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La fine della scuola

«Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla)» Ivan Illich, Descolarizzare la società, 1972

Nel periodo segnato dalla pandemia del Covid-19 e negli anni seguenti non si è mai parlato così tanto di scuola. Da quando è entrata sulla scena la «didattica a distanza» poi la confusione è esplosa a livelli esponenziali. Docenti e genitori che protestavano per la chiusura delle scuole, genitori e docenti che protestavano per la riapertura delle scuole senza la dovuta sicurezza, ministri che polemizzavano con presidenti di regione che chiudevano le scuole, scienziati che affermavano che la scuola fosse il luogo dove il virus si diffonde più degli altri luoghi, genitori che affermavano il contrario, e così via, in un crescendo di grida strozzate da talk-show televisivo. E poi finita l’emergenza dei banchi a rotelle e della misurazione della temperatura, a volte fatta dai bidelli con una mano posata sulla fronte dell’alunno, è tornato il ritornello fissato sul contrasto tra la scuola serva delle aziende contro le esigenze del precariato tra il corpo docente. Mentre tutti sono ancora contro tutti, però, su una cosa sono tutti d’accordo: la scuola è un luogo importante, importantissimo, forse è l’istituzione più importante di tutta la nostra società, della nostra democrazia. Il presidente di Confindustria dirà che la scuola deve formare i lavoratori del futuro. Il sindacato Cobas lotterà contro l’elefantiaca e kafkiana distribuzione delle cattedre e contro le prove Invalsi. E così di seguito tutti i partiti, di destra di centro e di sinistra, diranno che la scuola è un’istituzione centrale, sacra, intoccabile.

Chi critica questo coro unanime lo farà soltanto per smascherare un’ipocrisia palese, ovvero che nel mentre tutti i governi hanno proclamato la scuola come centrale per il funzionamento della democrazia, l’hanno contemporaneamente svuotata di finanziamenti, precarizzando il corpo docente e lasciando gli istituti in un degrado crescente, con i soffitti che cadevano in testa agli studenti. Questa critica non fa che rafforzare il coro del governo: sì, il precedente esecutivo poteva fare di più, ma adesso ci siamo noi e dobbiamo puntare tutto sulla scuola. Non se ne esce, in tutto questo dibattito pubblico, in questi mesi di feroci accuse tra scienziati e politici sulla didattica in presenza e a distanza, non si è alzata nemmeno una voce che mettesse in discussione il cuore, il progetto, l’utilità e la funzione di questo baraccone che chiamiamo scuola. Il motivo di questa assenza è semplice ma forse è illuminante rispetto a tanto di quella falsa opposizione che sinistra e movimenti fanno ad un sistema che vorrebbero combattere ma di cui in realtà condividono principi e fondamenti.

Come altre istituzioni totali sviluppatesi nel Novecento, come il carcere, l’ospedale o il manicomio, anche la scuola è stata profondamente riadattata nella fase più recente del dominio capitalista. Come le altre istituzioni che un tempo facevano da ausilio ideologico alla grande fabbrica fordista, anche la scuola è diventata più flessibile, i suoi insegnamenti più adatti a formare la mentalità imprenditoriale dei suoi studenti. Così come la polizia e il controllo si sono diffusi e ramificati nella società e così come il lavoro si è reso pervasivo, totalizzante, con gli smartphone che ci attaccano al meccanismo produttivo h24, così la scuola è diventata smart, i suoi insegnanti sono precari che devono formare clienti e futuri lavoratori iper-sfruttati. Cambiato lo scenario, cambiati gli strumenti, resta l’obiettivo di fondo: a scuola si deve insegnare a obbedire.

Oggi la ginnastica dell’obbedienza deve essere permanente, così come si suol dire che la formazione non deve finire mai, perché se perdi il lavoro a cinquant’anni ovviamente è per colpa tua che non ti sei adeguatamente aggiornato. Se però durante la fase fordista qualche eretico poteva immaginare la descolarizzazione, la fine della scuola, e si poteva pensare un’alternativa del sapere e dell’apprendere in comunità dislocate fuori dalle logiche del capitalismo, oggi sembra che questo scenario (parimenti con quello della fine del capitalismo) non sia nemmeno immaginabile. Gli unici movimenti che abbiamo visto in questi anni sono stati sempre sulla difensiva, con comitati di base di professori che lottavano contro la trasformazione della scuola da fabbrica fordista ad azienda con produzione just in time.

E dunque anche nel dibattito avvenuto durante il periodo post-pandemia si è parlato della stabilizzazione dei docenti precari, delle aule pollaio, dei concorsi, della sicurezza e di tanto altro, certo non di «abolizione della cattedra» o altri concetti di quello che viene demonizzato come residuato ideologico degli anni 70. Sarebbe invece il caso di riscoprire quanto hanno detto questi teorici della descolarizzazione, per tracciare almeno qualche idea differente. Ivan Illich nel suo Descolarizzare la società inseriva la scuola tra le istituzioni manipolatorie e non conviviali, un’istituzione fondata sulla confusione tra l’erogazione dell’istruzione e l’assegnazione del ruolo sociale. L’attacco di Illich al sistema istituzionale d’istruzione si può capire soltanto insieme alla sua critica dell'architettura moderna, della famiglia e del sistema di merci: in questo senso Illich nel 1971 ha forse preconizzato la completa integrazione della scuola con gli strumenti tecnologici del dominio, questa oscena formazione (a distanza o meno) che lo Stato ti eroga attraverso i software di una multinazionale come Google. Per questo motivo pensare la fine della scuola sarà di nuovo possibile solo se riemergerà la voglia di distruggere questo mondo, reinventando così l’arte di costruirne uno nuovo.

Bidonville

1. Tu non sei nero    —mi sta berciando il tipo — tu non sei nero — sei bianco — sei bianco come IL PADRONE                   IL CAPORALE                                         IL SINDACALISTA                                                                   IL PRETE                                                                                 IL COMPAGNO Tu non sei nero — la voce sale dal ghetto del ghetto — tra la gente abitante della Bidonville — così come a Lagos e Nairobi a Reggio Calabria — quarto mondo enclave nel primo —

Tu non sei nero —mi sta intimando il Carabiniere — DOCUMENTI — ma io non sto facendo NIENTE niente Cammino di lato al corteo —unico dalla pelle bianca— che va verso il municipio per chiedere questi DOCUMENTI che solo io posseggo qui tra la gente della Bidonville in marcia da secoli verso una anagrafe che mi assevera portatore di PRIVILEGIO N°AU5751391                   Lui sta con noi —la folla circonda la macchina dei Carabinieri— è con noi è con noi in marcia dalla Bidonville al comune — questo il mio altro privilegio — di questa mattina bruciata dal sole rovente di Mezzogiorno della Calabria o della Nigeria — me ne torno con un marchio impresso sulla pelle — E la lezione di un popolo in marcia da secoli.

2. Mi alzo nel cuore della notte – (non) ho dormito IN TENDA — l’alba arriva sussurrando i canti dell’Imam La moschea è qui nella tenda dietro la nostra dove fa caldo si distendono tutti in preghiera aspettando l’arrivo della polizia per un altro ordine di sgombero ancora per disperdere la Bidonville e farne un’altra nuova e ancora rubare i soldi e ancora tenere chiuse le case destinate a chi lavora i campi braccianti, sex workers, tuttƏ senza una casa e senza DOCUMENTI

ARRIVA all’alba la polizia circonda e chiude le uscite li vedo distanti sono arrivati insieme I SINDACATI LE ASSOCIAZIONI I PARTITI DELLA SINISTRA I CENTRI SOCIALI sono proprio tutti lì CGIL e USB VENUTI QUI A DIALOGARE PER EVITARE PROBLEMI E PROTESTE quanti soldi vi siete intascati? diteci dove sono le case NON C’È RAGIONE DI RESTARE NELLA BIDONVILLE ANDIAMO VENITE NELLA NUOVA STRUTTURA PER VOI PREDISPOSTA nei contratti di lavoro ci sono le case LE ASSOCIAZIONI ANTIRAZZISTE I CENTRI SOCIALI SONO QUI VENUTI HANNO FATTO PROGETTI DAL TRENTINO ALTO ADIGE I CORSI DI ITALIANO eccoli li vedo stavano con noi in tenda ora sono con la polizia DAI CENTRI SOCIALI ALLA QUESTURA DA TUTTI SI SONO FATTI ODIARE SOBILLATORI VENUTI DA ROMA la giornalista lo ha scritto su internet ci passa davanti e promette vendetta

3.

LA NOTTE È TRASCORSA TRANQUILLA Becky l’ho letto sul giornale nessun morto ammazzato nel sonno nella Bidonville nessunƏ più sparatƏ dagli italiani oggi nessuna più morta soffocata nell’incendio della tendopoli almeno da ieri Becky LA NOTTE È TRASCORSA TRANQUILLA LO STATO LA POLIZIA I SINDACATI LA QUESTURA I CENTRI SOCIALI nessuna è più morta da ieri Becky la notte è trascorsa tranquilla ricordo il tuo nome il tuo volto il tuo viaggio dalla Nigeria io lo so chi è STATO Becky ad ammazzarti nella tendopoli il fuoco il fumo le fiamme ricordo chi è STATO perché il tuo nome è lo stesso di chi muore in mare cade dai barconi annega affoga il fumo l’acqua il fuoco LO STATO che non dà i documenti LO STATO che non dà le case LO STATO che spara coi fucili LO STATO che costruisce le Bidonville LO STATO che le sgombera Becky LO STATO io so chi è STATO Becky ricordo il tuo nome ho visto quei sassi il sole che cadde su questi stracci Becky voglio rivederti un giorno rifiorire spuntare dal prato nella Bidonville e andare via di qui lontano Becky via di qui

Nietzsche e il cavallo di Torino

Nella famosa situazione narrata storicamente dell’aneddoto più volte rappresentato in varie forme artistiche di Friedrich Nietzsche che abbraccia il cavallo per le vie di Torino, si è voluto dare un significato di impazzimento del filosofo tedesco, primo segnale di una follia inevitabile. Eppure tale gesto si potrebbe leggere in senso completamente rovesciato: nella sua disperata ricerca di un superamento della natura dell’uomo moderno, attraverso l’esplorazione filosofica dell’oltre-uomo (che come è noto è concetto ben diverso dalle interpretazioni naziste del Superuomo) Nietzsche si ricongiunge con l’animale con un abbraccio che porta l’empatia oltre la categorizzazione di specie.

