO che costruisce le Bidonville LO STATO che le sgombera Becky LO STATO io so chi è STATO Becky ricordo il tuo nome ho visto quei sassi il sole che cadde su questi stracci Becky voglio rivederti un giorno rifiorire spuntare dal prato nella Bidonville e andare via di qui lontano Becky via di qui

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Nietzsche e il cavallo di Torino

Nella famosa situazione narrata storicamente dell’aneddoto più volte rappresentato in varie forme artistiche di Friedrich Nietzsche che abbraccia il cavallo per le vie di Torino, si è voluto dare un significato di impazzimento del filosofo tedesco, primo segnale di una follia inevitabile. Eppure tale gesto si potrebbe leggere in senso completamente rovesciato: nella sua disperata ricerca di un superamento della natura dell’uomo moderno, attraverso l’esplorazione filosofica dell’oltre-uomo (che come è noto è concetto ben diverso dalle interpretazioni naziste del Superuomo) Nietzsche si ricongiunge con l’animale con un abbraccio che porta l’empatia oltre la categorizzazione di specie.

Questa divisione artificiale viene dis-velata per un momento come superflua e fuorviante. L’oltre-uomo è appunto un individuo che si ricongiunge al di là dell’umano con un esponente di una specie vivente diversa ma accomunata dalle stesse sofferenze e travagli destinati agli umani: Nietzsche vede il cavallo sofferente, sfruttato e soggiogato, e gli si avvicina. L’abbraccio che segue fa cadere per un istante eterno tutti i confini. All'interno di un ragionamento sulle situazioni ormai incancrenite dello sviluppo della tecnica allo scopo di dominare gli altri animali, non si può non fare un cenno al quadro politico entro cui avviene questo processo che sembra inarrestabile.

Come affermava giustamente A.M. Bonanno, “lo Stato è guerra”. Le istituzioni statali, nel quadro delle quali si affermano le determinate ingiustizie storiche accennate, stanno portando l’umanità, il pianeta e tutte le specie viventi verso la catastrofe. Nel suo bellissimo saggio sullo Stato, H.Barclay concludeva la sua analisi storica e antropologica con un triste presagio di un futuro che ricorda il film distopico Mad Max:

“dove il mondo è diventato una gigantesca terra desolata, abitata da gang rivali, in cui c’è una città degenerata, Bartertown, che «prospera» grazie al gas metano prodotto dai rifiuti di un allevamento di maiali. La città è governata da due individui in competizione tra loro: la Regina (Tina Turner) e Master, un nano che controlla la produzione di carburante e che va in giro in groppa a un possente gigante. Ma il nano sarà in grado di mantenere il proprio potere solo finché non verrà ucciso il gigante, il quale stramazzando al suolo lo abbandonerà al rischio di essere travolto dai maiali. A poca distanza da Bartertown, c’è una comunità isolata di bambini fuggiti dalla città, un po’ più umani, innocenti e assennati degli abitanti di Bartertown, in attesa di un salvatore che li porti a «casa». Oggi, queste visioni pessimiste del futuro appaiono sempre più credibili. Chiaramente, come testimonia la comunità dei bambini, anche loro offrono un barlume di speranza. Forse, modificando un po’ la vicenda di Mad Max, si potrebbe immaginare la possibilità di costruire libere strutture alternative anche in mezzo alla crescente barbarie. Era ciò che sosteneva l’anarchico tedesco Gustav Landauer, secondo il quale si doveva ignorare quanto più possibile lo spazio fisico e mentale determinato dallo Stato e procedere a creare aree di libertà e mutualismo. Dopo le Zone Temporaneamente Autonome (taz) proposte da Hakim Bey, potremmo oggi ipotizzare Zone Permanentemente Autonome (paz) in cui organizzare associazioni di tipo cooperativo, ognuna delle quali dedicata a un aspetto specifico: educazione, salute, vendita di beni di consumo, protezione anti-incendi, e così via. Per quanto molti dei tentativi di formare comuni o comunità utopiche siano falliti, alcuni di questi esperimenti potrebbero fungere da esempi positivi nella misura in cui si sono rivelati liberatori. E soprattutto, possiamo e dobbiamo non solo essere più gentili con la terra, sforzandoci di non depredarla più, ma anche cercare di estendere il ricorso a quelle sanzioni diffuse nonviolente e positive che puntano a risolvere i conflitti più che a punire. Si potrebbero inoltre realizzare molte lodevoli azioni negative come minimizzare il proprio reddito tassabile, non votare, non prestare servizio come giurati, rifiutare l’addestramento militare o gli impieghi statali, boicottare le imprese non etiche. Forse niente di tutto ciò inciderà davvero sugli apparati dominanti, ma queste cose vanno fatte anche solo per conservare la nostra umanità. E se sprofonderemo in un mondo alla Mad Max, sarà chi crede nella libertà e nella giustizia che andrà a costituire le comunità dei bambini fuggitivi” [H.Barclay, Lo Stato. Breve storia del Leviatano, eléuthera, p.110].