Questa divisione artificiale viene dis-velata per un momento come superflua e fuorviante. L’oltre-uomo è appunto un individuo che si ricongiunge al di là dell’umano con un esponente di una specie vivente diversa ma accomunata dalle stesse sofferenze e travagli destinati agli umani: Nietzsche vede il cavallo sofferente, sfruttato e soggiogato, e gli si avvicina. L’abbraccio che segue fa cadere per un istante eterno tutti i confini. All'interno di un ragionamento sulle situazioni ormai incancrenite dello sviluppo della tecnica allo scopo di dominare gli altri animali, non si può non fare un cenno al quadro politico entro cui avviene questo processo che sembra inarrestabile.

Come affermava giustamente A.M. Bonanno, “lo Stato è guerra”. Le istituzioni statali, nel quadro delle quali si affermano le determinate ingiustizie storiche accennate, stanno portando l’umanità, il pianeta e tutte le specie viventi verso la catastrofe. Nel suo bellissimo saggio sullo Stato, H.Barclay concludeva la sua analisi storica e antropologica con un triste presagio di un futuro che ricorda il film distopico Mad Max:

“dove il mondo è diventato una gigantesca terra desolata, abitata da gang rivali, in cui c’è una città degenerata, Bartertown, che «prospera» grazie al gas metano prodotto dai rifiuti di un allevamento di maiali. La città è governata da due individui in competizione tra loro: la Regina (Tina Turner) e Master, un nano che controlla la produzione di carburante e che va in giro in groppa a un possente gigante. Ma il nano sarà in grado di mantenere il proprio potere solo finché non verrà ucciso il gigante, il quale stramazzando al suolo lo abbandonerà al rischio di essere travolto dai maiali. A poca distanza da Bartertown, c’è una comunità isolata di bambini fuggiti dalla città, un po’ più umani, innocenti e assennati degli abitanti di Bartertown, in attesa di un salvatore che li porti a «casa». Oggi, queste visioni pessimiste del futuro appaiono sempre più credibili. Chiaramente, come testimonia la comunità dei bambini, anche loro offrono un barlume di speranza. Forse, modificando un po’ la vicenda di Mad Max, si potrebbe immaginare la possibilità di costruire libere strutture alternative anche in mezzo alla crescente barbarie. Era ciò che sosteneva l’anarchico tedesco Gustav Landauer, secondo il quale si doveva ignorare quanto più possibile lo spazio fisico e mentale determinato dallo Stato e procedere a creare aree di libertà e mutualismo. Dopo le Zone Temporaneamente Autonome (taz) proposte da Hakim Bey, potremmo oggi ipotizzare Zone Permanentemente Autonome (paz) in cui organizzare associazioni di tipo cooperativo, ognuna delle quali dedicata a un aspetto specifico: educazione, salute, vendita di beni di consumo, protezione anti-incendi, e così via. Per quanto molti dei tentativi di formare comuni o comunità utopiche siano falliti, alcuni di questi esperimenti potrebbero fungere da esempi positivi nella misura in cui si sono rivelati liberatori. E soprattutto, possiamo e dobbiamo non solo essere più gentili con la terra, sforzandoci di non depredarla più, ma anche cercare di estendere il ricorso a quelle sanzioni diffuse nonviolente e positive che puntano a risolvere i conflitti più che a punire. Si potrebbero inoltre realizzare molte lodevoli azioni negative come minimizzare il proprio reddito tassabile, non votare, non prestare servizio come giurati, rifiutare l’addestramento militare o gli impieghi statali, boicottare le imprese non etiche. Forse niente di tutto ciò inciderà davvero sugli apparati dominanti, ma queste cose vanno fatte anche solo per conservare la nostra umanità. E se sprofonderemo in un mondo alla Mad Max, sarà chi crede nella libertà e nella giustizia che andrà a costituire le comunità dei bambini fuggitivi” [H.Barclay, Lo Stato. Breve storia del Leviatano, eléuthera, p.110].

L’elenco di azioni lodevoli proposto da Barclay per affrontare la violenza statuale è molto interessante ma risulta tragicamente limitato e mancante di tutte quelle pratiche di convivenza interspecifica. Dalle azioni di Animal Liberation Front alla costruzione di rifugi e santuari per animali liberi, ci sono molteplici pratiche che ci portano ad un’azione diretta nonviolenta e prefigurativa di una terra libera dal dominio dello Stato e del Capitale sugli umani e gli altri animali. Una cesoia che rompe una gabbia nella quale è detenuta una gallina, un coniglio, un pollo. Un santuario che accoglie mucche altrimenti destinate al macello. La pratica quotidiana di non cibarsi degli altri animali in tutti i loro derivati, dalla carne al latte e alle uova.

L’abbraccio al cavallo di Friedrich Nietzsche avveniva alle soglie del secolo XX, un secolo che sarebbe stato poi segnato dall’invenzione della bomba atomica, dalle guerre mondiali, dall’industrializzazione dello sfruttamento animale attraverso i macelli e quindi al cambiamento irreversibile del clima. Bollato come un insano gesto di follia, quell’abbraccio risulta essere invece la memoria di un altro futuro possibile: oggi quel futuro ci appare in tutta la sua potente nostalgia, perché è l’unico che possiamo immaginare.

La mucca pazza

Nel 1986 il laboratorio veterinario di Weybridge in Inghilterra individua una nuova strana malattia comparsa in un allevamento di mucche nella regione dell’Hampshire. La malattia neurologica viene chiamata Encefalopatia spongiforme bovina: un male degenerativo e irreversibile che causa la morte delle mucche tramite un agente patogeno, definito inizialmente come “agente infettivo non convenzionale”. In breve avremo dunque la diffusione della malattia della mucca pazza e quindi successivamente la definizione volgare di “Mucca pazza” che rimarrà nella storia per significare in modo emblematico il rovesciamento simbolico di quanto accaduto.

La mucca, inizialmente vittima di una terribile malattia indotta dalla zootecnia e quindi dalla mano umana, diventa essa stessa agente patogeno, identificato con il nome di un soggetto pericoloso se entrato in contatto con gli umani attraverso il consumo di carne. Una volta reificato come mero oggetto di consumo, il soggetto scomparso nella produzione meccanizzata del “referente assente” ovvero il cibo per le nostre tavole, ricompare come agente patogeno, portatore di virus, pericolo incombente.

Eppure qui le mucche sono vittime di un duplice crimine: da un lato abbiamo inizialmente la loro riduzione in catene (vere e proprie in alcuni casi) per lo sfruttamento negli allevamenti, dall’altro lato successivamente abbiamo l’uso di mangimi per la loro riproduzione che causeranno queste problematiche neurologiche. I mangimi usati in questi allevamenti erano infatti di origine animale, farine di carne trattate con solventi cancerogeni: per evitare i danni provocati da questi solventi, si attuarono delle modifiche nel processo di produzione che causarono la nascita di una proteina detta “prione” che causò i danni neurologici alle mucche che conosciamo con il nome di “Mucca pazza”.

L’uso di queste farine animali negli allevamenti, con un circuito che porta al cannibalismo imposto alle mucche per il loro sostentamento nelle stalle, risale agli anni ‘70 in Inghilterra, ma è il governo di Margaret Thatcher a decidere l’abbassamento della temperatura nella produzione delle farine che causa la nascita del prione. L’avvelenamento avviene quando le mucche ingeriscono tessuti di altri animali morti e infetti per via di questo processo chimico indotto dalla zootecnia. A loro volta, in un processo ulteriore di smembramento e produzione necrologica, gli umani che mangiano pezzi di mucca infettati da altri pezzi di animali morti, possono essere contagiati da questo pericoloso morbo.

Negli anni ‘90 abbiamo effettivamente alcune morti poi riconosciute derivanti da questa catena di infezioni. “Dopo l'apparizione dell'encefalopatia spongiforme bovina (BSE), malattia detta “della mucca pazza”, il governo del Regno Unito ha adottato varie misure per lottare contro questa malattia, al fine di ridurre i rischi per la salute umana. Contemporaneamente, esso ha istituito lo Spongiform Encephalopathy Advisory Committee (SEAC), organo scientifico autonomo, con funzione di consulente del governo. In un comunicato datato 20 marzo 1996, lo SEAC affermava che l'esposizione alla BSE costituiva “la spiegazione al presente più verosimile” dell'apparizione di una nuova variante della malattia di Creuztfeldt-Jakob, encefalopatia che colpisce gli esseri umani. Facendo seguito alle raccomandazioni per la protezione della sanità pubblica dello SEAC nonché a un parere del Comitato scientifico veterinario dell'Unione europea, il 27 marzo 1996 la Commissione ha adottato, come misura di emergenza, una decisione che vietava la spedizione di qualsiasi bovino e di qualsiasi tipo di carni bovine o di prodotti ottenuti a partire da queste ultime dal territorio del Regno Unito verso gli altri Stati membri nonché verso i paesi terzi [https://curia.europa.eu/it/actu/communiques/cp98/cp9831it.htm].

Le vittime umane a inizio anni 2000 riguarderanno principalmente il Regno Unito, luogo in cui si erano infettate le prime mucche, e soltanto marginalmente gli altri paesi europei. Nonostante questa diffusione piuttosto scarsa del morbo, soprattutto nel periodo tra fine anni ‘90 e primi anni del nuovo millennio si diffonde una paura molto acuta dei pericoli della “Mucca pazza” con conseguenti ripercussioni sull’industria agroalimentare dei vari paesi, Italia compresa. A vent’anni di distanza dalla prima vittima italiana, la stampa ragionò sugli aspetti che portarono a un affinamento delle pratiche di sfruttamento delle mucche: “Per esempio la crisi rese necessaria la tracciabilità degli alimenti, che permette di conoscere il percorso che un cibo compie dalla materia prima fino alla nostra tavola. Ancora, si diede l’avvio effettivo all’anagrafe bovina, che è una condizione necessaria per tenere allevamenti e macellazioni nell’ambito della legalità. E ancora, la sicurezza dei mangimi: scoprendo il cannibalismo degli animali da zootecnia – il veicolo dell’infettività erano infatti gli scarti di macellazione degli animali stessi – si imparò che il cibo per gli animali che diventano cibo deve essere sano e controllato come il nostro” [https://www.huffingtonpost.it/blog/2021/01/14/news/vent_anni_di_mucca_pazza_non_e_stato_un_disastro_inutile-5043475/]. Ovviamente, non si mette minimamente in discussione tutto il processo che ha portato a questo risultato: eppure chi scrive questo articolo inquadra le migliorie della zootecnia nell’ambito della situazione pandemica del Covid-19, che pure dovrebbe far riflettere sulla relazione tra allevamenti animali e possibili epidemie.

Lo spettro della “Mucca pazza” aleggia ancora sul sistema di sfruttamento industriale degli animali, tanto è vero che la stessa Coldiretti, sia pur in termini apologetici e trionfalistici del proprio operato, ci tiene ad esorcizzare questa paura presente nei consumatori: “La scoperta del primo caso in un allevamento italiano ha dato il via all’emergenza nella Penisola dove – ricorda la Coldiretti – sono state adottate drastiche misure di prevenzione che hanno portato da oltre un decennio alla scomparsa della Bse dalle stalle nazionali grazie all’efficacia delle misure adottate per far fronte all’emergenza come il monitoraggio di tutti gli animali macellati di età a rischio, il divieto dell’uso delle farine animali nell’alimentazione del bestiame e l’eliminazione degli organi a rischio Bse dalla catena alimentare. Ma soprattutto – precisa la Coldiretti – è cresciuta l’attenzione alla qualità, alla sicurezza alimentare e alla trasparenza dell’informazione. Un cambiamento – sottolinea la Coldiretti – sostenuto anche dalla domanda degli italiani che nel corso degli ultimi 20 anni hanno moltiplicato gli acquisti di prodotti tipici, di prodotti biologici e soprattutto di prodotti locali a chilometri zero direttamente dagli agricoltori. L’Italia è l’unico Paese del mondo che può contare su una rete organizzata di vendita diretta degli agricoltori con Campagna Amica che mette a disposizione delle famiglie circa 1.200 mercati contadini a livello nazionale sia all’aperto che al chiuso con una varietà di prodotti che – spiega la Coldiretti – vanno dalla frutta alla verdura di stagione, dal pesce alla carne, dall’olio al vino, dal pane alla pizza, dai formaggi fino ai fiori per una spesa annua che prima dell’emergenza ha raggiunto i 2,5 miliardi di euro. Dall’emergenza mucca pazza è emersa dunque – evidenzia la Coldiretti – una agricoltura rigenerata attenta alla qualità delle produzioni, alla salute, all’ambiente e alla tutela della biodiversità come dimostra il fatto che i mentre consumi domestici di alimenti biologici raggiungono la cifra record di 3,3 miliardi mentre la cosiddetta #DopEconomy, sviluppa16,9 miliardi di euro di valore alla produzione” [https://www.coldiretti.it/salute-e-sicurezza-alimentare/mucca-pazza-a-20-anni-dal-primo-caso-litalia-e-la-piu-green-nella-ue]].

Si continua dunque come se niente fosse accaduto, proponendo nuove soluzioni tecnologiche ai danni causati dalle tecnologie dello sfruttamento imposte dall’agroindustria. Quello che cambia è soltanto un diverso passaggio nell’evoluzione di queste pratiche, che possono rivelarsi prima come innovazioni (vedi l’uso dei mangimi animali negli allevamenti) poi causare eventualmente danni (l’uso dei solventi chimici nella produzione delle farine) a cui si pone rimedio (l’abbassamento della temperatura che ha generato il prione) e quindi la creazione di una pandemia a cui porre rimedio e così via, fino all’utopia della creazione di mucche geneticamente modificate in modo perfetto per il consumo delle loro carni sul mercato. Il 19 marzo del 2024 la rivista Wired ci parla della prima mucca transgenica capace di produrre insuline nel latte: “Nel nuovo studio, svolto in Brasile, i ricercatori hanno inserito un segmento di dna umano che codifica per la proinsulina, ossia il precursore dell'insulina, in dieci nuclei cellulari di embrioni bovini. Dopo l'impianto nell'utero di mucche normali, solo un embrione è riuscito a svilupparsi e a dar vita a una vitella transgenica. Grazie all'ingegneria genetica, spiegano gli autori, il dna umano è stato predisposto per l'espressione (il processo mediante il quale le sequenze genetiche vengono lette e tradotte in prodotti proteici) delle proteine insuliniche solo nel tessuto mammario, evitando quindi la circolazione nel sangue e in altri organi […] Il prossimo passo sarà quello di clonare nuovamente una mucca per poter riuscire a ottenere una gravidanza e una lattazione spontanea. Il tema, inoltre, spera di creare tori transgenici da far accoppiare con le femmine e ottenere così vitelli transgenici per dar vita a un piccolo allevamento che, secondo le stime dei ricercatori, potrebbe rapidamente superare i metodi attuali (lieviti e batteri transgenici) per la produzione di insulina. “Potrei immaginare un futuro in cui una mandria di 100 capi, l'equivalente di un piccolo caseificio dell’Illinois o del Wisconsin, potrebbe produrre tutta l’insulina necessaria per il Paese”, ha concluso l'autore. “E una mandria più grande? Potrebbe produrre la fornitura mondiale in un anno”. [https://www.wired.it/article/insulina-umana-produzione-mucca-transgenica-latte/]

Jacques Ellul e la tecnica

Secondo l’autore francese Jacques Ellul, più si va avanti nel progresso tecnico e più diventano fondamentalmente indistinguibili gli elementi positivi e negativi di esso, per cui siamo portate a considerare come necessarie e inevitabili le sue “storture”. Di fronte a questo processo possiamo evidenziare quattro situazioni principali, per calibrare meglio tutta la questione e inquadrarla in maniera più obiettiva. La prima situazione è che ogni progresso tecnico ha un costo: “è vero che possiamo dire che il progresso tecnico si paga con notevoli sforzi intellettuali, oltre che con apporto di capitali. Non è vero che porti sempre profitto. In molti casi si decide di lanciare un’impresa tecnica anche se non è economicamente remunerativa. E in questi casi, essendo l’azione privata insufficiente, sarà la collettività che se ne farà carico, dal momento che per interesse nessuno lo farebbe. Il progresso tecnico permette la creazione di nuove industrie, ma dovremmo considerare, per essere equanimi, quello che viene distrutto a causa di questo stesso progresso tecnico”. [https://anarcoqueer.noblogs.org/files/2021/08/Quaderno-1-Ellul.pdf p.6].

Quello che viene distrutto non è certo poco, soprattutto se pensiamo al sistema di accumulazione storico che viene creato attraverso tutti i sistemi nazionali e capitalistici che contraddistinguono lo stato moderno dalla sua creazione e dal suo inserimento nella rivoluzione industriale. Come seconda situazione del processo indicato da Ellul abbiamo dunque la proposizione che poiché ormai non concepiamo nessun problema se non come problema tecnico, un problema risolto dalla tecnica ne crea altri e così via, così che a catena il progresso tecnico causa più problemi di quelli che risolve:

“se si potessero prevedere le conseguenze, si potrebbero prevedere le risposte. Ma queste riguardano tutto l’insieme degli individui e tutta la struttura sociale, questa è una caratteristica del fenomeno tecnico moderno. Nonostante ciò, l’umanità nel suo insieme non si rende conto di queste conseguenze, percepite solo dagli specialisti, e così non è disposta ad accettare le trasformazioni necessarie. E ancor meno gli intellettuali. Quando si preparano a “entrare nel XX secolo”, secondo il titolo di un noto libro, quelli che loro vedono come i problemi maggiori della loro società sono già superati, e le loro risposte sono inadeguate. Detto in altro modo, la comprensione dei fenomeni è sempre più in ritardo anche quando si tratta di pensare in prospettiva e per il futuro (questo è l’aspetto più importante del non adattamento dell’uomo al ritmo di crescita delle tecniche). Di conseguenza i problemi sollevati sono sempre più difficili perché non appaiono a livello della coscienza collettiva se non quando sono già inestriscabili e massicci. Per questo possiamo dire che ogni progresso tecnico (e potremmo moltiplicare gli esempi all’infinito) crea situazioni più difficili da dominare a livello globale. Apparentemente questo processo sta accelerando sempre più [Ellul, ivi p.14].

Per terza proposizione, gli effetti nefasti della tecnica sono inseparabili dagli effetti negativi. “che ci situiamo al livello più elevato o al livello più umile della tecnica, vediamo che niente è a senso unico. Sono buone le tecniche di sfruttamento delle ricchezze? senza dubbio...E quando conducono all’esaurimento di quelle ricchezze? sono buone le tecniche di produzione? senza dubbio, ma... produzione di cosa? Dal momento che queste tecniche permettono di produrre qualunque cosa, se vi è totale libertà si produrranno cose assurde, vane e inutili che ci porteranno a questa produzione di marchingegni a cui assistiamo attualmente. Questo ci porta a rilevare un aspetto importante: produrre è considerato un bene in sé qualunque sia la produzione, l’unico ruolo della tecnica è aumentare la produzione” [Ellul, ivi p.15].

Arriviamo così, sulla scia di un movimento diventato completamente automatico e cieco, alla proposizione finale di Ellul, che vede come ogni progresso tecnico porta con sé un certo numero di effetti imprevedibili. Certo alla nascita della zootecnia industriale, ovvero al momento in cui i corpi degli altri animali venivano studiati per un loro sfruttamento ai fini del consumo umano per mezzo della tecnica, con i primi sistemi automatizzati di mungitura per le mucche (ad esempio) non avremmo certo potuto prevedere, a fine ottocento, l’approdo attuale per il quale la concentrazione degli animali negli allevamenti intensivi produce una tale quantità di emissioni di gas serra per cui la stessa vita sul pianeta è a rischio.