L’elenco di azioni lodevoli proposto da Barclay per affrontare la violenza statuale è molto interessante ma risulta tragicamente limitato e mancante di tutte quelle pratiche di convivenza interspecifica. Dalle azioni di Animal Liberation Front alla costruzione di rifugi e santuari per animali liberi, ci sono molteplici pratiche che ci portano ad un’azione diretta nonviolenta e prefigurativa di una terra libera dal dominio dello Stato e del Capitale sugli umani e gli altri animali. Una cesoia che rompe una gabbia nella quale è detenuta una gallina, un coniglio, un pollo. Un santuario che accoglie mucche altrimenti destinate al macello. La pratica quotidiana di non cibarsi degli altri animali in tutti i loro derivati, dalla carne al latte e alle uova.

L’abbraccio al cavallo di Friedrich Nietzsche avveniva alle soglie del secolo XX, un secolo che sarebbe stato poi segnato dall’invenzione della bomba atomica, dalle guerre mondiali, dall’industrializzazione dello sfruttamento animale attraverso i macelli e quindi al cambiamento irreversibile del clima. Bollato come un insano gesto di follia, quell’abbraccio risulta essere invece la memoria di un altro futuro possibile: oggi quel futuro ci appare in tutta la sua potente nostalgia, perché è l’unico che possiamo immaginare.

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La mucca pazza

Nel 1986 il laboratorio veterinario di Weybridge in Inghilterra individua una nuova strana malattia comparsa in un allevamento di mucche nella regione dell’Hampshire. La malattia neurologica viene chiamata Encefalopatia spongiforme bovina: un male degenerativo e irreversibile che causa la morte delle mucche tramite un agente patogeno, definito inizialmente come “agente infettivo non convenzionale”. In breve avremo dunque la diffusione della malattia della mucca pazza e quindi successivamente la definizione volgare di “Mucca pazza” che rimarrà nella storia per significare in modo emblematico il rovesciamento simbolico di quanto accaduto.

La mucca, inizialmente vittima di una terribile malattia indotta dalla zootecnia e quindi dalla mano umana, diventa essa stessa agente patogeno, identificato con il nome di un soggetto pericoloso se entrato in contatto con gli umani attraverso il consumo di carne. Una volta reificato come mero oggetto di consumo, il soggetto scomparso nella produzione meccanizzata del “referente assente” ovvero il cibo per le nostre tavole, ricompare come agente patogeno, portatore di virus, pericolo incombente.

Eppure qui le mucche sono vittime di un duplice crimine: da un lato abbiamo inizialmente la loro riduzione in catene (vere e proprie in alcuni casi) per lo sfruttamento negli allevamenti, dall’altro lato successivamente abbiamo l’uso di mangimi per la loro riproduzione che causeranno queste problematiche neurologiche. I mangimi usati in questi allevamenti erano infatti di origine animale, farine di carne trattate con solventi cancerogeni: per evitare i danni provocati da questi solventi, si attuarono delle modifiche nel processo di produzione che causarono la nascita di una proteina detta “prione” che causò i danni neurologici alle mucche che conosciamo con il nome di “Mucca pazza”.