“I più semplicisti ritengono che sia facile dare un orientamento al progresso tecnico, assegnargli dei fini elevati, positivi, costruttivi, ecc. è quello che sentiamo dire di continuo. la tecnica non sarebbe altro che un insieme di mezzi che bisogna ordinare verso un fine, e questo è ciò che dà al progresso tecnico il suo significato. Grazie al fine si giustifica la tecnica, anche se per un certo tempo comporta inconvenienti. se la pianificazione socialista conduce al lavoro forzato e a una situazione di penuria, il fine, che è il socialismo, legittima tale tecnica. Ma il fenomeno tecnico non presenta mai questa semplicità lineare. Qualunque progresso tecnico comporta tre classi di effetti: gli effetti desiderati, gli effetti prevedibili e gli effetti imprevedibili. Quando gli scienziati cominciare a fare ricerca in un certo settore tecnico, pretendono di ottenere un risultato chiaro e preciso. A partire da un problema determinato, come perforare, per esempio, a 3000 metri di profondità per accedere a una riserva di petrolio, si mettono in funzione un insieme di tecniche e se ne inventano di nuove per risolvere il tale problema: sono gli effetti desiderati. Di fronte a una scoperta gli scienziati valutano in quali campi si può applicare, vi elaborano procedimenti tecnici di applicazione, si aspettano un certo numero di risultati e li ottengono. la Tecnica è abbastanza sicura, produce gli effetti previsti. Chiaramente ci possono essere fluttuazioni ed errori, ma possiamo essere sicuri che il progresso tecnico eliminerà la zona di incertezza in ogni ambito. Vi è una seconda serie di effetti legati a qualunque operazione tecnica: gli effetti non desiderati ma prevedibili. Per esempio, un importante chirurgo dice che “un intervento chirurgico consiste nel rimpiazzare una malattia con un’altra”, chiaramente si tratta di una malattia importante scambiata con un’altra di minor importanza, o di una malattia che minaccia la totalità dell’individuo con una più localizzata. Vi sono qui effetti che si preferirebbe evitare, che sono negativi, ma inevitabili, conosciuti e limitati. In tutte le operazioni tecniche si dovrebbe essere preveggenti come questo chirurgo e riconoscere gli effetti non ricercati ma prevedibili (il che non si fa quasi mai, come abbiamo visto nel nostro primo punto), per valutare correttamente quel che si sta per fare e procedere a soppesare gli effetti positivi e negativi. Vi è però una terza categoria di effetti totalmente imprevedibili. In ogni modo, dobbiamo ancora distinguere gli effetti imprevedibili ma desiderati da quelli che sono allo stesso tempo imprevedibili e indesiderati. I primi si debbono alla nostra incapacità di prevedere con esattezza un fenomeno di cui intravediamo la possibilità; per esempio, nell’ambito dell’abitazione, si poteva immaginare che utilizzando il sistema dei circuiti chiusi vi sarebbero stati degli effetti di ordine psicologico e sociologico profondi. l’uomo, vivendo nell’immensa unità di un condominio si trasforma, ma come e in che cosa non siamo in grado di prevederlo con esattezza. Vi è un cambiamento nel comportamento, nelle relazioni, nelle distrazioni, ecc. E su questo possiamo dire qualunque cosa senza che una previsione sia più certa che l’altra” [Ellul, ivi, p.20].

Mostri del Novecento

Destandosi da un mattino di sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel letto, in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si reggeva a stento la coperta, ormai prossima a scivolare completamente a terra. Sotto i suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale. Franz Kafka, La Metamorfosi

La storia degli uomini è popolata da mostri. Gli esseri umani hanno spesso incontrato nel loro cammino delle strane e ibride creature, non immediatamente classificabili nella specie umana o in quella animale o vegetale: creature presenti in varie forme nella vita, nell’arte, nella letteratura e nella varie scienze sociali che essi hanno costruito nei secoli con l’osservazione e lo studio della realtà che li circonda. Il termine latino monstrum deriva dal verbo monere e cioè avvisare, ammonire: il monstrum è un ammonimento, un’apparizione o un prodigio per gli uomini. Una figura abnorme, portatrice di qualità ibride tra le varie specie, metà uomo e metà bestia come il Minotauro greco, il centauro o l’uomo ragno, oppure tra più specie incrociate come l’unicorno, il cavallo alato o il lupo mannaro. Tutte figure che hanno popolato la riflessione umana per millenni, influenzando non solo l’arte e la letteratura, ma anche lo stesso sviluppo della vita sociale, storica e dunque politica degli uomini. Per prima cosa risalta questa qualità di ibridazione tra specie, ma il mostro, questa creatura che si discosta dalla normazione regolata fatta dagli umani, ripone nella capacità di eccedere la sua quintessenza. Il mostro eccede in quantità o qualità determinate caratteristiche proprie di uomini o animali, tanto che si ritiene questa eccedenza un surplus così irrimediabilmente irrecuperabile da essere catalogato in qualche dimensione nuova, che osserviamo all’inizio nella sua manifestazione di prodigio, di portento che lascia sgomenti ed attoniti:

Il mostro, dal Medioevo fino al XVIII secolo, di cui adesso ci occupiamo, è essenzialmente il misto. È il misto di due regni, del regno animale e del regno umano: l’uomo con la testa di bue è un mostro, l’uomo dai piedi di uccello è un mostro. È il misto di due specie: il maiale che ha una testa di pecora è un mostro. È il misto di due individui: colui che ha due teste e un corpo è un mostro, colui che ha due corpi e una testa è un mostro. È il misto di due sessi: colui che è contemporaneamente uomo e donna è un mostro. È un misto di vita e di morte: il feto che viene alla luce con una morfologia che non gli consente di vivere, ma riesce tuttavia a sussistere per qualche minuto o qualche giorno, è un mostro. È, infine, un misto di forme: colui che, come un serpente, non ha né braccia, né gambe è un mostro. Trasgressione, per conseguenza, dei limiti naturali, trasgressione delle classificazioni, trasgressione della legge come quadro di riferimento: è proprio di questo che si parla nella mostruosità. Ma non penso che sia solamente ciò che costituisce il mostro. Non è l’infrazione alla legge naturale -per il pensiero del Medioevo e senza ombra di dubbio anche per il pensiero del XVII e XVIII secolo- a costituire la mostruosità. Perché vi sia mostruosità, occorre che la trasgressione del limite naturale, la trasgressione del quadro della legge sia tale da riferirsi a (o per lo meno da mettere in causa) un’interdizione della legge civile, religiosa o divina. (Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2006, pag.64)

Il mostro eccede nella misura, può essere un minuscolo lillipuziano, il gigantesco Gulliver o l’enorme scimmia King Kong appesa sul grattacielo americano, ma può anche manifestarsi nell’eccedenza di poter superare determinate leggi fisiche ritenute insormontabili attraverso l’immortalità, la telepatia, la bilocazione, l’invisibilità. Di fronte a questo costitutivo campionario di eccedenze, abnormità e ibridazioni gli uomini si sono sempre rapportati con reazioni parimenti eccessive. L’uomo è stato attonito scopritore del mostro e suo attento e scrupoloso studioso ma anche suo creatore. Nell’ibridazione di più specie o di esseri con componenti della tecnica fino ai cyborg ed ai robot opera esclusiva della tecnologia, fino alla creatura del Dr.Frankenstein, l’uomo e il mostro hanno stretto una particolare alleanza. E questi mostri sono spesso usciti dalle pagine dei libri o dalle pellicole cinematografiche o dai dipinti nelle chiese e sono diventati oggetto di culto, di timore, di speranza e di riscatto per gli uomini. Mostri buoni e mostri cattivi, mostri liberatori o tiranni, mostri dell’adattamento al sistema di produzione vigente e mostri del superamento dell’ordine costituito. Mostri immaginari ma anche (questo è un altro punto decisivo della questione) mostri realmente esistenti. E se non esistenti nella realtà fisica immediatamente riscontrabile, perlomeno esistenti per l’effetto prodotto da essi nella costituzione essa stessa ibrida della vita umana, nella commistione del pensiero e dell’osservazione della realtà, nel prodotto immediato tra fiction, discorsi e narrazione e sue risultanze storico pratiche.

«U-u-u-u-u-uhu-hu-huuu! Oh, guardatemi, sto per morire! La tempesta nel portone mi ulula il de profundis e io mugolo con lei. Sono finito, finito! Una canaglia col berretto bisunto, il cuoco della mensa per l’alimentazione normale degli impiegati al Consiglio dell’Economia Nazionale, mi ha versato addosso dell’acqua bollente e mi ha scottato il fianco sinistro. Che bestia, e pensare che è un proletario! Oh Signore, mio Dio che male! L’acqua bollente mi ha corroso l’osso e adesso mugolo, mugolo, mugolo, ma serve forse a qualcosa?». Inizia così, con la morte di un cane randagio in un oscuro vicolo di Mosca, il romanzo di Mikhail Bulgakov Cuore di cane, un testo uscito nel 1925, negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e dopo i tentativi di correzione economica fatti da Lenin con la NEP. Al cane Pallino, grazie all’intervento del professore Preobrazeskij, vengono innestate nel corpo di animale delle componenti umane che lo trasformano in un mostro ibrido che avrà, però, vita breve. L’esperimento fallito richiama in maniera scoperta, come altri testi della letteratura pubblicata fuori dai confini sovietici, le problematiche evoluzioni del grande esperimento socialista post-rivoluzionario. Nel circo di Bulgakov, scrittore che godrà di una misteriosa accondiscendenza da parte di Stalin nonostante il carattere fortemente critico dei suoi scritti, compaiono queste figure mostruose e fantastiche che assumono sul loro corpo gli sconvolgimenti avvenuti in Unione Sovietica in quel periodo storico. Il socialismo fortemente egualitario e post-bellico crea inevitabilmente i primi scontenti, considerando anche le problematiche suscitate da una manovra capitalista che costruisce l’embrione di una nuova borghesia statale. L’artificio di un intervento sull’economia imposto dall’alto da parte di un potere conquistato per via rivoluzionaria mette in scena nella letteratura questi ambigui mostri provocati dall’interventismo socialista. Per questo motivo tali mostri avranno un grande successo in occidente: a venire mutata con la forza è una natura umana considerata immodificabile ed eterna, specchio di un sistema di produzione considerato alla stessa stregua come immutabile. In un regime capitalista puro e democratico il cane Pallino sarebbe rimasto dentro la sua specie, mentre nel socialismo della NEP si tentano invece questi strani innesti destinati al fallimento. La natura umana viene sconvolta e turbata rispetto al suo corso regolare. Siamo di fronte a delle entità mostruose dal carattere prometeico che sfidano leggi eterne ed immutabili, siamo di fronte a dei malriusciti mostri come quelli del Dr. Frankenstein. Se il mostro del proletariato industriale veniva inteso come il classico spettro che popolava le notti insonni della borghesia europea (“uno spettro si aggira per l’Europa…”), qui invece siamo di fronte al grido che ha attraversato tutto il novecento, un secolo segnato dallo scandalo per la presenza di queste anormali creature senza religione né umanità. I mostri di Bulgakov sono dei mostri del superamento, perché richiamano il tentativo eccedente di mutamento dall’esterno della natura umana: visti dall’occidente capitalista, però, diventano i mostri tipici dell’adattamento, perché si trasformano nel segnale di pericolo di un possibile rovesciamento del regime di produzione vigente. Il punto critico e politico della faccenda è dunque qui, nel fatto che ogni idea di trasformazione venga negata alla radice e bollata come mostruosa, proprio mentre ben altri mostri imperverseranno sulla scena e verranno considerati assolutamente naturali, basti pensare al tragitto che porterà l’uomo comune, “normale” e borghese, ad affidarsi pochi anni dopo ad Adolf Hitler e al suo tentativo eugenetico di creare una razza pura di dominatori del pianeta.

Sul versante opposto dell’imprevedibile surplus genetico e dell’escrescenza deviante dalla norma, peraltro costruita razionalmente a tavolino nei laboratori sovietici, lo stesso orizzonte politico che guardava inorridendo la possibile generazione di nuovi mostri si è anche speso per la creazione di mostri a proprio uso e consumo, di mostri “funzionali”, mostri dell’adattamento al sistema esistente. Mostri della produzione industriale, figure mitologiche di operai devoti al proprio sfruttamento in metamorfosi nella catena di montaggio, mostri soldato diventati tutt’uno con le protesi militari ad essi applicate, da Rambo in poi, mostri sportivi gonfi di steroidi anabolizzanti che hanno sublimato il dogma della competizione trascendendo ogni remora estetica e ogni finalità di conquista sportiva per diventare una sola cosa con la propria esibita trasformazione in fenomeni da esibizione spettacolare. Il mostro dell’adattamento si muove nella sottile linea di confine tra il rispetto del limite imposto dal contesto sociale normativo e il suo possibile superamento in termini di eccessivo e patologico rispetto della norma stessa. Determinati a selezionare la presunta identità razziale “ariana” sterminando con scientifica violenza ogni eventuale “degenerazione” dal modello presupposto, i nazisti produssero durante la loro breve ma intensa esperienza storica di potere nel Terzo Reich una incredibile quanto significativa e complessa serie di tentativi “eugenetici” volti a intervenire sulla natura umana per isolarne e scongiurare la perpetuazione di suoi elementi supposti devianti. La pratica degli esperimenti operati dai medici nazisti nei campi di concentramento si è risolta fondamentalmente in un clamoroso e tragico museo degli orrori: ricerche sulla cura ormonale dell’omosessualità, castrazioni e sterilizzazioni, esperimenti di congelamento e chi più ne ha più ne metta. Il desiderio di intervenire sulle possibili deviazioni dal modello di razza pura e di evitare di confrontarsi con gli aspetti non convenzionali della natura umana ha prodotto da un lato una lotta senza quartiere contro il fantasma del mostro del superamento, dall’altro lato si è rispecchiato nella volontà di creare il calco di un mostro funzionale, di un soldato perfetto e fedele alla religione totalitaria del Reich nazista. Il sogno di un’omologazione forzata che avrebbe dovuto generare mostri, proprio come il sonno della ragione paventato da Goya. Se nella letteratura inglese del primo ottocento abbiamo visto nascere l’ipotesi dei mostri del superamento, con il secolo successivo compaiono dunque i primi esempi dei mostri dell’adattamento. Ad esempio la fortunata opera di Franz Kafka ci presenta numerose specie di queste possibili evoluzioni e ibridazioni dell’umano in forma mostruosa ed animale. Anche nel suo racconto più famoso, “La metamorfosi”, (pubblicato nel 1915) lo spaventoso insetto nel quale si trasforma lo sfortunato commesso viaggiatore rappresenta l’allegoria di un uomo comune ridotto in forme mostruose dalla necessità, e forse dall’impossibilità, di un adattamento alle istituzioni forti della società europea del novecento, ossia la famiglia patriarcale, la produzione fordista e la macchina burocratica statale. Percepito dagli altri come un disgustoso insetto, oggetto della repulsione della maggioranza o dell’amorevole pietà di pochi, lo sfortunato uomo comune non potrà che venire schiacciato e messo da parte con la ramazza della domestica.

Distopie reali

In che stato versa il genere distopico nelle opere della letteratura, nel cinema e nella televisione? La distopia descrive una società immaginaria, spesso ambientata nel futuro, nella quale le tendenze sociali, politiche e tecnologiche che oggi osserviamo nel presente sono portate agli estremi più negativi e paradossali: questa focalizzazione consente in ultima istanza un racconto critico della realtà in cui viviamo. Da più parti, in vari commenti critici, si parla di una recente “fine della distopia” e si sottolinea come il genere distopico sia stato sovrastato dall’accelerazione della realtà politica e sociale: se una distopia scritta negli anni cinquanta del secolo scorso aveva bisogno di qualche decennio per assorbire i contenuti più estremi prima di vederli poi girare tranquillamente nelle notizie di cronaca, adesso sembra che i tempi di congiungimento tra reale e irreale si siano di gran lunga accorciati, in modo che la distopia più immaginifica sia visibile solo dopo pochi anni dal suo concepimento artistico e letterario. Se leggiamo il bellissimo libro di James Ballard “Kingdom Come”, tradotto in italia “Regno a venire” per Feltrinelli nel 2009, vediamo come l’immagine di un’Inghilterra distopica popolata da pervasivi centri commerciali aperti 24 ore su 24, luoghi che hanno fagocitato le istituzioni democratiche tradizionali fino a sostituirne il loro ruolo e il loro significato nella struttura sociale, sia sempre più sovrapponibile al contenuto quotidiano di qualsiasi tabloid. «Le chiese sono vuote e la monarchia è naufragata schiantandosi contro la sua stessa vanità. La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce. Non c’è quasi nessuno che abbia un briciolo di senso civico. È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre. Il grande sogno dell’Illuminismo, cioè che la ragione e l’egoismo razionale un giorno avrebbero trionfato, ha portato direttamente al consumismo dei nostri giorni» [James Graham Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, 2009, p.110].

Un altro esempio ci viene dalla trasposizione televisiva del 2017 del romanzo “The handmaid’s tale”, opera dell’autrice canadese Margaret Atwood nel 1985. Siamo in un futuro decisamente tenebroso, gli Stati Uniti d’America si sono trasformati in una dittatura fondamentalista religiosa e hanno cambiato nome in Gilead: nella nuova società si seguono i dettami più estremisti e fanatici presi alla lettera dal Vecchio Testamento, c’è un controllo militare fortissimo, gli oppositori politici vengono impiccati ed esposti per le strade, ma soprattutto c’è un carattere fortemente misogino e repressivo nei confronti delle donne. Pochissime persone, infatti, in seguito alle devastazioni ambientali, all’inquinamento e alle malattie precedenti il cambio di regime, sono rimaste fertili e la popolazione ormai si riduce sempre di più: per questo motivo le ultime donne che possono avere dei bambini vengono schiavizzate e affidate, come “ancelle”, alle famiglie potenti di Gilead. Anche la moglie del leader della nazione, il “Comandante”, ha la sua ancella schiava che deve partorire al suo posto e donarle un figlio. La figura della moglie del comandante è estremamente significativa, una donna impegnata politicamente con gli insorti ma con un passato turbolento nel quale esprimeva il suo protagonismo, poi sacrificato sull’altare della nuova realpolitik misogina: un riferimento piuttosto scoperto alla parabola di alcune intellettuali ex femministe militanti che hanno sposato oggi le teorie più reazionarie, spesso ispirate ad un ritorno al cristianesimo più retrogrado e fondamentalista.

Quanto è diversa la realtà immaginata nel 1985 dalla Atwood rispetto all’odierna America di Trump e quanto sono possibili già domani gli scenari allucinati di un paese che sacrifica i contenuti dell’illuminismo borghese pur di rispondere mobilitando le masse alla crisi del capitalismo? Se guardiamo al successo anche in casa nostra di teorie e gruppi politici che stanno slittando dall’anticapitalismo di sinistra ad una sua versione retrograda da “socialismo conservatore” possiamo esaminare da vicino la progressione della realtà verso la distopia de “Il racconto dell’ancella”. Un altro elemento forte del genere distopico è sempre stato quello di focalizzare le ibridazioni tra la specie umana e le tecnologie informatiche, immaginando un sempre maggiore asservimento degli uomini al dominio dei software e degli hardware innestati come cyborg nelle carni umane. Alcune raffigurazioni delle distopie più fortunate nel panorama televisivo e del web odierno ci raccontano un possibile e prossimo venturo riassorbimento della finzione con la realtà.

Nella puntata speciale uscita il natale 2014 intitolata “White Christmas” della serie tv “Black Mirror” si racconta di un uso sempre più fisicamente invasivo di internet: con un apposito dispositivo chiamato “Z-Eye” il web diventa tutt’uno con il piano reale e relazionale delle persone, proiettando così anche alcuni aspetti tipici della vita dei social network. Matt, il protagonista della puntata, viene bloccato dalla moglie dopo che questa ha scoperto le attività clandestine del marito: dopo il blocco effettuato tramite lo Z-Eye, la moglie di Matt vedrà solo una sagoma bianca che è impossibilitata ad interagire. Questa trasposizione da fiction degli effetti dei blocchi sui social network se da un lato richiama ad una situazione già presente nella realtà per l’estensione dell’ecosistema dei social nelle vite di ciascuno già oggi decisamente pervasiva e reale, dall’altro lato ipotizza gli effetti dell’inserimento del software nel corpo umano: anche qui è molto facile prevedere come lo sviluppo tecnologico sia già in marcia forzata verso il raggiungimento di questo ulteriore obiettivo, basti pensare agli occhiali-smartphone di Samsung, ai progetti avveniristici di Google così ben finanziati dai ricavi esentasse del suo dominio globale per farsi un’idea della corsa al prossimo riassorbimento nella realtà di questo immaginario.