L’uso di queste farine animali negli allevamenti, con un circuito che porta al cannibalismo imposto alle mucche per il loro sostentamento nelle stalle, risale agli anni ‘70 in Inghilterra, ma è il governo di Margaret Thatcher a decidere l’abbassamento della temperatura nella produzione delle farine che causa la nascita del prione. L’avvelenamento avviene quando le mucche ingeriscono tessuti di altri animali morti e infetti per via di questo processo chimico indotto dalla zootecnia. A loro volta, in un processo ulteriore di smembramento e produzione necrologica, gli umani che mangiano pezzi di mucca infettati da altri pezzi di animali morti, possono essere contagiati da questo pericoloso morbo.

Negli anni ‘90 abbiamo effettivamente alcune morti poi riconosciute derivanti da questa catena di infezioni. “Dopo l'apparizione dell'encefalopatia spongiforme bovina (BSE), malattia detta “della mucca pazza”, il governo del Regno Unito ha adottato varie misure per lottare contro questa malattia, al fine di ridurre i rischi per la salute umana. Contemporaneamente, esso ha istituito lo Spongiform Encephalopathy Advisory Committee (SEAC), organo scientifico autonomo, con funzione di consulente del governo. In un comunicato datato 20 marzo 1996, lo SEAC affermava che l'esposizione alla BSE costituiva “la spiegazione al presente più verosimile” dell'apparizione di una nuova variante della malattia di Creuztfeldt-Jakob, encefalopatia che colpisce gli esseri umani. Facendo seguito alle raccomandazioni per la protezione della sanità pubblica dello SEAC nonché a un parere del Comitato scientifico veterinario dell'Unione europea, il 27 marzo 1996 la Commissione ha adottato, come misura di emergenza, una decisione che vietava la spedizione di qualsiasi bovino e di qualsiasi tipo di carni bovine o di prodotti ottenuti a partire da queste ultime dal territorio del Regno Unito verso gli altri Stati membri nonché verso i paesi terzi [https://curia.europa.eu/it/actu/communiques/cp98/cp9831it.htm].

Le vittime umane a inizio anni 2000 riguarderanno principalmente il Regno Unito, luogo in cui si erano infettate le prime mucche, e soltanto marginalmente gli altri paesi europei. Nonostante questa diffusione piuttosto scarsa del morbo, soprattutto nel periodo tra fine anni ‘90 e primi anni del nuovo millennio si diffonde una paura molto acuta dei pericoli della “Mucca pazza” con conseguenti ripercussioni sull’industria agroalimentare dei vari paesi, Italia compresa. A vent’anni di distanza dalla prima vittima italiana, la stampa ragionò sugli aspetti che portarono a un affinamento delle pratiche di sfruttamento delle mucche: “Per esempio la crisi rese necessaria la tracciabilità degli alimenti, che permette di conoscere il percorso che un cibo compie dalla materia prima fino alla nostra tavola. Ancora, si diede l’avvio effettivo all’anagrafe bovina, che è una condizione necessaria per tenere allevamenti e macellazioni nell’ambito della legalità. E ancora, la sicurezza dei mangimi: scoprendo il cannibalismo degli animali da zootecnia – il veicolo dell’infettività erano infatti gli scarti di macellazione degli animali stessi – si imparò che il cibo per gli animali che diventano cibo deve essere sano e controllato come il nostro” [https://www.huffingtonpost.it/blog/2021/01/14/news/vent_anni_di_mucca_pazza_non_e_stato_un_disastro_inutile-5043475/]. Ovviamente, non si mette minimamente in discussione tutto il processo che ha portato a questo risultato: eppure chi scrive questo articolo inquadra le migliorie della zootecnia nell’ambito della situazione pandemica del Covid-19, che pure dovrebbe far riflettere sulla relazione tra allevamenti animali e possibili epidemie.