Forse, per allontanarci dall’avvenire della coincidenza, dovremmo rivolgerci a uno dei padri nobili della fantascienza distopica del Novecento, ovvero lo scrittore americano Philip K. Dick, le cui opere letterarie sono state praticamente saccheggiate dal cinema a partire da “Blade Runner”, trasposizione cinematografica del testo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Nella sua immensa produzione Dick ha creato una narrazione critica attraverso i suoi romanzi di fantascienza sia del benessere del sogno americano del secondo dopoguerra che degli anni della controcultura e dell’uso di droghe nel periodo della contestazione che ruota intorno al 1968. Nello straordinario romanzo “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, (1965) compare una singolare ed ambigua raffigurazione della stessa divinità: Dick, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, segnati da sofferenze e crisi mistiche, si è spesso interrogato sul rapporto col divino, mettendolo in correlazione ad una visione critica del potere e della società americana. La trama del romanzo affronta la rivalità emersa tra due spacciatori di droga e commercianti piuttosto singolari, Leo Bulero e Palmer Eldritch: il primo vende ai coloni terrestri emigrati su Marte dei giocattoli in miniatura nei quali collocare la bambola Perky Pat. Unita all’assunzione di una droga chiamata Can-D, i coloni possono immaginare molto realisticamente (fin troppo) di essere di nuovo sulla Terra a vivere una vita felice e di essere proprio come le belle bambole simili alla coppia Barbie-Ken dell’american dream del boom post bellico occidentale. Il concorrente di Bulero è appunto Palmer Eldritch, un mostro con occhi artificiali ed una mano sostituita con una protesi metallica e denti d’acciaio inox. Eldritch è uno spregiudicato spacciatore e di seguito ad un viaggio nello spazio mette sul mercato una nuova droga, il Chew-Z, che darà ai coloni esperienze di vita molto più vivide e realistiche di quelle create dal Can-D. Il Chew Z spacciato da Palmer Eldritch comincerà a far saltare la sottile linea divisoria tra realtà e finzione fornita dalle droghe precedenti, per cui gli assuntori si troveranno catapultati in mondi differenti nei quali a comandare è questo Dio cattivo, lo stesso mostro-cyborg Palmer Eldritch:

«‘Che roba è?’ chiese Eldritch. ‘Una Bibbia di re Giacomo. Ho pensato che poteva servire a proteggermi’. ‘Non qui’ disse Eldritch. ‘Questo è il mio dominio’. Fece un gesto in direzione della Bibbia e quella sparì. ‘Però potresti averne uno tuo, di dominio, e riempirlo di bibbie. E questo può farlo chiunque. Non appena la nostra attività sarà avviata. Avremo dei plastici, naturalmente, ma succederà più tardi, quando partiranno le attività sulla Terra. E comunque è una mera formalità, un rituale per facilitare la transizione. Il Can-D e il Chew-Z verranno messi in commercio sulla stessa base, in aperta concorrenza; non pretenderemo che il Chew-Z faccia niente che il vostro prodotto non faccia già. Non vogliamo far scappare la gente; la religione è diventata un argomento delicato. Sarà solo dopo averlo provato qualche volta che si renderanno conto dei suoi diversi aspetti; il tempo che non passa e l’altro, forse quello più vitale. Che non si tratta di una fantasia, che entrano veramente in un nuovo universo»[P.K.Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2003, pag.114].

Il mostro-divino Palmer Eldritch ci parla della paura che emerge nel rapporto tra gli uomini e le sostanze stupefacenti e tra gli uomini ed il commercio. Se la droga è il bene scambiabile da cui trarre profitto per eccellenza nel “mercato libero” perché crea dipendenza e quindi riproduce i propri consumatori, allora nel cambiamento di percezione che innerva la società queste caratteristiche di devozione alle sostanze psicotrope potranno manifestarsi anche nel volto sfigurato di Dio, un volto reso mostruoso dal commercio più che dalla droga stessa: una distopia alquanto realistica se proiettiamo le mostruosità del capitalismo in un futuro remoto, un futuro nel quale il genio di Philip K. Dick osserva il volto malvagio di Dio.

Un anno di gloria. Le pagelle.

Sepe 5,5. Faccio una premessa. È uno di quei calciatori che non voglio vedere più con la maglia della Salernitana, dopo aver visto i vari Montervino, Schiavi, Pucino, Vitale. Come portiere non mi piace a livello di impostazione tecnica: è vero che gioca bene coi piedi e dà grande sicurezza alla squadra nell'impostazione e come carisma, ma il modo in cui para, spesso in ginocchio a tipo bagher di pallavolo, non me gusta (spoiler, comincio a parlare in messicano). Però il girone di andata gioca bene, fino all'infortunio gli metto un sei e mezzo in pagella. Dopo l'infortunio provvidenziale, scivola in panchina. Gli tolgo un voto e prende l'insufficienza perché non sa accettare di dovere fare la panchina a una leggenda del calcio mondiale, di cui parlo qui sotto.

Ochoa 9: non ho mai visto un portiere fare così tanto la differenza, almeno nella mia squadra del cuore. Gli interventi di Memo sono fenomenali, e sono tantissimi: contro il Milan (andata e ritorno), contro il Torino, l'Inter, il Napoli...tanti punti in classifica sono fatti grazie a lui. Del resto, come dicevo, stiamo parlando di una leggenda della storia del calcio mondiale. Uno che ha fatto cinque mondiali e che si appresta, speriamo, a fare il sesto, magari giocando ancora nella Salernitana. Grazie a De Sanctis per aver colto l'occasione sul mercato. Memo, in pochi mesi, al pari di Ribery, ha fatto da ambasciatore della Salernitana nel mondo.

Pirola 7: inizia in sordina con Nicola, ma con Sousa cresce in personalità, fa anche due gol e si candida per il riscatto la prossima stagione. In alcune partite il suo pressing sulle caviglie degli avversari è determinante, ci mette cuore e professionalità. Alla fine diventa titolare inamovibile nel terzetto scelto da Sousa. Bene così.

Lovato 5: sceglie per primo la causa granata e questo gli va riconosciuto. In ritiro ha un brutto infortunio in amichevole. Quando ritorna in campo è un disastro, con la Cremonese in casa Nicola non lo sostituisce per non stroncargli la stagione. Nel finale di campionato però va in crescendo, grazie anche al resto della squadra che gioca con fiducia. È il titolare dell'Under 21, la società ha puntato molto su di lui, speriamo che l'anno prossimo, con un ritiro fatto in tranquillità, possa rendere meglio. Noi lo aspettiamo.

Daniliuc 6.5: chiude nel terzetto titolare. Ha fatto delle partite ad altissimo livello, si è conquistato la maglia della nazionale austriaca, può migliorare in prospettiva. In alcune partite però fa degli errori piuttosto gravi in copertura. Per questo mi limito ad un sei e mezzo in pagella, perché in generale è un calciatore che può fare benissimo in futuro, vista la giovane età.

Gyomber 7,5: lui è l'immortale, l'ultimo reduce della squadra che ha conquistato la serie A (liberandoci da Claudio Lotito, il che vale più di una promozione). Inizia il campionato sempre con grande impegno, che è la qualità che lo contraddistingue insieme alla professionalità, all'umiltà e all'attaccamento alla maglia. Quando fa degli errori in campo, cerca sempre di rimediare in velocità rincorrendo gli avversari. A volte spazza la palla in tribuna e dimostra i suoi limiti tecnici. Nel calcio moderno, con la difesa a tre, per giunta, già il portiere deve sapere impostare l'azione...mentre il buon Norbert sembra venire dal passato, arcigno stopper di marcatura. Eppure, nel finale di campionato, diviene insostituibile e infallibile. Chiude annichilendo al Maradona un certo Osimenh. Sousa comincia a inserirlo negli schemi offensivi e lui comincia a tenere palla prima di buttarla avanti. Se non fosse per qualche infortunio, chiuderebbe ancora meglio. Terzo anno qui a Salerno, terzo anno di gloria per lui.

Troost-Ekong 7: arriva dal Watford per richiesta di Nicola, per cui dopo un buon inizio si troverà, con Sousa, indietro nelle gerarchie. Però quando gioca non demerita, fino al gol contro l'Udinese che farà la storia sua e del nostro club. Merita una menzione positiva anche il suo atteggiamento nello spogliatoio, sempre sorridente e pronto a dare una mano, così come nella vita, con il suo impegno ambientalista: già il suo acquisto è a impatto zero sulle emissioni. Ne parla il “Guardian” e anche questo dà lustro alla nostra città.

Bradaric 7: anche lui comincia in sordina. Nicola non lo fa giocare, quando inizia è timido, sembra un acquisto sbagliato...Poi progressivamente sale in cattedra, mostra grande tecnica, sulla fascia diventa il punto di riferimento nello schema di Sousa e i suoi assist sono fondamentali, soprattutto quelli per Dia. Altra pedina importante per il prossimo anno, patrimonio della società.

Mazzocchi 8: inizia il ritiro in polemica con la società, poi finalmente raggiunge un accordo sul contratto e inizia il campionato alla grande. Primo gol in serie A contro l'Empoli con una serpentina meravigliosa, grande prestazione in casa della Juventus, gol vittoria fondamentale contro lo Spezia, con un tiro a giro nel set. È il primo calciatore della Salernitana a scendere in campo con la maglia azzurra della nazionale italiana. Solo questo gli merita il voto alto in pagella. Poi si infortuna e la sua assenza diventa pesante. Torna per il finale di campionato e fa il suo, anche se con qualche partita non proprio eccelsa, nella quale si incaponisce e non fa le decisioni giuste palla al piede. Però finisce con la fascia di capitano al braccio, spronando la squadra racchiusa per motivarsi in cerchio prima di affrontare il Napoli (la squadra della sua città) al Maradona. Si sentono le sue parole: questo è il giorno! E infatti la Salernitana quel giorno lo fa diventare storico, zittendo l'arroganza dei campioni d'Italia. Con qualche consiglio di Sousa in ritiro, dovesse rimanere, ancora capitano, può entrare nella leggenda del nostro club.

Sambia 6: lui è uno di quei calciatori che, al contrario di Sepe, adoro e apprezzo per umiltà e spirito positivo nell'affrontare questo sport. Nel periodo del Covid, quando era in Francia, entra in coma e rischia la morte. Pochi mesi dopo è di nuovo in campo e gioca con il sorriso, facendo gruppo con gli altri francofoni della squadra come Coulibaly. Inizia in maniera negativa il torneo, per Nicola non esiste. Poi inizia a giocare e stupisce tutti, sa tirare anche delle punizioni micidiali. Con Sousa arretra nelle gerarchie perché non sa dare quella costanza aggressiva nel gioco che pretende il nuovo tecnico. Se dovesse rimanere, può avere anche lui in ritiro l'occasione per dare il meglio di sé.

Bronn 5: per Nicola è titolare inamovibile, ma comincia a traballare nelle sue prestazioni assieme alle idee del tecnico del 7%. Con Sousa viene impiegato poco e quando entra non dà garanzie. Lui viene da una retrocessione in Francia e poi da un mondiale con la maglia della Tunisia. De Sanctis ha scommesso su di lui, ma se questo campionato è andato bene non è certo grazie alle sue prestazioni.

Vilhena 6,5: ex ragazzo prodigio, perso nei meandri del calcio europeo, viene preso in prestito dall'Espanol nello scetticismo generale. Grande tecnica, si dice, ma poca continuità. Con Nicola gioca sempre, anche quando magari potrebbe riposare. Ha dato nel complesso buoni spunti, conditi da gol importanti e di ottima fattura. La sua tecnica non si discute: in alcune partite, quando è in vena, fa la differenza, mentre in altre sembra perdersi tra i fantasmi che gli hanno condizionato la carriera. Finisce il campionato in buona forma, con mister Sousa che lo apprezza e, pare, chieda alla società il suo riscatto. Dovesse essere riconfermato, sarà bene anche per lui fare il ritiro e studiare cosa vuole il tecnico portoghese da lui.

Kastanos 7: all'inizio non è tra i miei preferiti, direi con un eufemismo, ma per meri pregiudizi: perché è della scuderia di Giuffredi, è stato preso da Fabiani, è cipriota (un cipriota conosco e lo odio profondamente). Al di là di queste mie paturnie, mentre mio cugino a metà stagione durante una partita che sta andando male mi dice “ma perché non gioca Kastanos?” facendomi incazzare, fa un campionato incredibile condito da gol stupendi. Mi tolgo il cappello e mi inchino a Greg, il nostro Bernardo Silva.

Nicolussi Caviglia 6,5: è un gran bel calciatore, un giovane-vecchio che sembra avere i nervi di acciaio e la classe di un veterano, eppure veniva dal Sud Tirol, in prestito dalla Juve. Il riscatto fissato è altissimo perché la Juve lo tiene in considerazione per il suo futuro, era una sorta di prestito secco: non credo lo rivedremo ancora qui, a meno che non vogliano fargli fare ancora le ossa. Con Nicola inizia benissimo, tanto che diventa quasi titolare inamovibile. Poi proprio contro la Juve va in confusione e fa una pessima partita. Con Sousa avrà poco spazio, ma perché non c'è molto tempo per esperimenti e bisogna portare a casa la salvezza.

Coulibaly 9: quando Lassana gioca bene, non ce n'è per nessuno. In qualsiasi campo, contro qualsiasi squadra, al San Siro come al Santiago Bernabeu. Ha avuto anche i suoi momenti di calo, naturalmente, ma nel complesso ha fatto delle prestazioni così degne di nota e così determinanti per la squadra che lo piazzo tra i calciatori fondamentali per la salvezza di quest'anno. Al pari di Sambia, è uno degli atleti che più mi fanno amare ancora questo sport. Ha imparato pure a segnare: per me è da top club, ma spero che resti a Salerno.

Maggiore: 5,5: anche lui ha avuto un infortunio che gli ha condizionato la stagione. Però quello che ho visto non mi ha soddisfatto, speravo molto ma molto meglio. Certo non ha mai demeritato chissà che in campo, ma nemmeno ha dato quello che tutti si aspettavano, visto quello che ha fatto a La Spezia e per quanto la società crede in lui. L'anno prossimo vorrei vederlo meglio.

Bohinen 6: comincia sottotono, anche lui vittima di un infortunio, dal quale però sembra non riprendersi più, intimorito nel lanciarsi nella battaglia. Con intelligenza, però, Sousa gli dà qualche possibilità, perché la classe del Professore norvegese non si discute. Il suo filtrante “no look” al San Siro illumina la partita e porta la Salernitana al pareggio contro i campioni d'Italia. Finisce il campionato in crescendo e questo fa ben sperare per l'anno prossimo.

Candreva 9: Mast'Antonio. Esperienza. A 36 anni corre più di tutti e gioca più di tutti. I suoi gol sono da cineteca ed entrano nella storia centenaria della Salernitana. Il pallonetto all'Olimpico contro la Lazio, il cross sbagliato contro l'Inter, il gol salvezza contro l'Atalanta, la perla contro la Roma...Candreva è stato strepitoso, è entrato nel cuore della città. Mi auguro di vederlo ancora indossare la nostra maglia.

Botheim 5,5: Nicola lo fa giocare pochissimo, nonostante il gol contro la Sampdoria e il bellissimo assist per Dia contro il Verona. Per quanto ben dotato tecnicamente, mi sembra un po' leggerino per il nostro campionato. Sousa lo impiega e gli fa fare un po' le ossa, ma resta un incognita per il prossimo campionato: un attaccante deve sapersi fare strada a spallate per emergere e il buon Erik deve entrare nella mentalità di questa squadra. Chi lo ha seguito in questi anni e ha investito ne saprà più di me, per cui rimando il giudizio definitivo.

Piatek 6: gli metto la sufficienza nonostante i tanti gol sbagliati e le bestemmie della tifoseria. Certo non verrà riscattato dall'Herta Berlino, anche perché 10 milioni sono troppi e il suo ingaggio è alto. Però, mi perdonerete, merita la sufficienza per le tante partite nelle quali ha giocato quasi da solo in avanti, facendo a sportellate con tutti, fornendo assist decisivi, creando spazi fondamentali nelle azioni di attacco. Un altro attaccante avrebbe fatto meglio, ma la salvezza è anche merito suo.

Bonazzoli 4,5: è un grande calciatore, ma contemporaneamente è anche un cretino. Come possa sprecare il suo talento lo sa solo lui. L'anno scorso è stato l'eroe della salvezza con i suoi dieci gol decisivi. Quest'anno torna il giocatore involuto, che sbraita se sta in panchina, che fa le storie Instagram in bianco e nero col volto triste...Insomma, uno strazio. Eppure, visti anche i limiti di Piatek, c'era bisogno anche di lui, che invece è su un altro pianeta, pensando a chissà che cosa. Finisce la stagione in panchina perché Sousa non tollera il suo atteggiamento durante gli allenamenti. Probabilmente andrà via e credo che tutti i tifosi saranno d'accordo.

Dia 9: giocatore delizioso, uomo straordinario, dal carattere umile. Un campione. Con 16 gol fa impazzire una città ed entra nella nostra storia. Al Maradona fa un tunnel a Osimenh, guarda la linea oscura del tiro, fa un passettino coperto da 5 difensori del Napoli, e di sinistro con un tiro parabolico e geniale trafigge Meret. Questo suo gol segnerà la mia vita: ero tra le migliaia di persone pronte ad accogliere lui e la squadra all'Arechi al ritorno dopo la partita. Ora lo vuole mezza Europa e Iervolino fissa il prezzo ad oltre trenta milioni di euro. Li vale tutti, forse anche di più. Comunque vada, dovesse partite o meno, Boulaye resterà per sempre nei nostri cuori.

Nicola 4,5: aveva tra le mani una buona squadra, ma ha fatto di tutto per sminuirne il valore. Forte del miracolo dello scorso anno, viene riconfermato a furor di popolo. Il 3-5-2 è quello lì e sembra non discostarsene mai. Per alcune partite funziona, il primo tempo contro la Juve è da conservare nella storia. Fa pure diversi punti e non siamo mai in zona retrocessione, perché vinciamo gli scontri diretti in casa. Il calendario del girone di ritorno, però, è più tosto e fa paura. Le sconfitte pesanti a Sassuolo e Monza però lasciano sbalorditi, la squadra sembra non essere in campo. Come è possibile? Resta in sella fino al disastro di Bergamo, poi viene richiamato, quindi perde anche a Verona e Iervolino è costretto a mandarlo via definitivamente. Pesano sul suo esonero alcune errori di valutazione su calciatori che poi si faranno valere con Paulo Sousa: quando cambia modulo è per mettere tutti dietro la linea della palla, per cui la Salernitana non tira più in porta. Finisce con lo spogliatoio contro, un gruppo che non ha saputo gestire e che, senza volere entrare nel gossip, non aspettava che un altro allenatore.

Paulo Sousa 9: quando arriva la squadra è impaurita, non gioca più a calcio, la zona retrocessione non è poi così lontana. Il mister però non ha intenzione di portare a casa la salvezza con pragmatismo e con i muscoli. Non è Semplici o Iachini. Sousa vuole fare di questo girone di ritorno il primo tassello di un percorso di crescita che guardi al futuro del club. Per cui la squadra deve avere fiducia e costruire gioco, deve avere coraggio e lottare contro ogni avversario, anche fuori casa e anche contro le Big del campionato. La Salernitana non tirava più in porta: lui mette due trequartisti dietro la punta e trova un legame tra centrocampo e attacco. Ma è tutta la squadra ora a muoversi in sincrono, corta e aggressiva, verso la porta avversaria. I singoli calciatori vengono motivati e ciascuno trova il suo ruolo nello sforzo collettivo. Dopo ogni partita, è un piacere ascoltare il mister in conferenza stampa spiegare il calcio a noi profani, a noi tifosi abituati ai cross in avanti per pennellone Djuric e che Dio ce la mandi buona. Perché Sousa durante gli allenamenti, al di là di tutto quello che ho detto, riesce a spiegare ai calciatori gli schemi e i movimenti adatti. Finisce la stagione da vero e proprio guru, parlando al cuore della città, facendoci sognare tutti.

De Sanctis 8: deve fare un lavoro enorme appena arrivato, ovvero piazzare i 20 calciatori della Fabianese, tutta gente di serie C, che ci è stata accollata per anni dal buon pasticciere Angelo Mariano. Si mette di buona lena e li piazza tutti, da Sanasi Sy e “Papa Wojtyla” Jaroszinsky fino a Orlando, Castillo e Kristoffersen. Solo per questo meriterebbe un plauso. Con Nicola la squadra va in confusione e tanti suoi acquisti sembrano dei bidoni. Il tempo gli darà ragione, perché i vari Bradaric, Sambia, Daniliuc, Vilhena si faranno valere. Azzecca l'operazione Dia e porta a Salerno con una mossa geniale nel mercato di riparazione la leggenda messicana Memo Ochoa. Ovviamente qualche errore lo fa pure lui, ci mancherebbe, il budget a sua disposizione era sostanzioso, ma il voto alto alla fine si giustifica con un dato di fatto molto semplice: 42 punti, salvezza acquisita a due giornate dalla fine, migliore campionato della nostra storia.

Iervolino 10: quando è arrivato ha detto che il suo obiettivo era diventare il presidente più benvoluto della storia della Salernitana. Dopo solo un anno e mezzo, c'è già riuscito.

Negri oltre Negri

Nel primo post di questo blog ho scritto di Costanzo Preve, per cui mi sembra giusto, per “par condicio”, dire due cose sul suo acerrimo nemico filosofico e politico, ovvero Toni Negri.

Negri è stato uno dei marxisti italiani più brillanti ed eterodossi del Novecento e questo è stato possibile perché ha iniziato il suo percorso intellettuale e politico nel primo operaismo, quello di Raniero Panzieri e Mario Tronti. In due righe sintetizzare cosa sia stato l'operaismo italiano degli anni '60 è impossibile, però se lo devo mettere qui come slogan posso ricordare l'articolo “Lenin in Inghilterra” di Tronti, per cui le lotte operaie sarebbero dovute essere più efficaci nel punto più alto di sviluppo del capitalismo, l'apertura nietzschiana della classe operaia composta da barbari in lotta contro la civiltà, una classe operaia senza alleati, la critica alla neutralità della scienza fatta da Panzieri, l'analisi del capitalismo come pianificazione e non come anarchia di interessi...etc.etc.