Lo spettro della “Mucca pazza” aleggia ancora sul sistema di sfruttamento industriale degli animali, tanto è vero che la stessa Coldiretti, sia pur in termini apologetici e trionfalistici del proprio operato, ci tiene ad esorcizzare questa paura presente nei consumatori: “La scoperta del primo caso in un allevamento italiano ha dato il via all’emergenza nella Penisola dove – ricorda la Coldiretti – sono state adottate drastiche misure di prevenzione che hanno portato da oltre un decennio alla scomparsa della Bse dalle stalle nazionali grazie all’efficacia delle misure adottate per far fronte all’emergenza come il monitoraggio di tutti gli animali macellati di età a rischio, il divieto dell’uso delle farine animali nell’alimentazione del bestiame e l’eliminazione degli organi a rischio Bse dalla catena alimentare. Ma soprattutto – precisa la Coldiretti – è cresciuta l’attenzione alla qualità, alla sicurezza alimentare e alla trasparenza dell’informazione. Un cambiamento – sottolinea la Coldiretti – sostenuto anche dalla domanda degli italiani che nel corso degli ultimi 20 anni hanno moltiplicato gli acquisti di prodotti tipici, di prodotti biologici e soprattutto di prodotti locali a chilometri zero direttamente dagli agricoltori. L’Italia è l’unico Paese del mondo che può contare su una rete organizzata di vendita diretta degli agricoltori con Campagna Amica che mette a disposizione delle famiglie circa 1.200 mercati contadini a livello nazionale sia all’aperto che al chiuso con una varietà di prodotti che – spiega la Coldiretti – vanno dalla frutta alla verdura di stagione, dal pesce alla carne, dall’olio al vino, dal pane alla pizza, dai formaggi fino ai fiori per una spesa annua che prima dell’emergenza ha raggiunto i 2,5 miliardi di euro. Dall’emergenza mucca pazza è emersa dunque – evidenzia la Coldiretti – una agricoltura rigenerata attenta alla qualità delle produzioni, alla salute, all’ambiente e alla tutela della biodiversità come dimostra il fatto che i mentre consumi domestici di alimenti biologici raggiungono la cifra record di 3,3 miliardi mentre la cosiddetta #DopEconomy, sviluppa16,9 miliardi di euro di valore alla produzione” [https://www.coldiretti.it/salute-e-sicurezza-alimentare/mucca-pazza-a-20-anni-dal-primo-caso-litalia-e-la-piu-green-nella-ue]].

Si continua dunque come se niente fosse accaduto, proponendo nuove soluzioni tecnologiche ai danni causati dalle tecnologie dello sfruttamento imposte dall’agroindustria. Quello che cambia è soltanto un diverso passaggio nell’evoluzione di queste pratiche, che possono rivelarsi prima come innovazioni (vedi l’uso dei mangimi animali negli allevamenti) poi causare eventualmente danni (l’uso dei solventi chimici nella produzione delle farine) a cui si pone rimedio (l’abbassamento della temperatura che ha generato il prione) e quindi la creazione di una pandemia a cui porre rimedio e così via, fino all’utopia della creazione di mucche geneticamente modificate in modo perfetto per il consumo delle loro carni sul mercato. Il 19 marzo del 2024 la rivista Wired ci parla della prima mucca transgenica capace di produrre insuline nel latte: “Nel nuovo studio, svolto in Brasile, i ricercatori hanno inserito un segmento di dna umano che codifica per la proinsulina, ossia il precursore dell'insulina, in dieci nuclei cellulari di embrioni bovini. Dopo l'impianto nell'utero di mucche normali, solo un embrione è riuscito a svilupparsi e a dar vita a una vitella transgenica. Grazie all'ingegneria genetica, spiegano gli autori, il dna umano è stato predisposto per l'espressione (il processo mediante il quale le sequenze genetiche vengono lette e tradotte in prodotti proteici) delle proteine insuliniche solo nel tessuto mammario, evitando quindi la circolazione nel sangue e in altri organi […] Il prossimo passo sarà quello di clonare nuovamente una mucca per poter riuscire a ottenere una gravidanza e una lattazione spontanea. Il tema, inoltre, spera di creare tori transgenici da far accoppiare con le femmine e ottenere così vitelli transgenici per dar vita a un piccolo allevamento che, secondo le stime dei ricercatori, potrebbe rapidamente superare i metodi attuali (lieviti e batteri transgenici) per la produzione di insulina. “Potrei immaginare un futuro in cui una mandria di 100 capi, l'equivalente di un piccolo caseificio dell’Illinois o del Wisconsin, potrebbe produrre tutta l’insulina necessaria per il Paese”, ha concluso l'autore. “E una mandria più grande? Potrebbe produrre la fornitura mondiale in un anno”. [https://www.wired.it/article/insulina-umana-produzione-mucca-transgenica-latte/]

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