Su questa base, il primo Negri sviluppa negli anni '70, fino al suo arresto, tutta la sua teorizzazione della autonomia operaia, quella dei “libri del rogo” (Feltrinelli editore che se li vendette alla polizia) da “Dominio e sabotaggio” alle “Trentatré tesi su Lenin”, fino ad arrivare all'operaio sociale, che è il primo momento nel quale Negri intuisce l'avvento della fase post-fordista del capitalismo. In carcere e poi in esilio in Francia, Negri comincia ad approfondire tematiche più filosofiche e farà la sua ibridazione del marxismo con il pensiero di Foucault, Deleuze e Guattari, Spinoza letto da Deleuze. Questo incrocio è davvero originale e ancora oggi viene osteggiato da tutte le altre correnti marxiste. La lettura dei Grundrisse che Negri fa in “Marx oltre Marx”, con l'idea del superamento della teoria del valore, risente appunto delle influenze francesi.

La terza stagione negriana è quella del ritorno in Italia e del successo mondiale di “Impero”, scritto con Micheal Hardt, testo che viene adottato come manifesto da parte del movimento no global. Si è scritto molto su questo testo, che all'epoca mi piacque molto. Oggi posso dire che la parte più interessante è quella filosofica di ispirazione spinoziana, mentre le teorie sul declino dello Stato erano molto forzate e soprattutto Negri conservava, sia pure nel suo originale slang eretico, una persistente adesione all'ortodossia economicista di Marx, secondo la quale un soggetto (non più la classe operaia, ma le “moltitudini”) interno allo sviluppo del capitalismo avrebbe condotto immediatamente (termine molto negriano) all'avvento del comunismo, una volta crollato l'involucro di dominio che nega questa realizzazione.

Praticamente Negri struttura la sua tesi delle moltitudini in conseguenza allo sviluppo dell'operaio sociale: nel capitalismo post-fordista e immateriale le moltitudini sono il soggetto rivoluzionario perché costruiscono la cooperazione, che è la base del superamento del capitalismo. Su questo punto specifico, devo dare ragione a Costanzo Preve quando rilevava che non esiste questo passaggio meccanico perché nella forma egemone dell'azienda capitalista (come avrebbe detto Bordiga) non c'è nessuno spazio per la cooperazione. Tanto più che la classe operaia fordista si era già dimostrata storicamente non essere una classe capace di superare il capitalismo, smentendo così Karl Marx.

Nella sua trilogia composta da “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”, Negri afferma di non essere anarchico ma comunista perché ha fiducia nella forza della cooperazione di questa nuova classe operaia, una cooperazione che è immanente ai rapporti e alla forma di produzione odierna. Preve apostrofava l'autonomia operaia come la manifestazione italiana dell'anarchismo (credendo così di farle torto): qui invece Negri riprende secondo me una tradizione che è la parte meno attuale del marxismo, ovvero quel meccanicismo economicista che è mezzo messianico e mezzo scientifico. Il pensatore che ha fatto incontrare Marx con Nietzsche, alla fine mi sembra che recuperi proprio l'esatto opposto, cioè lo spettro di Hegel.

In conclusione, devo dire che a mio modestissimo parere Negri ha avuto il grande merito di svecchiare una dottrina, quale quella marxista, che è sempre stata un gigante dai piedi di argilla, perché si basa su presupposti scientifici che non lo sono. In sostanza, è stato un fatto positivo che diverse generazioni di militanti comunisti abbiano conosciuto grazie a lui filosofi come Foucault, Deleuze e Guattari. Questo, come dicevo sopra, è stato possibile perché (sempre secondo le mie personalissime opinioni) l'operaismo italiano di Panzieri e soci è stato l'ultimo disperato tentativo di salvare il marxismo. Negri si è preso il compito di attualizzare l'operaismo dopo la fine del fordismo, e così dopo il crollo del Muro di Berlino ha potuto presentare una forma di marxismo non coinvolto nel fallimento del socialismo reale che non fosse povero di idee come i trotzkismi di vario genere e il marxismo anglosassone che era rimasto fermo agli anni '60.

Se devo leggere oggi quello che resta del dibattito in ambito marxista (mi capita sovente di leggere alcuni teorici antispecisti che si rifanno al marxismo hegeliano) provo un profondo imbarazzo, perché almeno Negri ci ha messo un po' di fantasia mentre questi stanno ancora al materialismo dialettico. Detto come battuta, ma non troppo.

Giuseppe Mahatma Gondeh: il peggior politico della storia repubblicana

Premessa. Siccome sono sul mio blog, scrivo quello che cazzo mi pare. E quindi sono giustificato da me medesimo a spararla anche grossa, fosse solo per provocare l’utente medio del Left Twitter, quello che crede, come il cantante Al Bano Carrisi, che Putin sia stato costretto dagli americani a invadere l’Ucraina. E quindi comincerò a disegnare questo breve ritratto di Giuseppe Conte affermando inequivocabilmente che egli è stato ed è tuttora la peggiore sciagura per il nostro paese, peggio pure di Matteo Renzi. E qui immagino che l’utente medio del Left Twitter italiano la prenda pure peggio della cosa che ho appena scritto su Al Bano e Putin.

Quindi, partiamo. Quali sono le malefatte del nostro avvocato di Volturara Appula? Numero uno. Giuseppe Conte viene scelto come “Avvocato del popolo” da Beppe Grillo e Luigi Di Maio per la sciagurata avventura del governo insieme alla Lega di Matteo Salvini. Quello di cui, secondo la famosa opinione del comico genovese fondatore del MoVimento 5 Stelle, ci si poteva fidare. La carriera politica del Nostro nasce quindi sotto pessimi auspici. Al governo, grazie a milioni di voti provenienti dal meridione, arriva quello che “senti che puzza scappano anche i cani”. Per cui già questo potrebbe bastare per condannare l’untuoso avvocato pugliese: ha permesso al peggiore esponente razzista (prima contro i meridionali, poi contro tutti gli stranieri, soprattutto quelli di pelle scura) di poter dettare legge. Salvini arriva al governo con la metà dei voti dei 5 Stelle, ma finisce per invocare “Pieni poteri” e alle Europee arriva al 40%. La decisione di Beppe Grillo di fidarsi di Salvini è stata una delle peggiori sciagure accadute nel nostro paese, e per questo non possiamo che ringraziare colui che ne è stato il primo beneficiario, passando da ministro in pectore del governo grillino monocolore mai realizzato, a primo ministro della Repubblica.

Conte Uno con Salvini, quindi. Per cosa possiamo ricordarlo? Innanzitutto, per smontare immediatamente quella che è forse l’unica cosa che potrebbe essere richiamata a suo vantaggio, il reddito di cittadinanza, misura tanto attesa da milioni di persone in tutta Italia, ricordiamo che essa fu prorogata con un taglio decisamente razzista. Per fare contento Salvini, il reddito non venne assegnato a chi avesse meno di dieci anni di residenza in Italia. A conti fatti, milioni di lavoratori e lavoratrici o disoccupate e disoccupati migranti presenti da anni nel nostro paese, sono stati esclusi dal sussidio. Una cosa che recentemente le istituzioni europee hanno giudicato fortemente discriminatoria. Ma non c’è problema, perché nel frattempo il reddito è stato abolito dal governo Meloni, quello che Conte ha fatto nascere rompendo l’alleanza con il PD pur di non affondare alle elezioni.

Accontentato Salvini sulla misura bandiera dei 5 Stelle, come non accontentarlo sulla misura bandiera della Lega? I decreti sicurezza, noti appunto come decreti Salvini, sono tra le peggiori leggi mai promulgate in Italia dai tempi del Duce. Questa infamia ricade oggi anche su Sergio Mattarella, che le ha approvate. Se le persone continuano a morire sui barconi a pochi metri dalle coste, come a Crotone qualche giorno fa, la colpa ricade sempre su colui che guidava il governo Conte Uno. Giuseppe Conte, appunto.

Altra misura bandiera, questa volta di nuovo dei grillini, la riforma della giustizia del ministro Bonafede, stretto collaboratore di Conte, anzi, proprio colui che ha portato l’avvocato con i capelli unti in politica. A parte la vergognosa abolizione della prescrizione, altre misure adottate per le carceri si faranno sentire durante la pandemia, quando nel penitenziario di Modena avviene uno dei peggiori eccidi di Stato della storia italiana, con le guardie che sparano sui detenuti, uccidendo nove persone. Chi era il capo di stato in quel momento? Esatto. Questo era il Conte Due. Visto che parliamo di pandemia, come non ricordare la sciagurata decisione di non fare la zona rossa ad Alzano e Nembro. Per non scontentare Confindustria, sono morte migliaia di persone. Certo, si potrebbe dire: ma Giuseppe Conte non ha mai capito un cazzo di niente, perché mai avrebbe dovuto capirne di misure pandemiche? In effetti l’obiezione ha un suo senso, ve lo concedo.

Arriviamo a un’altra perla di Giuseppi, il politico italiano tanto amato da Donald Trump. Già nel primo programma elettorale dei 5 stelle c’era una forte richiesta di togliere le sanzioni alla Russia, che nel frattempo aveva infiltrato vari governi in tutto il mondo, finanziato la destra cattolica integralista internazionale (citofonare Pillon e Fontana), invaso vari paesi, usato armi chimiche assieme ad Assad e distrutto Aleppo, avvelenato gli oppositori politici, ucciso i giornalisti indipendenti, eccetera, eccetera, eccetera. Il governo Conte è grande un amico della Russia, ci sono le foto dei brindisi in ambasciata. Gli accordi economici con lo stato terrorista russo sono enormi. Tanto che oggi, di fronte ad un paese che resiste eroicamente e drammaticamente al genocidio perpetrato da parte di Putin, la proposta del leader ora diventato pacifista, Giuseppe Mahatma Gondeh, è chiara: non date le armi all’Ucraina, non sia mai debba rispedire i russi a casa loro.

Siamo arrivati alla fine, più che altro perché mi sono stancato di scrivere. L’infamia che circonda quest’uomo è solo in minima parte diffusa nell’opinione pubblica, che lo aveva addirittura incoronato come il leader del nuovo fronte progressista. Si sa che in politica vale tutto e il contrario di tutto, così come le giravolte e i cambi di campo sono all’ordine del giorno. Io però credo di vedere una certa linea di continuità nell’operato di quest’uomo. Dalla repressione alle leggi razziste, dal sostegno ai dittatori al giustizialismo nei tribunali, dalle stragi nelle carceri a quelle in mezzo al mare. Io vedo una bella linea di continuità: mi pare ingiusto accusare l’avvocato di essere un voltagabbana. Diamogli un merito, è stato ed è coerente: è il peggior politico della storia repubblicana.